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Mese: Novembre 2020

Io lavoro data driven, parola di Galileo Galilei

Posted on 15 Novembre 202011 Giugno 2021 by admin

E pur si muove, non disse Galileo, perché in realtà la frase fu coniata da Giuseppe Baretti, per abiurare la sua stessa abiura. Basterebbe questa contraddizione, per rendersi conto di quanto sia affascinante e controversa la storia di quest’uomo, che ha contribuito in modo determinante alla crescita della conoscenza collettiva. Le intuizioni di Galileo Galilei, le sue idee e il suo coraggio hanno trasformato lo studio della scienza, che per molti secoli è stato una “questione filosofica” e da un certo punto in poi è diventata “moderno”. ll giovane Galileo, benché fosse anarchico e ribelle, ha subito fortemente l’influenza del pensiero di Aristotele e ha mostrato qualche ragionevole dubbio (chi non l’avrebbe avuto?), prima di mettere nero su bianco il suo metodo scientifico e stravolgere completamente e irreversibilmente lo studio dei fenomeni naturali. Lo strumento narrativo scelto da Galileo per raccontare i risultati delle sue ricerche fu il dialogo tra il galileiano Salviati, l’aristotelico Simplicio e il saggio Sagredo. Nella sua opera più celebre, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, è riportata la frase che decreta contemporaneamente la fine dell’approccio filosofico alla scienza e la fine del sistema tolemaico: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri,ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica,e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente la parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Poiché questa affermazione avrebbe potuto essere fraintesa, il fumantino Galileo scrisse, nella Lettera a Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana, anche le istruzioni per l’uso del metodo. Probabilmente, infervorato dalla grandezza delle conclusioni a cui era giunto, si fece prendere un po’ la mano dall’entusiasmo e, visto che c’era, dichiarò anche guerra alla chiesa. Così, in un colpo solo, uccise contemporaneamente Aristotele e Dio. La frase incriminata è la seguente: “pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante”.

In poche parole, Galileo afferma che per descrivere i fenomeni naturali la fede e la filosofia non servono, bisogna ricorrere alla “sensata esperienza” e alle “necessarie dimostrazioni”, ovvero a quei metodi che nei testi moderni prendono il nome di metodo deduttivo e metodo induttivo. Le conclusioni che si traggono da questo metodo non debbono essere messe in dubbio anche laddove le Scritture affermano il contrario. Il tutto preceduto da una parola che viene ancora usata beffardamente per esporre un’idea senza esporsi alla gogna: pare. Di solito funziona, tranne quei casi in cui c’è di mezzo la Santa Inquisizione…

Perché scomodare addirittura l’anima tormentata di Galileo, che già in vita aveva avuto i suoi tormenti con l’aldiqua, per parlare della logica data driven? Perché, in qualche modo, nella descrizione del cimento (esperimento) in cui vengono sintetizzati i risultati della sensata esperienza riguardante il moto di un corpo lungo un piano inclinato, vengono gettate le basi non solo per interpretare i fenomeni naturali ma per descrivere qualsiasi tipo di fenomeno. In poche parole, l’esperimento galileiano attraverso il quale si dimostra la teoria del piano inclinato passa attraverso 4 fasi: l’osservazione, la rilevazione dei dati per mezzo della  misura, l’analisi e le conclusioni. Praticamente, gli stessi passaggi necessari a un manager per prendere delle decisioni consapevoli. Supponiamo per assurdo, molto per assurdo, che un Galileo dei giorni nostri, un po’ meno arruffone di CarCarlo Pravettoni, sia chiamato a decidere se mantenere aperta la sede di una certa azienda, se erogare un servizio di assistenza informatica h24, o come riallocare il personale rispetto allo smart working, o ancora come ottimizzare gli spazi, valorizzare il personale o definire in modo imparziale eventuali avanzamenti di carriera. Sicuramente, per evidenziare l’importanza dei dati a supporto delle decisioni, Galileo scriverebbe un trattato, sotto forma di dialogo, tra Salviati, il sostenitore del cambiamento, e Simplicio, quello resistente e ancorato alle vecchie dinamiche lavorative.

Salviati: Continuar così è da dementi, lo mondo intorno a noi è cambiato e mi dolgo che tu non ne favelli.

Simplicio: Lo mondo ha sempre funzionato così.

Salviati: Lo germe maligno di Arisotele ti fa proferir bestemmie… la natura “ha sempre funzionato così”, non l’umano e insulso mondo

Simplicio: Io dico che lo sommo manager perderebbe il controllo dei dipendenti, se si attuerebbe lo smart working.

Salviati: Attuasse, Simplicio, attuasse… A parer mio, lo sommo manager ha paura di cambiare perché vuol mantener lo magno potere.

Simplicio: Lo magno potere regola lo mondo.

