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Mese: Novembre 2021

Dati e illusioni, il paradosso della conoscenza

Posted on 29 Novembre 2021 by admin

Un dato è un dato, due dati sono un’osservazione, tre dati sono conoscenza. Detta così, a freddo, senza un’opportuna contestualizzazione, può sembrare una frase rubata a una puntata della serie televisiva The Big Bang Theory. Cosa da non escludere a priori, peraltro. In realtà, si tratta di una riflessione maturata in questi due anni di vita sospesa, anni in cui ogni singolo dato, anche il peggiore, è stato spacciato per un’illusione di verità, una finta conoscenza, e la scienza è diventata un nuovo dio in cui credere, un’entità soprannaturale che ha permesso di agire in suo nome per ridefinire le regole di comportamento della collettività. Questa divinità si è palesata sotto forma di affermazioni spericolate e di dati spesso imprecisi, confusi, ricchi di errori, di omissioni e di evidenze smentite a colpi di contraddizioni, di false rassicurazioni e di finte certezze. Lo dico subito, così sgombriamo il campo da qualsiasi dubbio: io non ho bisogno di un dio scientifico in cui credere e considero questa nuova religione, che sfiora lo sciamanesimo e la cialtroneria, ben più pericolosa delle vecchie religioni a cui almeno va il merito di aver avuto Gesù Cristo o Buddha come leader rivoluzionari al comando. Non metto i like ai tweet dei virologi perché ho dei riferimenti diversi, più autorevoli, e considero la ricerca scientifica una faccenda troppo seria, che si fa nei laboratori e non può essere ridotta a dei ridicoli annunci pubblicitari diffusi sui social network o nei salotti televisivi. Insomma, sono uno di quegli inguaribili nostalgici che vedono nella ricerca scientifica il mezzo per arrivare “gratis” alla conoscenza. E quando dico gratis intendo dire che rinnego qualsiasi forma di profitto associata speculativamente alla parola scienza. La conoscenza deve essere alla portata di tutti, un po’ come l’amore.

Ma cosa è, esattamente, la conoscenza? In modo semplicistico, si potrebbe dire che la conoscenza è la risposta a un qualche tipo di domanda. Domandare permette di capire, e capire consente di conoscere. Di sopravvivere. Di migliorare.Di evolversi. Si può vivere senza amicizie, senza un braccio, perfino senza amore, ma non si può vivere senza domandare e senza cercare delle risposte. È chiaro che ci sono domande e domande: non a caso si dice che è meglio avere domande giuste e risposte sbagliate piuttosto che il viceversa. Cosa si domanda, a chi si domanda e cosa ci si aspetta dalla risposta rappresentano i cardini su cui si basa il processo che porta alla conoscenza.

  • Come ti chiami?
  • Alessandro.

