Barbie, Big Jim. Trent’anni fa, la suddivisione era questa. Netta, definitiva: non era ammesso nessuno scambio di ruolo. Adesso, invece… uguale. Già da piccoli ci insegnano il principio base dell’esistenza: l’uomo e la donna sono condannati a essere diversi e a non incontrarsi mai. O, meglio, sono destinati a incontrarsi casualmente, quando il pallone, calciato dal maschio, piomba sulla casa di Barbie e la demolisce. Al limite, una bambina che gioca a calcio viene anche tollerata: si becca una frase tipo “sei un maschiaccio”, e passa la paura. Così, impariamo da subito l’importanza delle parole: “maschiaccio” può essere un complimento o un’offesa, dipende da come si dice e a chi si dice.
Tre anni, l’ho aspettato tre anni. “Dammi tempo, vedrai, sistemo tutto”. Io l’avevo capito che non avrebbe mai sistemato nulla, ma ero troppo innamorata. Ci speravo. Che cretina sono stata. A ripensarci, adesso, mi prenderei a schiaffi.
Io ancora bella, nonostante tutta la vita che mi è passata addosso come un carro armato. Io ancora viva, nonostante le delusioni che, ogni volta, hanno ucciso qualche pezzetto d’anima. Io volevo darmi una possibilità. Un’altra, l’ultima. Io sola al tavolino di quel bar, in un pomeriggio anonimo, e lui che mi guarda e mi sorride. Mi sembrava bellissimo e l’ho amato da subito, prima ancora che mi dicesse “Ciao, posso sedermi vicino a te?”.
Sìììììì! Mi parlava di lui, del matrimonio ormai finito, dei figli che ormai erano grandi, di quanto era insoddisfatto delle sue giornate vuote e di come avrebbe voluto cambiare la sua vita. Mi sono rifiutata di pensare che fosse la solita storia del borghese annoiato, quella storia che ho sentito dalle mie amiche decine di volte…
Vedo davanti a me un mare di opportunità…Trasgressione, alcol, donne, decine di donne. Glielo faccio vedere chi sono io…
Vai vai, vai pure. Com’è che hai scritto? La nostra storia è una minestra riscaldata e io ho bisogno di emozioni forti. Te le do io le emozioni forti. Ti faccio consumare dall’invidia.
Anzi, sai adesso che faccio? Chiamo subito Tiziana!
(Prende il telefono)
Tiziana… lei sì che era innamorata. Che donna, Tiziana. Fisicamente… no, fisicamente era meglio Laura. Tiziana che intelligenza! Mah, veramente era mezza scema. Però, il carattere… il carattere… che carattere di merda aveva Tiziana. Adesso mi ricordo perché ci siamo lasciati.
Quante facce ha l’amore? Tante quanti sono gli amori vissuti nella vita di ognuno di noi. Come una farfalla che si posa sulla testa è un viaggio emotivo che conduce con delicatezza gli spettatori alla scoperta del sentimento più vero e inafferrabile che ci sia: l’amore. Storie di incontri e di addii, di marinai e di nuvole, di fughe e di ritorni, che si susseguono senza sosta, nel tentativo di trovare un senso a quella forza inspiegabile che spinge gli esseri umani a legarsi indissolubilmente tra loro e a condizionare le reciproche esistenze. I protagonisti di questo viaggio sono l’uomo, la donna e l’incomunicabilità, il terzo incomodo che li perseguita da sempre senza pietà. Oggi più che mai, l’universo maschile e l’universo femminile sono destinati a non incontrarsi, a restare prigionieri dell’individualismo e della solitudine, a essere lontani pur restando vicini. E se è vero che l’amore è poesia e passione allo stato puro, è anche vero che le stanze delle passioni sono abitate da incomprensioni, da ripicche quotidiane, da prove di forza, da piccole grandi fobie e da ossessioni per il controllo, che diventano goffi tentativi di cambiare il prossimo, per amarlo come lo vorremmo e non come in realtà è. Tentare di dare un senso all’amore è una follia: accade tutto così, all’improvviso. Senza motivo. Quando meno te l’aspetti. Come una farfalla che si posa sulla testa.