Salviati: C’è mondo e mondo! Lo mondo sensibile è regolato dallo magno potere della natura. Lo mondo di carta è regolato da quel coglion poter di quei che portan toga. E io ne scrissi, di questi sventurati… Questi dottor non l’han mai intesa bene, Mai son entrati per la buona via, Che gli possa condurre al sommo bene. Perchè , secondo l’opinion mia, A chi vuol una cosa ritrovare, Bisogna adoperar la fantasia, E giocar d’invenzione, e ‘ndovinare;

Simplicio: Dio solo sa quanto lo cambiamento fa paura.

Salviati: L’uomo creò dio a sua immagine, per spiegar quel che intender non sa. Questo par che c’insegni la natura, Che quand’un non può ir per l’ordinario, Va dret’a una strada più sicura. Lo stil dell’invenzione è molto vario, ma per trovar il bene io ho provato che bisogna proceder pel contrario: cerca del male, e l’hai bell’e trovato. Però che ‘l sommo bene e ‘l sommo male s’appaion com’i polli di mercato.

Simplicio: Mi confondi, maestro, col tuo eloquio…

Salviati: Lasciamo stare lo poter togato, io mi rivolgo all’uom più che intendente e con buona veduta d’orizzonte. Perché degli altri dissi apertamente Se tu gli tasti, o son pieni di vento, O di belletti o d’acque profumate,O son fiascacci da pisciarvi drento. Dammi lo dato d’ogni dipendente, affinché io possa con certezza, promuovere o bocciare chiaramente.

Simplicio: Lo dato ce l’abbiamo frammentato, così da favorir la simpatia e spesso seppellire l’intelletto. La colpa non è mia, ma del togato colpevol d’ogni frode e d’ogn’inganno. Si vede chiaro che n’è sol cagione insieme allo maligno sindacato.

Salviati: Mi dici che dovrei avere intorno, al posto di un esercito pensante, masse di invertebrati perdigiorno?

Simplicio: Lo volere dell’uomo è irrazionale.

Salviati: Lo mio volere è la verità e l’uomo preferisce la menzogna.

Un dialogo simile, coi dovuti adeguamenti lessicali, non sarebbe affatto surreale anche perché alcune frasi sono state scritte realmente da Galileo nel Capitolo contro il portar toga, un sonetto lungimirante e futuristico che inizia descrivendo la cecità di colui che cerca il sommo bene laddove non esiste.

Mi fan patir costoro il grande stento,

Che vanno il sommo bene investigando,

E per ancor non v’hanno dato drento.

E mi vo col cervello immaginando,

Che questa cosa solamente avviene

Perchè non è dove lo van cercando

Un manager galileiano che abbia il coraggio di adottare un metodo pseudoscientifico per affrontare l’ingrato compito di prendere le decisioni più adeguate ai problemi, dovrebbe in primo luogo osservare a lungo le dinamiche lavorative, studiare i processi e conoscere a fondo le caratteristiche del personale. Anzi, no, in primis dovrebbe contornarsi di persone fidate e competenti. Dopodiché, a seguito di un’attenta analisi degli obiettivi, strategici e non, potrebbe suddividere l’organizzazione in aree. Senza entrare nel merito delle specificità che ogni realtà aziendale possiede, si possono elencare alcune macro aree comuni più o meno a tutti i settori.

  1. Economica
  2. Logistica
  3. Produttiva
  4. Risorse umane
  5. Informatica

Ciascuna area contiene ovviamente delle specificità, alcune delle quali sono comuni a molte realtà. L’area economica comprende le spese, i bilanci e gli Investimenti, la logistica comprende le sedi, gli spostamenti e il patrimonio, le risorse umane comprendono la gestione delle carriere, la formazione, il benessere lavorativo, le competenze, la pianificazione dei abbisogni professionali e formativi, et cetera, et cetera.