Alessandro è un dato. Un dato che mi descrive in minima parte e che potrebbe essere integrato da un insieme di altri dati, quali possono essere l’età, la corporatura, il colore degli occhi e un’invidiabile testa diversamente tricotica e fantasiosamente pettinabile, per fornire una descrizione più precisa. Alessandro è anche una risposta. Ma a cosa serve una risposta di questo tipo a chi ha posto la domanda? Sicuramente non serve a conoscere tutti gli uomini che si chiamano così. Non fosse altro per un’evidenza empirica, oserei dire una falsificazione, dimostrabile facilmente: esiste almeno un altro Alessandro che fa di cognome Barbero e ha dei capelli maledettamente folti. Una foresta. Sembra un playmobil con gli occhiali. Ne consegue che avere o meno i capelli è anch’esso un dato importante ma insufficiente per conoscere tutte le persone che si chiamano Alessandro e tantomeno per distinguere un Alessandro da tutti gli altri. Si potrebbe obiettare che la questione, posta in questi termini, è alquanto capziosa: per distinguere una persona da tutte le altre basta aggiungere il cognome, la data e il luogo di nascita e il problema è risolto. A parte il fatto che uno scrittore non cerca obiezioni ma conferme, e non cerca detrattori ma discepoli, l’obiezione è corretta. In parte. In parte perché potrebbe esistere un altro Alessandro, con lo stesso cognome, nato nello stesso luogo e nello stesso giorno. Ma non è questo il punto importante. Anche avendo a disposizione dei dati identificativi precisi, si potrebbe affermare di “conoscere” realmente Alessandro? Un fisico direbbe che il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita sono volgari convenzioni introdotte dall’uomo e che non hanno nessun valore scientifico. Ma voglio dissociarmi da me stesso e di conseguenza dai fisici. Dirò che la volgare convenzione, l’identificativo, può essere utile durante un interrogatorio o per notificare una cartella esattoriale, ma di certo non è utile per conoscere la persona a cui si chiede il nome. Escluderei anche l’opzione “riscossione”, a meno che non vi piaccia essere contornati da quegli amici che Campbell, facendo ricorso agli archetipi mitologici, piazzerebbe irrimediabilmente tra il mutaforme e l’imbroglione. Se vi state chiedendo voglio proprio vedere questo cretino dove vuole arrivare, vi rispondo che il cretino vuole arrivare a mostrare un’evidenza banale: un dato, da solo, non serve quasi mai a nulla. Anche quello che può sembrare importantissimo, che so, la temperatura corporea o il numero di globuli bianchi, non fornisce risposte certe su eventuali patologie e di conseguenza sulla conoscenza di un fenomeno correlato. Direte: “Quindi?”. Quindi usare i dati a sproposito, senza metodo, non serve a granché, specialmente quando l’utilizzo è finalizzato a supportare dimostrazioni e ipotesi fraudolente. Per rendervi conto di quanto sia ricorrente il ricorso truffaldino ai dati parziali e incompleti in un discorso, basta accendere la TV e sintonizzarsi su qualche rarissima trasmissione in cui si parla di Covid. Se avrete la fortuna di cogliere uno degli sporadici attimi in cui compaiono “gli scienziati”, avrete anche il privilegio di comprendere meglio il senso di questo articolo. E dei dati. Se io dico che è stata superata la soglia di allerta del 10% di occupazione delle terapie intensive, ho fornito un dato. Un dato allarmante, però, attraverso il quale posso creare paure e pregiudizi amplificati dai media e dai toni catastrofici. Se però aggiungo che la soglia di allerta, negli ultimi tempi, a seguito di decisioni che sembrano prive di logica, è scesa dal 30% al 10%, il dato assume un altro significato. Se consulto la serie storica dei dati sull’occupazione delle terapie intensive, e prendo come riferimento i report annuali dell’Istituto Superiore della Sanità relativi ai 5 anni precedenti al 2020, posso dire che il tasso di occupazione medio delle terapie intensive si attesta intorno al 50%, con picchi del 100% nella stagione invernale. Quel dato, quindi, quel 10%,  assume ancora un altro significato e l’interpretazione di ciò che accade subisce una connotazione totalmente diversa. Chi usa i dati per comunicare conosce benissimo questi meccanismi e sa altrettanto bene cosa omettere e cosa accentuare per dimostrare una certa ipotesi. Edgar Lee Master sosteneva che Il modo come la gente considera il furto è ciò che rende ladro il ragazzo e questo, quando si tratta di descrivere un fenomeno scientifico al di là dei pregiudizi, è francamente inaccettabile. Non è possibile che il modo di guardare i dati renda un fenomeno più o meno veritiero, più o meno certo, più o meno pericoloso. La morale e i pregiudizi riguardano un ambito che ha poca attinenza con il metodo scientifico.

A questo proposito, qualche tempo fa, ho scritto un articolo in cui parlavo di cosa fossero il metodo deduttivo e il metodo induttivo. Semplificando al massimo, si può dire che il primo metodo permette di indagare la natura di un certo fenomeno a partire dall’ipotesi teorica generale e dalla successiva verifica sperimentale dei fatti, mentre il secondo parte dall’osservazione dei fatti per costruire una qualche teoria generale. Einstein è stato un fan accanito del metodo deduttivo ed è arrivato a sostenere che le maggiori scoperte scientifiche siano state fatte ricorrendo alla deduzione e non all’induzione.

Spinoza | Illustrazioni, Foto artistiche, Cose

Baruch Spinoza, ancor prima di Einstein, scrisse un trattato, dal titolo Etica dimostrata con metodo geometrico, all’interno del quale, attraverso il metodo assiomatico deduttivo, “dimostrò” il concetto di deus sive natura, ovvero l’esistenza di un dio senza barba e figli prodigiosi ma concepito come sostanza infinita da cui dipendono tutte le cose esistenti in natura, compresi gli accadimenti, quelli che noi chiamiamo destino. Spinoza, pur non avendo inventato il metodo assiomatico deduttivo, ha utilizzato il metodo euclideo per un’impresa difficilissima: dimostrare rigorosamente l’esistenza di un dio ben più complesso di uno Zeus incazzoso che lanciava fulmini a destra e a manca. E l’ha fatto fregandosene della scomunica dei gesuiti, senza peraltro indossare il celebre vestito da bonzo per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming (ma trovando il centro di gravità permanente sconosciuto a Battiato). So che potrebbe sembrare una divagazione poco attinente all’argomento, ma vale la pena citare il testo della scomunica di Spinoza, per capire l’effetto dirompente che può causare un pensiero ampio, complesso e diverso da quello delle maggioranze.