A proposito della mia abiura, ha scritto La sera leone, la mattina coglione Galileo Galilei
”Si è permesso di giudicare i miei giudizi sintetici a priori e di criticare la mia Critica” Immanuel Kant
“Dice che ho un carattere di merda… invece lui…” Carl Friedrich Gauss
“Un fratello, per me è come un fratello: ci siamo ubriacati e abbiamo cantato insieme l’Internazionale e La locomotiva!” Karl Marx
Un servosterzo, secondo me, vive una vita di merda. Tutti sanno che esiste, tutti lo usano, nessuno sa dov’è e, soprattutto, quasi nessuno sa come funziona. Esattamente come per la fisica e per la filosofia. Il servosterzo è solitario (avete mai visto un’auto con due servosterzi?), fa il suo lavoro in silenzio, ma, se si guasta, l’auto si schianta in un attimo. Se io fossi un servosterzo, me ne fregherei altamente di cosa pensano gli altri sui servosterzi. Saprei benissimo che, senza di me, la vita delle persone sarebbe difficilissima. Eppure, nessuno ha mai scritto parole di elogio per i servosterzi. Niente, nemmeno un grazie. Di solito, non si scrivono parole di elogio nemmeno per la fisica. Per la filosofia, poi… Tranne nei casi in cui qualcuno vince un premio Nobel. In quel caso, l’Italia si trasforma in una Repubblica di fisici, in cui le persone parlano di relatività e di neutrini come se parlassero di fuorigioco. Io avrei voluto trovare un titolo adeguato per questo libro, ma non ho trovato parole originali, a parte “servosterzo”. Qualsiasi titolo calzante, che so, Filosofia della fisica, o Fisica per filosofi, era già stato usato. E allora, con la parola servosterzo che mi ronzavUn servosterzo, secondo me, vive una vita infernale. Tutti sanno che esiste, tutti lo usano, nessuno sa dov’è e, soprattutto, quasi nessuno sa come funziona. Esattamente come per la fisica e per la filosofia. Il servosterzo è solitario (avete mai visto un’auto con due servosterzi?), fa il suo lavoro in silenzio, ma, se si guasta, l’auto si schianta in un attimo. Se io fossi un servosterzo, me ne fregherei altamente di cosa pensano gli altri sui servosterzi. Saprei benissimo che, senza di me, la vita delle persone sarebbe difficilissima. Eppure, nessuno ha mai scritto parole di elogio per i servosterzi. Niente, nemmeno un grazie. Di solito, non si scrivono parole di elogio nemmeno per la fisica. Per la filosofia, poi… Tranne nei casi in cui qualcuno vince un premio Nobel. In quel caso, l’Italia si trasforma in una Repubblica di fisici, in cui le persone parlano di relatività e di neutrini come se parlassero di fuorigioco. Io avrei voluto trovare un titolo adeguato per questo libro, ma non ho trovato parole originali, a parte “servosterzo”. Qualsiasi titolo calzante, che so, Filosofia della fisica, o Fisica per filosofi, era già stato usato. E allora, con la parola servosterzo che mi ronzava in testa, mi sono messo a fare dei parallelismi con la fisica e con la filosofia. L’italiano è una lingua fantastica per questo motivo: tu prendi una parola a caso e, con un po’ di fantasia, riesci a costruire delle connessioni bestiali. A conti fatti, la fisica e la filosofia sono legate alla matematica come le ruote e il volante sono legati al servosterzo. E questo è il primo punto a favore del titolo. Senza la fisica e senza la filosofia non si va da nessuna parte, esattamente come accade per un’auto senza servosterzo. È vero, senza un servosterzo, facendo una fatica incredibile, si può guidare comunque un’auto. Senza la fisica, invece, non si può vivere, perché gli uomini, da quando hanno messo piede sulla terra, non hanno mai smesso di interrogarsi e di cercare la verità. Un servosterzo rende la vita più semplice e allevia la fatica, proprio come la filosofia. Quindi, ho deciso di adottare un servosterzo e di averne cura, nella buona e nella cattiva sorte, in salute e malattia, finché rottamazione non ci separi. Nell’Apologia del servosterzo affronteremo molti argomenti, fisici e filosofici, a volte con rigore, a volte con del sano e consapevole cazzeggio. Inizieremo