I settori di un’azienda sono connessi strettamente tra loro. Come si fa, per esempio, a decidere se mantenere una sede, se costruirne una nuova o se ottimizzare gli spazi esistenti, ricorrendo a un utilizzo consistente dello smart working? Si fa col metodo galileiano: misurando, raccogliendo i dati, analizzandoli, rappresentandoli attraverso grafici e tabelle, per capire quel è la soluzione migliore e facendo una scelta consapevole, quella che, nella maggior parte dei casi, non deriva dalle sensazioni personali ma dalla razionalità. In ogni organizzazione esiste un patrimonio enorme e inutilizzato di dati e informazioni. Purtroppo, molto spesso c’è da fare una distinzione tra i dati disponibili quelli “potenzialmente” disponibili. Per esempio, sarebbe relativamente semplice adottare delle politiche consapevoli e indipendenti sul personale, se si avesse a disposizione una base dati integrata in cui far confluire tutte le informazioni riguardanti i lavoratori. Tutte le informazioni non significa il nome, il cognome e il numero di matricola, significa integrare all’anagrafica le competenze, gli stili di lavoro, le conoscenze, la formazione, l’eventuale anzianità (tanto cara ai sindacalisti) e la storia lavorativa; significa disporre di una banca dati dei curricula aggiornata e indicizzabile dai moderni sistemi di ricerca; significa, misurare gli obiettivi raggiunti, le capacità e le specificità individuali e disporre di pannelli di sintesi efficaci per capire i processi lavorativi all’interno dei quali è inserita una certa risorsa o avere un sistema di rating per definire autonomamente, senza vincoli e pressioni esterne, eventuali avanzamenti di carriera. Quali sono, dunque, gli ostacoli a una gestione consapevole del lavoro? L’ostacolo maggiore non è di natura pratica ma teorica: i dati non mentono e usarli significa privare i decisori dell’arbitrarietà di una scelta malevola. Le scelte razionali fanno paura perché costringono a prendere atto della realtà, eliminando qualsiasi forma di distorsione e di falsa narrazione. I dati possono far emergere criticità e specificità che vengono ignorate a seguito della scarsa conoscenza, dell’arroganza o, peggio, a favore di decisioni poco trasparenti. I dati dicono la verità laddove potrebbe esserci la necessità di mentire. I dati minacciano fortemente la possibilità di comandare senza possibilità di replica, di scegliere a proprio piacimento e di imporre delle regole assurde dettate dai gusti e dai capricci personali, per questo vengono ignorati all’interno di molte istituzioni pubbliche, laddove l’efficienza non è strettamente connessa alla produzione. Un’organizzazione che ignora i dati ha paura della verità e, per funzionare, ha bisogno di creare una realtà basata sulla menzogna. E chi si muove?, direbbe Galileo, se si trovasse in una situazione simile.

Trasformazione digitale, trasformazione dirigenziale

Posted on 15 Novembre 202011 Giugno 2021 by admin

Il paradosso del gatto di Schrödinger è tra i paradossi moderni più conosciuti. È nato con l’intento di dimostrare l’inapplicabilità della meccanica quantistica al mondo macroscopico, giungendo alla conclusione che, in uno stato di sovrapposizione quantistica, un gatto potrebbe essere contemporaneamente vivo e morto, se collegato a un evento subatomico casuale. Negli anni, il paradosso del gatto di Schrödinger è stato esteso metaforicamente a molte situazioni della vita reale perché la realtà ha ampiamente dimostrato che si possono verificare accadimenti strani almeno quanto il duplice stato quantico del gatto. A questo gioco, non può mancare il paradosso del dirigente di Schrödinger, quello che prende in considerazione uno stato di “distopia quantica sociale” in cui i dirigenti possono essere contemporaneamente troppi e pochi. Sono troppi, è evidente, perché il sistema e la piramide del potere, per funzionare, hanno bisogno di un esercito di manager ammaestrati dalla ginnastica di obbedienza, che a loro volta si circondano di collaboratori consenzienti e privi di senso critico. Si tratta di una nuova forma di schiavitù regolata non dalle frustate ma dalla distribuzione gerarchica di privilegi e di briciole di potere. Basta far parte della cordata giusta, per scalare in fretta la piramide e raggiungere un qualche tipo di successo. I libertari colti potrebbero pensare che si tratti di una gloria effimera sintetizzata efficacemente da Francesco Guccini, nell’Avvelenata, con tre parole efficacissime, ma, come si dice, solo gli ignoranti sono sicuri di quello che dicono e di questo ne sono certo …

Per la scalata, oltre ad agire apertamente o meno in nome di qualcuno più potente, servono anche una buona dose di cinismo e di arroganza, o, meglio, di tracotanza. Le capacità spesso sono un optional, anzi, penalizzano. Invece, un curriculum ricco di obiettivi apparentemente prestigiosi, che spesso sono costruiti ad arte o sono frutto dell’appropriazione indebita del lavoro altrui, si è dimostrato un ottimo strumento per intraprendere la scalata. La conoscenza e la consapevolezza, nelle selezioni, rappresentano un minus, poiché una testa libera, pensante e indipendente infastidisce, intralcia gli obiettivi del sistema e, soprattutto, compromette il buon funzionamento della piramide. Proprio per questo, la pubblica amministrazione in molti casi è arrivata al paradosso di selezionare i manager attraverso procedure superficiali, che, volutamente, non approfondiscono le capacità reali, ma si limitano a chiedere ai candidati un curriculum e una imbarazzante lettera motivazionale. Al contrario, i concorsi rivolti al reclutamento del personale non dirigenziale seguono orientamenti diametralmente opposti: le selezioni degli “inferiori” prevedono spesso prove multiple complesse, titoli a cui attribuire punteggi sulla base di regole fantasiose e improbabili e una serie di misure di sicurezza di ogni tipo per garantire, si fa per dire, una certa trasparenza.