“Con il giudizio degli angeli e la sentenza dei santi, noi dichiariamo Baruch de Spinoza scomunicato, esecrato, maledetto ed espulso, con l’assenso di tutta la sacra comunità […]. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia maledetto quando si corica e maledetto quando si alza; maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai piú perdonarlo; possano l’ira e la collera del Signore ardere, d’ora innanzi, quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribú d’Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del cielo contenute nel Libro della Legge […]. Siete tutti ammoniti, che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dormire sotto il suo stesso tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti [circa due metri], e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno”.

Spinoza dimostra deduttivamente l’esistenza di dio e viene scomunicato con il giudizio degli angeli e la sentenza dei santi. Come dire che Paulo Roberto Falcão viene escluso dalla nazionale brasiliana col giudizio di Oronzo Canà e la sentenza di Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento. Non conosco storie analoghe per tessere le lodi del metodo induttivo; in compenso ne conosco molte per dimostrarne l’utilizzo fraudolento, ma per farlo occorre riprendere il filo del discorso e tornare alla conoscenza di Alessandro. Quando si utilizza il metodo induttivo, oggi confuso con l’empirismo puro e col relativismo interpretativo, occorre in primo luogo identificare il problema, formulare un’ipotesi di ricerca e definire il metodo e il campo di osservazione. È chiaro, quindi, che se il problema di chi pone la domanda “come ti chiami?” è l’identificazione precisa di Alessandro, può essere sufficiente aggiungere altre domande del tipo Quando sei nato?, Dove sei nato?, Qual è il tuo cognome?

Se il problema è conoscere Alessandro in profondità, non sarà sufficiente il nome e il cognome. Non sarà sufficiente nemmeno chiedere quali sono i libri, la musica o le pietanze preferite. Occorrerà estendere il campo di osservazione e raccogliere un insieme di variabili ben più ampio, approfondire le fragilità, i sentimenti, le paure, le ombre, i difetti e i pregi. Tutte variabili necessarie per ottenere un insieme consistente ed esaustivo di dati da correlare tra loro per fornire una descrizione più o meno precisa. Tanto maggiore sarà l’accuratezza dell’osservazione, tanto maggiori saranno le possibilità di conoscere meglio Alessandro. Tanto migliore sarà la scelta delle variabili, le tecniche di analisi e la correlazione tra i dati, tanto migliore sarà la precisione della descrizione. Descrizione, sia ben inteso, che avrà sempre un margine di incertezza e non sarà mai perfetta e assoluta. L’approccio deduttivo, per descrivere Alessandro, sarebbe più complesso in quanto richiederebbe di formulare una teoria generale che possa definirne la personalità,  verificandone a posteriori la validità attraverso la pratica e la rilevazione dei dati, Poiché questa operazione non è riuscito a farla nemmeno Alessandro in persona, anche se è tuttora affascinato da una teoria generale che descriva sé stesso al fine di evitare le scelte sbagliate, dubito fortemente che ci sia qualcuno in grado di commettere un azzardo simile. Non sono pronto a giurarci perché in questo periodo storico si riuscirebbe a trovare facilmente qualcuno sufficientemente presuntuoso da spiegare a dio in persona com’è fatto dio. La maggior parte dei dati prodotti attraverso le statistiche si basa sul metodo induttivo e sulla capacità di osservazione e di analisi che hanno i produttori. La capacità di produrre dati di qualità è diventata una caratteristica molto rara, ma ancor più rara è la capacità di interpretare quei dati per descrivere un certo fenomeno nella sua totalità, fornendone la chiave di lettura corretta. Questa mancanza, dovuta essenzialmente a una scarsa cultura scientifica (anche da parte dei molti cosiddetti scienziati), si ripercuote sul processo cognitivo che porta gli individui alla conoscenza e, soprattutto, sulla falsa e ben più insidiosa percezione di conoscenza, quella basata sull’esperienza superficiale e non sulla ragione. Io leggo un dato e lo utilizzo per descrivere un fenomeno nella sua interezza, ignorandone, volutamente o involontariamente, la contestualizzazione rispetto al campo di osservazione e all’ipotesi iniziale. Il discorso sarebbe lungo e temo di aver sforato ampiamente i tempi previsti per la lettura di un articolo sul web. Concludo dicendo che, nell’incertezza, è sempre meglio dubitare. Il dubbio cartesiano ci salverà, forse. Dubitare, dubitare, dubitare sempre, quindi. E non smettere mai di chiedere e di domandare, anche se, in molti casi, a una domanda legittima potrebbe corrispondere una risposta poco soddisfacente.Un po’ come accade al viandante, citato dal profeta Isaia, che si ferma a chiedere a una sentinella “Quanto resta della notte?”” e si sente rispondere “Il mattino viene, ma è ancora notte! Se volete, domandate, chiedete, tornate e domandate ancora.”. Ci sarebbe da chiedersi se la notte simboleggi l’incapacità dell’uomo di conoscere il senso dell’esistenza e se, per questo, generi inquietudini e produca domande a cui non ci sarà mai una risposta, domande che in ogni caso bisogna continuare a fare ancora, e ancora, e ancora, alle sentinelle che si incontrano nella vita.

