I dati statistici sono essenzialmente la versione moderna dei miti: entrambi, per dimostrare una qualche verità, hanno bisogno di essere collocati all’interno di un racconto. Zeus, i dati o le religioni, a prescindere dalle epoche, hanno più o meno la stessa funzione: raccontare ai popoli una qualche verità, orientandone i comportamenti, i costumi e le morali. Il racconto, qualunque esso sia, soffre intrinsecamente di un’alea relativa alle interpretazioni e alle parole. Fortunatamente, al contrario del padre di tutti gli dei, la cui esistenza certa non poteva essere dimostrata, la fallacia di alcune verità, o interpretazioni, mostrate attraverso i dati è ben visibile (almeno a chi abbia un minimo di reale cultura scientifica). Recentemente, mi sono trovato a dover discutere (tempo perso, lo so, perché, spesso, gli interlocutori ti trascinano al loro livello – di ignoranza – e ti battono con l’esperienza) con alcuni sedicenti esperti, che avevano la pretesa di voler dimostrare un certo andamento del mercato del lavoro italiano rispetto a quello europeo, attraverso un confronto con i dati Eurostat. La dimostrazione non era in buona fede, perché nella testa degli “esperti” i risultati erano già stati scritti, come accade spesso, dall’ego di un intuito infallibile: i dati sarebbero serviti semmai a supportare “scientificamente” il sesto senso. In poche parole, l’Italia sarebbe dovuta risultare il fanalino di coda in termini di occupazione di alcune professioni, per dimostrare che i Paesi migliori sono quelli con pochi filosofi e con molti ingegneri. A supporto di questa discutibile operazione (dov’è scritto che in un Paese con molti ingegneri la vita, al di là degli interessi legati al consumo e alla tecnica, sia migliore rispetto a un altro in cui prevalgano l’arte e la poesia?) poco rigorosa c’era quella che veniva considerata un’evidenza incontrovertibile: tutti i Paesi europei, utilizzando gli stessi sistemi classificatori, producono dati confrontabili per definizione. Ebbene, questa è una sciocchezza tale da non meritare nemmeno un contraddittorio. Al più, un’osservazione di questo tipo avrebbe spinto Galileo Galilei a prendere a schiaffi coloro i quali, dopo cinquecento anni e quintali di saggi, ancora non siano in grado di fare un ragionamento partendo da una base scientifica.
Dimostrare l’assoluta mancanza di senso di questo genere di confronti è abbastanza banale e si può fare con un esempio facile facile. Supponiamo di avere una casa con venti stanze a forma di parallelepipedo disposto con un lato corto a Nord e con l’altro lato a sud. Le stanze di questa abitazione sono disomogenee: alcune hanno le finestre, altre non le hanno, alcune sono grandi e altre sono piccole, alcune sono esposte al sole tutto il giorno e altre al freddo, alcune hanno dei vetri rotti e altre non hanno le porte, alcune hanno gli infissi in alluminio e altre in legno, alcune sono isolate termicamente e altre hanno il tetto in lamiera. Diciamo subito che, se si volesse climatizzare l’intero appartamento, conoscere la temperatura media di tutta la superficie sarebbe abbastanza irrilevante (a meno che non si vogliano avere 40° in una stanza e 10° in un’ altra, per vantarsi con gli amici di quei 25° di media). Sarebbe altresì irrilevante conoscere la temperatura misurata in ogni singola stanza, perché, un eventuale sistema di riscaldamento, probabilmente, in inverno, nelle stanze senza finestre, non riuscirebbe a ottimizzare la temperatura a 20°. O forse ci riuscirebbe, consumando uno sproposito di energia, se la stanza in questione non fosse troppo grande. Appare abbastanza evidente che, nonostante i miracoli della termodinamica e della scala Celsius, il sistema e la tecnica di misura non è sufficiente a garantire la confrontabilità dei dati. Come prima cosa è necessario “riprodurre le condizioni del laboratorio all’interno del vascello”, per dirlo con le parole di Galileo, ovvero riparare le finestre, le porte e fare in modo che i diversi ambienti abbiano le stesse condizioni iniziali. Condizioni che, nonostante gli interventi, non saranno mai proprio le stesse, in quanto dipenderanno dall’esposizione, dalla grandezza delle stanze, dall’isolamento, dagli spifferi, etc.
Se è chiaro questo esempio, possiamo immaginare che le venti stanze siano l’Italia e applicare queste considerazioni alle misure relative a un certo fenomeno. Prenderemo in esame i dati riguardanti il COVID (così nessuno si farà male), ma potremmo prendere come riferimento qualsiasi altro tema (occupazione, demografia, incidenti stradali, prezzi al consumo e via dicendo), perché in rete c’è uno studio, condotto da alcuni ex colleghi dell’INFN, che può insegnare un minimo di metodo a chi, pur essendo esperto, non ha molta dimestichezza con il rigore scientifico. Lo studio è consultabile a questo indirizzo https://www.mdpi.com/2036-7449/13/2/30, ma noi non lo analizzeremo tutto: prenderemo in esame soltanto alcune parti indicative.
La prima cosa che salta all’occhio riguarda la prima fase del metodo: l’osservazione. In questo caso, si tratta della mortalità nel corso degli anni (le fonti dei dati sono ISTAT e Dpc).
L’osservazione, che sia a supporto di un processo induttivo o deduttivo, è fondamentale per verificare la possibilità di descrivere un fenomeno attraverso una legge matematica. In questo caso, la legge è abbastanza semplice (si tratta di una funzione goniometrica con ampiezza e fase variabili in funzione del tempo).