L’ostacolo principale, nell’attuazione della trasformazione digitale, è essenzialmente questo: ogni tipo di cambiamento passa per le scelte di dirigenti e collaboratori che hanno tutto l’interesse a lasciare le cose inalterate o che, gattopardianamente parlando, cambiano tutto affinché non cambi nulla. In tutto ciò, il gatto di Schrödinger è un prezioso alleato perché permette, a chi agisce in malafede, di confondere gli stati quantici e di sostituire il senso del dovere col senso del potere, o la parola dirigere con la parola comandare. Nonostante il CAD preveda un insieme di compiti ben definiti e uno e un solo Responsabile per la Transizione Digitale, a cui è richiesta una precisa visione strategica e a cui è attribuito un ampio potere decisionale, le amministrazioni pubbliche tendono a tralasciare le linee guida, a sminuire la figura del RTD, e a dare libero spazio alle libere interpretazioni. Questo orientamento non sarebbe nemmeno sbagliato, se la libera interpretazione fosse supportata dalla consapevolezza e dalla conoscenza. Ma chi controlla l’operato del RTD e dei comitati di valutazione? Anche in questo caso, esistono delle procedure di valutazione delle prestazioni dirigenziali, che purtroppo sono gestite dalla stessa dirigenza e prevedono una valutazione ridicola degli obiettivi rivolta esclusivamente all’autoattribuzione di un premio in denaro elargito più o meno democraticamente a tutti, meritevoli e non.

Certo, se gli obiettivi fossero qualcosa di diverso rispetto al perseguimento degli  interessi personali e al mantenimento dei privilegi e della posizione di comando, la valutazione avrebbe una valenza diversa e la collettività ne trarrebbe beneficio. E se la valutazione fosse guidata dagli “inferiori”, e non dalla piramide, ne trarrebbero beneficio anche i lavoratori. A supporto di questa struttura sociale distopica, ci sono delle regole assurde e delle dinamiche contorte che proteggono gli interessi delle caste e danneggiano le fasce deboli, regole che solo in un Paese privo di identità e di senso critico possono essere accettate. Prima fra tutte la regola assurda, per alcune aree scritta, per altre sottintesa, che prevede la rotazione degli incarichi della dirigenza. Questo significa che un manager dell’area giuridica è difficilissimo che venga sostituito o demansionato per manifesta incapacità: il massimo della punizione a cui può andare incontro è il passaggio a un altro incarico, magari presso altre amministrazioni, a occuparsi di argomenti di cui non sa nulla, per esempio di trasformazione digitale. Quindi, nella pubblica amministrazione, accade ciò che Jhonatan Franzen ha riassunto magistralmente, nel libro Le correzioni, con queste parole: “i suoi dirigenti erano stati rimpiazzati come le cellule di un organismo vivente, o come le lettere in una partita di Substitution in cui merda diventava merla poi gerla e poi perla”.

Non sempre e non dappertutto è così, per fortuna. Ci sono dirigenti liberi, indipendenti e con la capacità e la propensione al cambiamento, ma purtroppo sono pochi e hanno la vita estremamente difficile. Le loro idee brillanti passano per la valutazione di comitati di valutazione costituiti perlopiù da dinosauri prossimi alla pensione, che lavorano da sempre nello stesso modo e non hanno alcun interesse a cambiare le cose perché l’unico interesse che coltivano è mantenere una posizione di comando. Di conseguenza, il cambiamento digitale auspicato dalla politica è, nella maggior parte dei casi, un percorso a ostacoli estremamente lento, che sfugge completamente a qualsiasi tipo di regola e di controllo . Per accelerare questo processo è necessario trasformare la dirigenza, selezionando manager competenti e capaci.

La parola competenza, come ho avuto modo di specificare in altri articoli, deve essere usata con parsimonia perché, se non viene associata a una definizione precipua, rischia di non avere un vero e proprio significato. L’evidenza dimostra che i migliori manager non sono selezionati esclusivamente sulla base delle “competenze” (reali o presunte) tecniche, ma perlopiù attraverso la verifica di un insieme di caratteristiche, difficilmente individuabili, che approfondiscono gli aspetti culturali e caratteriali dei candidati. Al contrario di quanto si pensi, la capacità di raggiungere degli obiettivi, pur essendo una caratteristica importante, spesso subordinata alle competenze tecniche, non è la caratteristica principale di un dirigente. La caratteristica principale è la capacità di creare le condizioni e la cultura lavorativa per permettere a un gruppo di raggiungere degli obiettivi. Si tratta di una capacità rara da trovare perché comprende un coacervo di caratteristiche personali, che possono essere valorizzate o sminuite dalle dinamiche interne e che potrebbero entrare in conflitto con l’intera organizzazione. Per esempio, è comprovato che la responsabilizzazione del personale e la riduzione del controllo e delle misure oppressive, sul lungo periodo, ripagano molto più di un regime oppressivo e terroristico.