Schiavi digitali

Posted on 23 Novembre 2021 by admin

I grandi cambiamenti, nella storia dell’umanità, hanno causato spesso enormi discriminazioni e hanno creato fratture profonde tra coloro i quali erano pro e colori i quali erano contro. Basti pensare all’invenzione della carta e agli innumerevoli detrattori a favore del papiro, che, pur di non cedere alla novità, hanno rallentato di molti anni il processo di trasformazione, paventando pericoli inesistenti e iatture di ogni tipo nei confronti degli utilizzatori del nuovo. In generale, il progresso tende a creare una divisione netta tra i beneficiari dei suoi lati positivi e chi ne subisce le conseguenze negative. Il benessere di una parte della popolazione è sempre compensato dallo sfruttamento di chi, per contribuire al suddetto benessere (altrui), è costretto a subire varie forme di schiavitù, diverse nella forma ma uguali nella sostanza. Poiché l’egoismo è tra gli sport sport preferiti dagli esseri umani, lo sfruttamento del lavoro altrui, la sottomissione e le vessazioni degli individui vengono spesso tollerati (anche se sarebbe più corretto scrivere “ignorati”), quando c’è di mezzo un certo status quo da mantenere. Al centro di numerosi egoismi ci sono loro, le cose. E le cose, oggi, sono legate indissolubilmente ai servizi, un po’ come è legato il WC allo sciacquone.

man hands trapped and wrapped on wrists with mobile phone cable as handcuffs in smart phone networking and communication technology addiction concept

La domanda da porsi, per capire meglio il modello di società che stiamo costruendo, è: “A cosa servono le cose, oggi?”. Domanda insidiosa, che si presta a milioni di risposte diverse, a cui proverò a rispondere, tentando di superare i pregiudizi rispetto al consumismo, che mi porterebbero a scrivere di getto “per raggiungere, attraverso il consumo, una felicità illusoria che dura il tempo di un prelievo al bancomat”. Le cose, in una società globalizzata e capitalista, non sono più associate ai fini pratici, al loro utilizzo, ma servono a dare un senso all’esistenza, a colmare vuoti, a creare appartenenza a gruppi elitari, a riempire di superficialità le insoddisfazioni e, perché no, le profonde carenze culturali in cui siamo sprofondati. Siamo continuamente alle prese con una bulimia da acquisto compulsivo che serve evidentemente a colmare una qualche mancanza. Non importa quale sia l’oggetto, non importa se serva e a cosa serva: l’importante è averlo. L’idea di “nuovo”, secondo me, serve per dare una infinitesima spinta vitale a vite sempre più spente  Non è sempre stato così, ovviamente, e per accorgersene basta guardare la vita condotta negli anni ‘70, quando gli oggetti erano fatti per durare come i progetti di vita. Non c’è nessun richiamo nostalgico in questa osservazione, si tratta di una considerazione che induce a riflettere sul ruolo delle cose nel progetto di vita dell’uomo moderno, sul legame oggetto-progetto. Diciamo che, richiamando alla memoria il buon Heidegger, gli esseri umani si distinguono dagli animali per un aspetto essenziale: la consapevolezza dell’essere attraverso l’esistenza. E l’esistenza è costituita dalle infinite possibilità di esserci, a cui ognuno dà forma attraverso un progetto di sé stesso. Sì, lo so, il concetto è un po’ difficile e anch’io mi sono dovuto rileggere due volte per capirmi meglio… In ogni caso, le cose, gli oggetti, più che un valore intrinseco, hanno il valore che gli viene attribuito dagli individui rispetto al proprio progetto esistenziale. Così, per qualcuno l’auto può essere un semplice mezzo di trasporto, per qualcun altro un simbolo da esibire per dimostrare il proprio status e per altri, i piloti, una componente fondamentale dell’esistenza. La digitalizzazione, seppur in un primo momento, con l’avvento dei primi telefoni cellulari, è stata anche sinonimo di status, adesso è diventata qualcos’altro. La digitalizzazione è essenziale per i progetti esistenziali. Lo smartphone  è diventato una presenza imprescindibile, un  surrogato della vita, un oggetto che sta sostituendo il progetto individuale heideggeriano: l’esserci, l’esistenza. La vita di un numero consistente di persone viene scandita dai ritmi digitali, che hanno creato un precedente probabilmente unico nella storia: gli oppressori sono diventati anche schiavi di loro stessi.