con il ‘600, per arrivare, sbandando, ai giorni nostri. Proveremo a spiegare, con un minimo di rigore scientifico, perché la terra è tonda e cosa diavolo sia la luce. Poi, attraverso i ragionamenti (da fisici) che faremo, con quella stessa luce, illumineremo la notte intellettuale in cui spesso ci troviamo: una notte buia, immensa, piena di domande e povera di risposte. Infine, attraverso un azzardo narrativo, proveremo a usare la filosofia per aggrapparci a qualcosa e tentare di dare una risposta alle domande esistenziali a cui la fisica non può rispondere. Riusciremo a rispondere alla domanda che l’uomo si pone da quando trascorreva la settimana bianca in una caverna? Qual è questa fottutissima domanda? Non posso permettermi di fare spoiler a me stesso: per scoprirlo, leggete il libro e accontentatevi delle poche luride pagine che riuscirò a scrivere. Pagine insulse e sudicie, in cui distruggerò, dissacrandoli, anni di studi e di ricerche. Non sarà facile, lo ammetto, perché sono sicuro che, leggendo con quale maestria abbia trattato il delicato argomento “servosterzo”, senza peraltro urtare la sensibilità dell’alternatore e dell’albero a cammes, chissà quali altissime aspettative nutriate nei miei confronti. Ci proverò, a costo di restare solo per la vergogna e di non uscire più di casa. Solo e anonimo, come un servosterzo.
Nascere è una fortuna, rinascere è un miracolo. Attraverso l’arte, e la scrittura, non solo si può rinascere, ma si può diventare eterni. Io e i miei amici abbiamo fondato la Caveart, un’associazione culturale. Un’altra, direte voi, una delle tante… Ne sentivamo il bisogno? Voi non saprei, noi certamente sì, perché a un certo punto della vita non è più possibile rimandare: bisogna diventare ciò che siamo. Facciamo cose, incontriamo gente,come direbbe Nanni Moretti, ma, soprattutto, facciamo arte: teatro, scrittura, direzione artistica, laboratori, musica, disegno, scultura. Lo facciamo perché ci siamo resi conto di saperlo fare bene e di non saper fare altro. Lo facciamo perché una vita senza arte è una vita vissuta a metà. Caveart ha un obiettivo ambizioso: arrivare nei luoghi abbandonati, dove ci sono dolore e sofferenza, dove non ci sono speranze e possibilità. Vogliamo arrivare in quei posti in cui c’è più che mai bisogno di quel sacro fuoco che non si spegne mai e che illumina da sempre le esistenze. Per ora ci sono uno statuto, un sito web e un gruppo di professionisti con una voglia dirompente di esserci. È sufficiente? Certo che no. Ci mancano una sede, uno sponsor e un numero consistente di iscritti. Dobbiamo organizzarci e partire, come la famiglia Joad in Furore. Vogliamo organizzarci e partire. Il furgone sul quale viaggiamo è vecchio e scassato, ha le gomme a terra, il radiatore che fuma e perde acqua, i bulloni arrugginiti e va piano. Di spazio, però, ce n’è a sufficienza. Ospitiamo quasi tutti, a eccezione degli arrivisti, degli iperconnessi, dei carrieristi e dei malati di successo e di soldi. Al contrario, troveremo sempre un posto per i diversi, per chi vive ai margini, per chi si sente solo, per chi non ce la fa più e per chi non riesce più a trovare un senso a questa vita senza senso. Il link al sito dell’associazione è http://www.caveart.it
I sistemi di messaggistica istantanea sono sempre esistiti: in principio era il Verbo vi dice niente? Certo, soltanto col verbo si messaggiava male, per comporre una frase era necessario uno sforzo creativo notevole… Proprio per questo, poi, sono stati inventati il soggetto e il complemento. Dopo aver creato il linguaggio, però, è stato necessario creare anche i mezzi di comunicazione. Mezzi che, col tempo, si sono evoluti, passando dai graffiti ai segnali di fumo, fino ad arrivare a quei sistemi moderni e sofisticati, costituiti da gruppi di donnone rubiconde e ipertricotiche, munite di scialle e ciabatte di ordinanza, che si facevano carico del gravoso compito di diffondere istantaneamente qualsiasi notizia a chiunque incontrassero lungo il loro cammino.