Purtroppo, se l’orientamento aziendale prevede una cultura del lavoro basata sulla paura e sulle punizioni, questo genere di caratteristica potrebbe non emergere facilmente o dimostrarsi addirittura controproducente per quella particolare situazione. Lo stesso discorso vale per quei manager che tendono a favorire il benessere, l’inclusione e la condivisione della conoscenza. In un sistema fortemente competitivo, in cui prevalgono quasi sempre l’egoismo e gli interessi personali ai danni del benessere collettivo, la condivisione è controproducente: non sempre si può vantare un team composto da menti newtoniane che guardano lontano, salendo sulle spalle dei giganti. È evidente che alcune logiche distorte si possono cambiare soltanto con una narrazione diversa del lavoro e attraverso una cultura differente. Se per certi aspetti il benessere collettivo viene considerato un’utopia marxista, i risultati del malessere collettivo, perpetrati dal sistema piramidale, gerarchico e clientelare, sono una distopia reale difficilmente sovvertibile. Il potere decisionale e la visione strategica sono invece fondamentali per il raggiungimento di un obiettivo qualsiasi. Purtroppo, la parola obiettivo è astratta e fumosa almeno quanto la parola competenze: mentre è chiarissimo, per un’azienda privata, quale sia l’obiettivo da raggiungere, ovvero il profitto attraverso la vendita di prodotti o servizi, per le amministrazioni pubbliche gli obiettivi sono spesso pure invenzioni della fantasia senza alcun tipo di valenza o di riscontro pratico. Un obiettivo può essere lo studio dei neutrini attraverso LHC (l’acceleratore di particelle Large Hadron Collider), ma può anche essere la compilazione di un foglio di calcolo o la creazione di documenti inutili: a tutti gli obiettivi, per un’inspiegabile e ottusa logica di uguaglianza del pensiero, che continua a essere perpetrata dal diabolico binomio amministrazioni-sindacati, viene attribuita la stessa importanza ai fini carrieristici e remunerativi.

Questo significa che, mentre la popolazione ha ben chiara la differenza tra i benefici derivanti dalla scoperta di un macchinario per la cura dei tumori e un foglio di calcolo su cui vengono inserite manualmente delle x, per i manager, chiusi tra le mura di una pubblica amministrazione qualsiasi, mancanti di una vera visione strategica, gli obiettivi del personale sono confusi con delle attività assolutamente inutili e routinarie da utilizzare esclusivamente per dimostrare il raggiungimento dei propri obiettivi e accaparrarsi un congruo premio in denaro. E si torna all’inizio dell’articolo e al paradosso degli obiettivi di Schrödinger: un obiettivo, in uno stato quantico dipendente dalla gestione manageriale, può essere contemporaneamente prestigioso o inutile. In questo caso, però, la casualità degli eventi quantistici c’entra ben poco: dipende tutto dalla causalità con cui si scelgono i dirigenti.

Cultura digitale, nuove competenze e vecchie incompetenze

Posted on 15 Novembre 202011 Luglio 2021 by admin

Parafrasando Thomas Edison, si potrebbe dire che i discorsi sulla trasformazione digitale contengono il 99 per cento di fuffa e l’1 per cento di contenutiParafrasando Thomas Edison, si potrebbe dire che i discorsi sulla trasformazione digitale contengono il 99 per cento di fuffa e l’1 per cento di contenuti. La parola fuffa deriva probabilmente dal sostantivo maschile “fuffigno”, usato in Toscana per indicare l’ingarbugliamento dei fili di una matassa. Questa immagine è molto rappresentativa e sintetizza alla perfezione il contenuto di questo articolo, che ha la presunzione di fare chiarezza rispetto al racconto fuffigno della trasformazione digitale. La fuffa digitale comprende una vasta area tematica, che va dall’open data alle logiche top down e bottom up, in cui chiunque può permettersi di dire qualsiasi cosa, senza peraltro essere contraddetto. Per avere un contraddittorio è necessario confrontarsi con qualcuno che conosca a fondo l’argomento e la conoscenza approfondita di certi argomenti richiede, stavolta la citazione di Edison è calzante, il 99 per cento di sudore e l’1 per cento di ispirazione. Purtroppo, chi è impegnato a sudare, a studiare e a cercare l’ispirazione di solito non è un decisore politico, non fa carriera e non fa parte di nessun comitato scientifico. Anzi, molto spesso viene escluso da qualsiasi tavolo di discussione proprio perché, contraddicendo, infastidisce.