Pur descrivendo l’andamento totale della mortalità (temperatura?) nel corso del tempo, questa misura non fornisce una descrizione di cosa accade nelle diverse stanze (regioni), proprio perché ciascuna stanza è diversa dalle altre.
Andando avanti con l’analisi, ci si accorge che una semplice suddivisione delle stanze in 4 categorie (Nord, Centro, Sud e Isole), descrive e dimensiona lo stesso fenomeno, descritto dalla stessa legge, in modo un po’ diverso (l’andamento della mortalità in tre zone è pressoché stabile negli anni, mentre al Nord la situazione è diversa). Trattandosi di un’analisi a posteriori, va da sé che le decisioni prese sul momento, e riguardanti le questioni di salute pubblica, non potevamo tenere conto dell’insieme di questa aspetti (anche se, col senno del poi, quei bollettini sui decessi quotidiani erano al limite del grottesco e privi di ogni attendibilità).
Ci sono poi ulteriori approfondimenti che riguardano le fasce d’età e altri aspetti non trascurabili che rimando alla lettura dell’articolo completo.
Cosa insegna l’analisi dell’INFN? In primo luogo, insegna che le misure, per fornire informazioni corrette e confrontabili, devono rispettare un approccio scientifico al problema, ovvero essere funzionali a una legge generale (anche se, nel caso COVID, parlare di legge è un po’ eccessivo) che consenta, a partire da certe condizioni iniziali, di riprodurre l’osservazione e di verificarla sperimentalmente. Poi, insegna che le narrazioni ottenute a partire dai dati dipendono dal narratore, dalla sua buona o cattiva fede, dal suo senso critico e dalla capacità di condurre analisi più o meno approfondite. Infine, insegna che le condizioni in cui si effettuano le misure non sono affatto irrilevanti, perché influenzano la misura stessa esattamente come il punto di vista dell’osservatore. Infine, insegna che da una raccolta dei dati priva di fondamento scientifico non è possibile ottenere analisi (e confronti) di qualità e che ogni misura, per essere tale, deve essere sempre corredata dall’errore (cosa che vedo fare in rarissimi casi, anche nelle pubblicazioni di un certo livello).
A comparison has also been carried out between the number of deaths provided by ISTAT in the period corresponding to the first wave of the pandemic and the numbers provided by DPC in the same period for the deaths directly attributed to COVID-19. We found a rather large discrepancy, amounting to 18,919 ± 557 deaths over a total of 54,387 ± 557
Sulla base di queste poche osservazioni, che meriterebbero uno spazio senz’altro più ampio, mi chiedo come si possa confrontare, che so, l’occupazione nella cantieristica navale tra l’Italia e la Germania e pensare che un accostamento di questo tipo abbia realmente un contenuto informativo degno di essere raccontato. Forse è solo una mia impressione: probabilmente il fatto che in Italia vengano assunti più saldatori subacquei o che la Germania sia il fanalino di coda nella produzione di pescherecci è un dato importante. O forse no, dal momento che il Mar Crucco ancora non è presente nella carta geografica. Guardando oltre i paradossi, e focalizzando l’attenzione su aspetti meno fantasiosi, mi chiedo se abbia senso confrontare l’occupazione di tecnici e ingegneri, nel settore nucleare, tra la Francia e l’Italia, se in un Paese le centrali sono state dismesse da quarant’anni e nell’altro sono la principale fonte energetica? È abbastanza evidente che questo tipo di misure sono influenzate dalla disponibilità o meno di materie prime e dalle condizioni economiche, sociali, climatiche, storiche politiche, territoriali, industriali e culturali, che rappresentano esattamente le differenze tra le stanze del nostro appartamento: qualsiasi confronto, eseguito su quei presupposti, è uno sterile esercizio di artata narrazione che non ha niente in comune con il rigore scientifico. Siamo sicuri che se Milano avesse un porto, il mare, una temperatura afosa e torrida e una storia dominata da ogni tipo di cultura, l’occupazione sarebbe diversa da quella di Palermo? Forse sì, forse no, l’unica certezza è che le misure “serie” devono rispettare il metodo scientifico e di conseguenza la “riproducibilità dell’esperimento” a partire da certe condizioni. La famosa storia (falsa) della torre di Pisa, insomma. Lascio cadere una piuma e una palla di ferro (una, cento, mille volte) e mi accorgo che, nelle stesse condizioni, ovvero senza attrito, entrambe impiegano lo stesso tempo per arrivare a terra, rispettando la stessa legge oraria. In effetti, per ovviare a questa mancanza di scientificità, si cercano degli stratagemmi (per esempio le unità di lavoro locali, al fine di definire aree omogenee all’ interno delle quali misurare l’occupazione) che, seppur molto meno rigorosi della gravitazione universale, risolvono in parte le questioni riguardanti la confrontabilità.
Ci sarebbero decine di esempi da portare, ma preferisco fermarmi qui. La mia raccomandazione, quando si è di fronte al racconto (privo di rigore scientifico) di un qualsiasi fenomeno , è di porsi criticamente di fronte alle interpretazioni e di chiedersi se le stanze dell’appartamento siano state adeguatamente trattate. Chi salirebbe su un aereo, se, al posto delle leggi della fluidodinamica (riproducibili, confrontabili e descritte da leggi fisiche precipue), il decollo e l’atterraggio fossero affidati al corrispettivo di uno dei tanti modelli posticci utilizzati in molte analisi, che, a volte, hanno anche l’ambizione di prevedere fragilmente il futuro? Se la possibilità di atterrare fosse affidata all’imprevedibilità di una guerra, di un’epidemia, di una carestia o di un terremoto, come accade in molti modelli previsionali, nessuno volerebbe più, questo è certo. Pensandoci bene, questo sarebbe un buon modo per disincentivare i voli e ridurre il traffico aereo.