Si trattava di sistemi molto affidabili, tecnologicamente avanzati e sufficientemente veloci, che scambiavano informazioni attraverso una raffinata rete di bocche e di orecchie collegate tra loro da complessi algoritmi di diffusione dati “porta a porta” . A onor del vero, nonostante la tecnologia basata sull’intelligenza naturale sia sempre da preferire ad altri tipi di intelligenza, c’è da dire che la privacy, la riservatezza delle informazioni, e, soprattutto, la loro veridicità, non erano affatto garantite. Jan Koum, il papà di Whatsapp, mentre spazzava i pavimenti nei supermercati, potrebbe essere incappato in uno scambio di messaggi in codice tra due comari abruzzesi e averne tratto ispirazione, migliorando un’app in carne e ossa, peraltro già efficace di suo, attraverso una tecnologia diversa: si sa che molte nuove scoperte non sono nient’altro che una brutta copia di cose già inventate. Parafrasando Newton, potrebbe aver detto. “Se sono riuscito a guardare lontano è perché sono salito sulle spalle di donna Serafina Nardecchia da Capestrano”. È molto improbabile che l’idea l’abbia avuta ispirandosi a Talk, la prima chat della storia inventata negli anni ‘70 e basata sui sistemi UNIX, ma questa ipotesi non si può escludere a priori. Fatto sta che la parola Whatsapp deriva dalla crasi – crasi, non crisi… contrazione, sintesi – tra l’espressione inglese “What’s up?” e “Application”. “What’s up?” significa “Come va?” e avvalora la tesi dell’incontro nel supermercato tra Jan e le due comari abruzzesi. Una dice “Come va?” e l’altra risponde “Ti devo raccontare una cosa, ma non dirlo a nessuno: ho visto il figlio del fioraio uscire con la moglie dell’avvocato”. Fare una crasi tra queste due espressioni sarebbe stato troppo complesso, quindi ha optato per una soluzione più sobria, ha scelto Whatsapp, ma ha sintetizzato “Ti devo raccontare una cosa, ma non dirlo a nessuno” inserendo nell’applicazione un pratico tasto “inoltra”. La verità è che l’uomo, da quando ha messo piede sulla terra, ha avuto bisogno di comunicare con i suoi simili. Nel corso dei secoli è cambiato soltanto il mezzo, ma il bisogno è rimasto tale e quale. Comunicare, in qualche modo, equivale a esistere, e gli individui non possono fare a meno di esistere. Per questo, Jan Koum ha avuto la strada spianata, è andato sul sicuro, un po’ come Dio che ha scritto la Bibbia e, per essere sicuro del successo, ha creato anche i lettori. Si potrebbe obiettare che l’inventore di Whatsapp non abbia inventato anche gli utenti: questo è vero, non li ha inventati, ma certamente li conosceva molto bene. Forse, la parola invenzione non è la più adeguata per definire questa applicazione; le chat esistevano già, come del resto gli esseri umani. Cosa ha reso possibile, allora, questo successo straordinario? Il caso… si fa per dire…
I tempi erano maturi, questa è la verità.