D’altronde, la vasta area tematica della fuffa digitale dà l’illusione a inesperti e arrivisti di poter comprendere a fondo un fenomeno molto complesso, leggendo qualche articoletto qua e là. Parlare con stile fuffigno è pratico ed efficace: pratico perché può farlo chiunque, efficace perché permette di ottenere visibilità o progressioni di carriera velocemente e senza troppo impegno. Bastano la cosiddetta infarinatura, una discreta capacità dialettica, un buon palcoscenico e la task force è assicurata. Far parte di una task force sulla trasformazione digitale, ma non solo, è un’esperienza mistica, una prova di pazienza e di bontà infinite, un esercizio di autocontrollo e disciplina continuo, per non manifestare apertamente il dissenso e assecondare gli interlocutori con sorrisi impostati e frasi sibilline. La parola d’ordine delle task force è “riunione”, l’obiettivo è incontrarsi una, dieci, cento, mille volte e parlare, parlare, parlare. Il problema è che ogni riunione sembra la fotocopia dell’altra: dopo dieci minuti, si entra in un loop infernale nel quale si affrontano discussioni senza fine riguardanti concetti astratti, opinioni personali, relativismo cosmico e, a volte, frasi spericolate tipo “se io avrei la possibilità di…”. È in quelle occasioni che gli esperti della fuffa parlano di competenze digitali, di digital divide, di machine learning, di blockchain, di intelligenza artificiale e attuano, a parole, riorganizzazioni, scelte tecnologiche e provvedimenti fantascientifici volti a risolvere qualsiasi situazione, compreso l’annoso problema del polline sulle serrande. Si potrebbe obiettare che la differenza tra idea e azione, tanto cara a Georges Brassens, non si riferisce soltanto alle questioni riguardanti i gorilla, perché un conto è parlare di cucina, un altro conto è stare davanti ai fornelli.

Obiezione accolta. Quindi, più che chiamare in causa la logica bottom up, o top down, che potrei citare in modo capzioso per dare consigli evanescenti su come attuare efficacemente la trasformazione digitale, preferisco evitare figuracce, partire da lontano e affidarmi alla storia e all’infallibile logica contadina. Ricordate gli anni Settanta? Si è trattato di uno dei periodi più densi e complessi della storia contemporanea. In quegli anni, è stato compiuto un salto in avanti impensabile rispetto ai diritti e all’uguaglianza. È stata una vera e propria rivoluzione, scandita non dalla marsigliese ma da storie di locomotive lanciate contro le ingiustizie e indiani metropolitani, i sessantottini, falliti insieme ai loro ideali e a una serie infinita di dèi ai quali non credere, dal dio del capitalismo al dio del consumismo. Gli argomenti di cui si parlava erano quelli: gli ideali, i diritti dei diversi, il rispetto delle minoranze e i valori universali. Se ne parlava ovunque, nella musica, nella letteratura, nei bar, nelle scuole, nelle piazze e addirittura nei telegiornali. L’Italia intera era immersa in una narrazione che influenzava fortemente il pensiero della collettività, specialmente di coloro i quali avevano uno scarso senso critico. C’era la volontà di azzerare le differenze, di lottare insieme e di ristabilire l’uguaglianza, a cominciare da quella tra uomini e donne.

La lotta di classe era il pane quotidiano e il “social divide” non si colmava a parole, ma in piazza, attraverso azioni di ogni tipo, anche violente e discutibili. In poche parole, c’era una coscienza collettiva, che, pur essendo piena di contraddizioni, ha dato l’illusione di poter cambiare l’umanità in qualcosa di più umano. Poi cosa è accaduto? È successo che il pane quotidiano, quegli ideali tanto cari agli scrittori, ai poeti, agli operai e ai diversi, piano piano è stato sostituito da valori spazzatura. Si potrebbe obiettare che anche gli ideali “altissimi” sono stati presi come pretesto per compiere atti feroci di terrorismo. Obiezione accolta. Il problema, però, è che un certo tipo di coscienza comune è stata sostituita da qualcosa di superficiale e inafferrabile, che ha portato le persone ad abituarsi a nutrirsi di false fedi, come se ce ne fossero di vere, fino a convincerle di averne bisogno per sopravvivere. L’indolenza, la pigrizia, quelle briciole di benessere conquistate dai diversi, che per poco tempo si sono sentiti meno diversi, e soprattutto la mancanza di una visione ampia della strada da percorrere hanno fatto il resto: si è smesso di raccontare alla collettività, con quella stessa narrazione, che la società dovesse essere fatta in un certo modo. Così, come spesso accade, il silenzio ha insabbiato gli ideali insieme alla co(no)scienza collettiva, fino al punto da cambiare la prospettiva e la visione del mondo e a considerare la diversità un disvalore, i poveri, e non la povertà, un problema, gli oppressi, non gli oppressori, una minaccia. L’errore fatale è stato essenzialmente uno: la distruzione della cultura.