Ma andiamo avanti per gradi…

Pur essendo un sostenitore della digitalizzazione, e conoscendone bene le potenzialità (che ho ampiamente descritto in altri articoli), credo di averne sottovalutato le insidie: conoscerle, può aiutare a fare scelte più consapevoli. In pochi anni siamo passati da una socialità reale a una socialità virtuale, da un consumo reale, caratterizzato da un rapporto “fisico” con gli oggetti, a un consumo virtuale dalle possibilità illimitate. Rapporti umani e consumo sono diventati forme di schiavitù che coinvolgono contemporaneamente gli sfruttatori e gli sfruttati. E i dispositivi. ovviamente. La colpa, se di colpa si può parlare, è da attribuire non alla digitalizzazione ma alla sua applicazione, che ha accentuato i lati peggiori degli esseri umani: il profitto incontrollato delle numerose industrie (tech, artistiche, farmaceutiche) e il bisogno del superfluo amplificato dalla velocità con cui si propagano le informazioni, i messaggi e le azioni incontrollate, che prevalgono spesso sulle facoltà cognitive e riflessive. Così, mentre alcune sparute minoranze fuggono dalle grandi città per scandire la propria vita al ritmo della lentezza, la vita digitale viene scandita dalla velocità e dal bisogno. Basta un clic per dar seguito a un acquisto, non serve più neanche inserire la carta di credito. E  la velocità con cui si acquista un prodotto, per i venditori e per gli acquirenti, deve trasformarsi automaticamente in una consegna immediata. La velocità “virtuale” con cui viaggiano le informazioni nella rete ha indotto nelle persone un inconscio desiderio di velocità “reale” insostenibile per chi si trova a dover soddisfare un delirio simile: i lavoratori. Fattorini, magazzinieri e spedizionieri sono diventati i nuovi schiavi, costretti a ritmi insostenibili, a pause programmate, anche per andare in bagno, a contratti precari, a rischi di ogni genere e a salari inadeguati. Se è vero che queste discriminazioni sono sempre avvenute è anche vero che, dal mio punto di vista, una golosa cena all you can eat può anche essere consumata al ristorante, evitando che il viziato digitale si avvalga del fattorino che effettua le consegne pedalando sotto la pioggia. Questo tipo di schiavitù, poco attinente alla digitalizzazione, può essere fronteggiato, ammesso che si possa ragionare con le “industrie” del consumo, garantendo e pretendendo maggiori diritti per i lavoratori e condizioni di lavoro umane, affinché gli sfruttati siano un po’ meno sfruttati. Sono cambiati i mezzi, ma le modalità di sfruttamento sono rimaste le stesse: il benessere acquisito da pochi viene difficilmente spartito con gli altri. La forma di schiavitù ben più pericolosa della precedente, però, riguarda le distorsioni indotte dall’abuso degli strumenti digitali. È più pericolosa perché è l’espressione di un bisogno patologico di “esserci”, nel senso heideggeriano, senza esserci. È l’espressione di un progetto di esistenza sbiadito, mascherato, nascosto dietro un filtro che può essere una piattaforma di e-commerce, un sito pornografico, un social network o un sistema di messaggistica. È l’espressione di una voglia di protagonismo lontano dal palcoscenico, dietro le quinte. Perché per essere protagonisti è necessario esporsi, e gli strumenti digitali virtualizzano la presenza, la fisicità, le possibilità. È l’espressione del desiderio di controllo sugli altri, dell’alienazione, dello svilimento del pensiero critico a favore del pensiero veloce, quello del relativismo che ha trasformato la cultura in opinioni. Questa forma di schiavitù merita una vera e propria rivoluzione perché ha trasformato le possibilità degli individui in qualcosa di estremamente fragile e superficiale. E rende tutti tremendamente soli.

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