Esistevano le chat, esistevano le persone con le loro dinamiche sociali, esistevano le emoticon ed esisteva lo smartphone, il dispositivo che ha cambiato totalmente il modo di relazionarsi tra le persone. Mancava un sistema di messaggistica intuitivo, facile da usare e alla portata di tutti, anche del donnone abruzzese. Così, lo scambio di informazioni “porta a porta” è diventato un velocissimo scambio “smartphone to smartphone” Istantaneo. Due dita che digitano parole all’impazzata su un touch screen vanno molto più veloci dei piedi rigonfi di acidi urici di un’ultraottantenne. E la velocità con cui viaggiano i bit è diventata la velocità con cui viaggiano le relazioni e i sentimenti. Non si discute più ad alta voce, SI SCRIVE IN MAIUSCOLO. Non si allontanano più fisicamente le persone, si bloccano. Basta un clic. Un clic è molto meno rischioso e coinvolgente di un confronto reale. Basta un clic e finisce tutto. Anche un’amicizia storica. Anche un amore. Non sarei onesto se non dicessi che, tra gli infiniti pregi dei social, qualche controindicazione io l’ho trovata. Sul bugiardino, perché ormai la dipendenza da questi strumenti è conclamata, scriverei “può causare incomprensioni e fraintendimenti” oppure “nuoce gravemente alle relazioni umane” o ancora “Riflettere a lungo prima di pensare”. E di digitare. In ogni caso, è fuor dubbio che l’intuizione di Jan Koum è stata eccezionale, anche se spesso l’intùito tecnologico non basta: serve anche una buona dose di capacità imprenditoriale. A dire la verità, Kim Jan Koum – ah, no, quello è un altro e sta in Corea del Nord – non è partito proprio col piede giusto: pensate che per costituire la sua prima società si è consultato con l’assicuratore. Con l’assicuratore, capito?, non col commercialista. Non mi stupirei se un giorno venisse fuori la notizia che, a seguito di un tamponamento, invece di fare il CID, si sia rivolto al parrucchiere, per sapere quale taglio di capelli fosse più adeguato agli insulti da indirizzare al perito.
Ti consiglio i capelli a caschetto, attutiscono il dolore in caso di testate.
No, meglio di no, il caschetto limita la visuale: preferisco una pettinatura a schiaffo.
In ogni caso, l’assicuratore ha avuto la fortuna del principiante, aiutato anche dal fatto che per costituire la società ci sono voluti soltanto 100$ e un’ora di tempo. In Italia, solo per portare a termine questo passaggio, sarebbero occorsi almeno 5000€ e l’intervento di un consulente plurilaureato, che, dopo sei mesi impiegati nella compilazione acrobatica di moduli cartacei, si sarebbe bloccato al rigo 7896 del modello B1589FX/38, a seguito di un cambio repentino della normativa. Che poi, lo spirito imprenditoriale forse nemmeno lo aveva. Insieme al suo socio, Brian Acton, aveva provato a essere assunto nientepopodimeno che da Facebook. Direte “Maddai!”, “Non ci posso credere…”. Ebbene sì, si sarebbe accontentato di un banale posto a tempo indeterminato, come il protagonista di un film di Checco Zalone. Per fortuna, il lungimirante Zuckerberg non li volle assumere. D’altronde, perché pagare due miseri stipendi a degli squallidi dipendenti quando è possibile acquistare l’intera applicazione alla modica cifra di 19 milioni di dollari, firmando uno scenografico contratto davanti agli uffici della Food Stamps, gli stessi uffici in cui venivano stampati i buoni pasto utilizzati da Jan per sopravvivere alla sua triste condizione da povero immigrato ucraino? Insomma, Zuckerberg ha mostrato un senso per gli affari sopraffino e Jan Koum ha avuto una botta di culo o, forse, come avrebbe detto De Andrè, per una volta il Signore si è ricordato di un servo, disobbediente alle leggi del branco, che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna lo aiuti.