E la trasformazione digitale cosa c’entra in tutto ciò? C’entra perché la storia si ripete due volte, come sosteneva Karl Marx, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Negli ultimi venti anni siamo o non siamo stati immersi in una rivoluzione socio economica senza precedenti, in molti casi nella veste di spettatori inermi, in cui il filo della narrazione è stato il web insieme all’evoluzione tecnologica? Nei convegni, a cui cerco di partecipare nel modo meno fuffigno possibile, mi trovo spesso a sostenere che il link è stato ed è il protagonista indiscusso di questo cambiamento. Quello che oggi si dà per scontato, e che nella nostra lingua significa collegamento, ha cambiato la società, le relazioni, il modo di fare acquisti e di comunicare, l’informazione, il modo di erogare e di fruire di migliaia di servizi e molti altri aspetti della vita quotidiana che non sto a elencare. Il link è la narrazione in cui siamo immersi. Gli amori sono link, gli amici sono link, i prodotti sono link, le dediche di una canzone d’amore sono link, perfino i sentimenti e gli stati d’animo sono diventati dei link. La tecnologia si è adeguata a questo bisogno di cambiamento e i “colossi del web” ne hanno capito l’importanza, erogando servizi gratuiti in cambio dei dati personali e guidando le popolazioni un po’ come avrebbe fatto il lupo con Cappuccetto rosso.

Non bisogna mai dimenticare che l’interesse delle aziende è il profitto, non il bene della collettività, per cui, più che soffermarsi su questioni filosofiche e valutare se le persone abbiano o meno il senso critico per poter distinguere una notizia falsa da una vera, la trasformazione digitale è stata costruita intorno alla domanda “quanto si guadagna con il clic di un utente su un link?”. Se i pericoli di un cambiamento della società guidato dal profitto e non dalla cultura sono abbastanza evidenti, non è altrettanto evidente il ruolo delle istituzioni in questo processo. E se non è chiaro il ruolo che giocano i soggetti per i quali l’interesse collettivo dovrebbe essere al centro del discorso, la società ha un problema. Come spesso accade, il pubblico è rimasto a guardare, venti anni indietro, travolto da un cambiamento culturale a cui continua a essere impreparato. Così, mentre negli uffici di un qualsiasi ministero della Verità di orwelliana memoria si discute delle competenze digitali, che contemplano l’uso della posta elettronica o di un editor di testo, strumenti che risalgono a trent’anni fa, negli uffici di Google si definiscono le strategie più adeguate per trarre profitto, che in qualche modo verranno imposte alla popolazione. E non c’è via di scampo: la collettività sarà costretta a imparare a usare questo o quel prodotto, per continuare a usufruire di quei servizi di cui non si può più fare a meno. E il campo di applicazione è veramente ampio: si va dall’account Gmail, non obbligatorio ma obbligato, per usare efficacemente i dispositivi Android, al predominio indiscusso di Google Maps, per tracciare un percorso stradale, dalle emoticons per sintetizzare un sentimento durante una conversazione virtuale, ai “mi piace”, e solo quelli, senza i “non mi piace”, per tracciare il profilo delle persone e capirne i gusti, gli interessi e gli orientamenti.

Più che di trasformazione digitale, sarebbe corretto parlare di capitalismo 2.0: l’individuo è rimasto funzionale al consumo, ma sono cambiati gli strumenti. Per questo, per dire “mi piace” e seguire un link, basta toccare lo schermo di un telefono o dire “Ok Google, portami in via”: questa è la trasformazione culturale e tecnologica dell’ultimo ventennio: è cambiato tutto, ma in fondo non è cambiato niente. Di quale trasformazione digitale si parla, invece, all’interno delle amministrazioni pubbliche? Quali sono le competenze digitali che si rincorrono per colmare il digital divide, quel concetto astratto di cui si sente spesso parlare, ma che in pochi hanno capito come misurare? I decisori hanno capito realmente che, ad esempio, l’uso delle emoticon si è diffuso non attraverso delle linee guida, ma grazie a un cambiamento culturale in atto da anni e che due persone, per salutarsi, si scambiano una faccina sorridente che lancia un cuoricino invece di scrivere ciao? Le amministrazioni pubbliche hanno capito che il linguaggio e i tempi per comunicare si sono modificati profondamente, che molte parole sono state sostituite dalle immagini e che molte attività lavorative vengono svolte in maniera totalmente diversa dal passato? Chi dirige il personale, ed è rimasto fermo agli anni ‘50, è consapevole del fatto che le reazioni delle persone sono cambiate rispetto ai mezzi usati per comunicare e che le emozioni e gli stati d’animo sono filtrati da uno schermo, da una chat e sono funzionali a un messaggio preimpostato, “Sta scrivendo”, che in pochi secondi può suscitare rabbia o speranza, prima che il messaggio di sistema scompaia, lasciando il posto al silenzio (perché magari un interlocutore ha deciso di non scrivere nulla e di cancellare ciò che stava digitando)? Se non lo sa, è grave.