La trasformazione digitale delle relazioni umane è iniziata molti anni fa, e non è nata con i sistemi di messaggistica istantanea. È figlia di un insospettabile colpevole che si chiama link. O, meglio, hyperlink. Ritengo da sempre che l’hyperlink sia tra le invenzioni più importanti del secolo scorso e, tutto sommato, ha origine da un’idea semplice: io sono qua e con un clic vado là. Leggerezza calviniana. Velocità. All’inizio, il link collegava dei documenti ipertestuali, ma ben presto ha iniziato a collegare persone, sentimenti ed emozioni. Basta aprire un qualsiasi social network per (ri)scoprire quanto sia ancora attuale e rivoluzionario il link. Gli amici sono dei link, il curriculum è un link, sono link le foto postate su instagram e le ricerche che si fanno per capire, sempre restando confinati alle relazioni umane, le caratteristiche di persona, chi è, cosa fa, di cosa si occupa. La reputazione e la vita privata di una persona sono di fatto affidate ai link, che hanno soppiantato totalmente il ruolo millenario delle comari di paese. Io sono qua e vado là, a vedere, senza che si sappia, chi è quella persona che ha suscitato il mio interesse. Vale per una selezione lavorativa o per una selezione sentimentale. Senza guardare negli occhi per vedere dentro. Senza ascoltare come cambiano la voce e l’espressione del viso al suono secco di una domanda. Senza possibilità di capire, dalla gestualità del corpo, le reazioni involontarie, quelle che non si possono nascondere dietro alle parole. Datemi un link e vi sovvertirò il mondo, avrebbe affermato Archimede, se ne fosse stato lui l’inventore. E le informazioni superficiali che si possono avere dai link sono molte: gli interessi, gli hobby, il lavoro, la partecipazione alla vita sociale, la situazione sentimentale… perfino le opinioni sui valori e sulla morale. Tutto tranne i sentimenti, quelli dai link non si vedono. Le prime avvisaglie che qualcosa stava cambiando si sono avute verso la fine degli anni ‘90, con l’utilizzo di massa della posta elettronica nei luoghi di lavoro. I nostalgici ricorderanno senz’altro quelle inutili e infinite discussioni, consumate a colpi di centinaia di email ricche di insulti e di provocazioni, in cui chiunque si sentiva legittimato a scrivere qualsiasi cosa. L’Italia si è trasformata ben presto in un Paese di rissosi da tastiera, capaci di dar luogo a vere e proprie sfide all’O.K. Corral, che tentavano goffamente, con fiumi di parole e frasi spesso sgrammaticate, di rivendicare una qualche ragione, di scaricare responsabilità o di affibbiare una qualche colpa. Parallelamente alle liti a distanza, però, fiorivano anche le prime relazioni clandestine virtuali. Poi c’è stata un’ulteriore evoluzione: i social e le chat hanno velocizzato gli scambi e le relazioni si sono velocizzate. Sono diventate prodotti da consumare in fretta, laddove, da sempre,
necessitano di tempo e di lentezza. Il linguaggio si è dovuto adeguare ad assumere un ruolo per il quale non era stato pensato: esprimere in pochi tic tac sul touch screen, e bip delle notifiche, le emozioni, le reazioni e i sentimenti. Per chi come me è attento alle parole, ne subisce il fascino, la bellezza, e le considera il dono che il grande padre Giove ha fatto agli uomini per comunicare efficacemente, è facile accorgersi di tante piccole sfumature che denotano la pericolosità delle relazioni digitali. Per esempio, quando si chatta (ops, stavo per scrivere parla, un lapsus…) con qualcuno con cui si ha un rapporto libero e leale, si fa poca attenzione alla punteggiatura, diventa quasi superflua. Si lasciano le domande e le risposte aperte. Si danno tutte le possibilità. È un po’ come stare rilassati al pub a bere un boccale di birra. Ma quando si sta sulla difensiva, o si vuole esprimere disappunto, la punteggiatura diventa un requisito comunicativo essenziale. Scrivere No potrebbe bastare, ma No., oppure No!, è molto più efficace. Evidenzia la chiusura, rende il rifiuto definitivo.Toglie il diritto di replica. Francamente, il punto aggiunto alle parole durante uno scambio di messaggi mi lascia sempre un po’ interdetto. Provo una sorta di tenerezza nei confronti di chi pensa che le questioni si possano realmente chiudere