Se lo sa e fa finta di niente è gravissimo. Lo scollamento tra la narrazione della realtà inventata negli ambienti pubblici e la realtà “reale” è imbarazzante. Questa divergenza si può spiegare soltanto utilizzando la metafora del giardiniere e del contadino (sempre per adottare una logica facilmente comprensibile). La differenza tra il giardiniere e il contadino è semplice: se al contadino si seccano le piante, il problema è solo suo, se al giardiniere si seccano le piante, il problema è di chi gli ha commissionato il lavoro. Lo stesso ragionamento vale per gli ambiti pubblico e privato: se qualcosa non funziona nel settore privato, il problema è dell’azienda, mentre se non funziona qualcosa nel settore pubblico, il problema è di chi ha dato fiducia agli amministratori e alla dirigenza, cioè della collettività. Spesso, si arriva a paradossi assurdi, che toccano i massimi livelli quando si osservano goffi tentativi di conciliare l’innovazione con la burocrazia e con i processi lavorativi paludosi e inefficienti. E se ne vedono, di cose strane. Per esempio, ci sono dei Dpo, i responsabili per la protezione dei dati, talmente zelanti da adottare politiche interne molto severe sul rilascio dei dati, anche dei più insignificanti, che si trasformano nell’impossibilità di usarli e di diffonderli, e poi cedono i propri dati personali a un’applicazione che promette di prevedere in quale animale si reincarneranno i seguaci della setta dello ioismo.

Ci sono regolamenti interni, degni del miglior Montalbano, che alla firma digitale affiancano la richiesta di una “copia del documento debitamente sottoscritta”, perché il digitale va bene, ma non si sa mai. Poi ci sono i decisori veri, quelli di vecchio stampo, che continuano a mantenere un potere enorme anche in ambiti in cui non hanno nessun tipo di competenza e sostengono con fermezza l’assoluta sicurezza dei documenti stampati e chiusi a chiave al posto degli archivi digitali; come se nei tribunali non si assista frequentemente a sparizioni misteriose di interi faldoni contenenti documenti processuali importantissimi. La mancanza di cultura e il sistema clientelare sono i veri problemi della trasformazione digitale, perché spingono intrinsecamente i decisori verso una cieca resistenza al cambiamento. Resistenza che viene rafforzata spesso dalle persone delle quali si circondano. Si possono scrivere centinaia di linee guida, ma se non viene attuato un vero e proprio cambiamento culturale, il Paese è destinato a restare nel guado per anni. Purtroppo, nonostante le task force e i convegni, le decisioni vengono ancora affidate ai giardinieri digitali, dei dinosauri privi di conoscenze approfondite e prossimi al pensionamento, che costituiscono improbabili comitati di valutazione delle innovazioni col solo obiettivo di mantenere il potere, frenando qualsiasi tipo di cambiamento e favorendo l’affidamento di incarichi clientelari che hanno l’unico pregio di favorire le carriere di chi li riceve.

Si ritorna all’inizio dell’articolo, quindi, e alla fuffa digitale. Sono loro che fanno falsa cultura, parlando di digital divide tra lavoro e lavoratori, senza aver capito realmente se questa distanza esista realmente o sia più una sensazione dovuta alla scarsa conoscenza di come si sia trasformato il lavoro e i suoi contenuti e di come il personale abbia reagito al cambiamento (indotto dall’esterno). Sono sempre loro che investono inutilmente soldi sulla formazione di competenze digitali (quali?), senza aver rilevato quali siano effettivamente le competenze necessarie per lo svolgimento di un certo lavoro. Insomma, come spesso accade, se un generale sceglie dei colonnelli inadeguati, che a loro volta scelgono dei tenenti inadeguati, che a loro volta scelgono dei soldati inadeguati, la disfatta è certa. Un visionario, che aveva immaginato una società arresa e senza speranza, ha scritto che “la guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza”. Arrivati a questo punto, si potrebbe obiettare che anche questo articolo, tutto sommato, contiene fuffa digitale. Obiezione respinta. Questo articolo contiene un po’ di cultura (digitale e non): l’unico strumento a disposizione degli illusi senza potere, che vorrebbero lasciare in eredità alle future generazioni un posto migliore di quello che hanno trovato.

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