così. Che quel punto riesca realmente a creare dei muri e a considerare chiusa la questione. La punteggiatura nella narrativa ha un ruolo essenziale essenziale, ma mentre si parla, anche laddove si facciano delle pause alla Celentano, difficilmente si percepisce dove inizia il punto è quando si va realmente a capo. E il punto esclamativo? Lo trovo ambiguo, può mettere in difficoltà. Se qualcuno risponde Sì!, qual è il corretto significato da attribuire alla risposta? In termini di emozioni, intendo. Quel punto esclamativo significa “sì, sì, sì”? È un’esortazione, tipo, “sì, muoviti”? È voglia di chiudere in fretta la conversazione e passare ad altro, senza soffermarsi troppo? Beh, può significare qualunque cosa, dipende dallo stato d’animo di chi lo scrive e di chi lo interpreta. Guccini, nel Cyrano scritto con Dati, utilizzava un’espressione evocativa : “Infilerò la penna ben dentro il vostro orgoglio perché con questa spada vi uccido quando voglio”. Forse non è proprio così, forse le parole non uccidono, ma sicuramente possono fare molto male e ferire profondamente. Se non fosse una triste realtà, ci sarebbe da ridere di fronte a una situazione grottesca in cui qualcuno prova dolore, piange, soffre e si emoziona non davanti a una persona ma davanti a uno schermo che non ha nemmeno le sembianze umane. Eppure, con questo tipo di schiavitù bisogna farci i conti. C’è chi calcola i tempi di risposta, o di visualizzazione, di un messaggio perché anche i silenzi, le pause e i ritardi digitali hanno assunto un significato diverso e sono portatori di un notevole carico d’ansia. Se non risponde, ci sarà un motivo, significa che mi ignora o “chissà cosa stia facendo”. L’ipotesi che possa aver lasciato da parte il telefono non viene presa in considerazione. Alzi la mano chi almeno una volta non è stato assalito da un’angoscia incontrollabile mentre, durante una discussione (si fa per dire) accesa, magari in un momento topico in cui si stava consumando la fine di una storia d’amore, il messaggio “Sta scrivendo…” si è interrotto di colpo. Per poi riprendere. In quei frammenti di tempo si concentra tutta la relazione: i pensieri si affastellano, sono fiumi in piena, si susseguono velocemente emozioni e stati d’animo come non era mai successo nella storia dell’uomo. Dall’altra parte c’è qualcuno che ha cambiato idea. E quella pausa rende evidente una reazione comunissima, ma che di solito non viene percepita nella vita reale, a meno che non venga inventato un display da applicare sulla fronte che segnali “sta cambiando idea” durante una conversazione. Nelle relazioni digitali ci sono un uomo, una donna e due schermi che li separano. Che fanno da filtro. Che nascondono e ingannano. Parole virtuali e sofferenze reali. Tutto. Rigorosamente. Davanti. A. Uno. Schermo. Velocemente. Qua i punti ci stavano bene…
Il problema è che ci siamo abituati troppo alla velocità della vita. Non riusciamo più a trattenere nulla, ad assaporare. Sintetizziamo. A volte si sente il bisogno di “chiudere gli occhi per fermare qualcosa che è dentro te ma nella mente tua non c’è”. E respirare. E dargli tempo. Dargli spazio. Invece, le relazioni digitali vanno di corsa, richiedono velocità, Non c’è tempo per ragionare, per rallentare, per riflettere, per spiegare, per chiedere scusa, per esprimere un concetto che riguardi gli infiniti ambiti della vita quotidiana. Figuriamoci se c’è tempo per stringersi la mano, baciarsi, abbracciarsi, camminare fianco a fianco. A che scopo, se ci sono decine di emoticon pronte all’uso che sintetizzano benissimo altrettanti gesti? In passato, per curiosità, ho letto la corrispondenza tra i fisici e i matematici dell’800. Si trattava di lettere lunghissime e rispettose in cui venivano dibattute questioni complesse per arrivare a una qualche conclusione. Non c’era un vincitore. Le conversazioni digitali vogliono che spesso ci sia un vincitore e un vinto. E, nella competizione, le emoticons hanno un ruolo centrale. La dinamica è spesso la seguente: si inizia a scambiare messaggi in modo soft e, per un motivo o per un altro, si arriva al climax, a un punto di rottura in cui la rabbia è esplosa, il viso diventa rosso come il succo di melograno e il cuore galoppa come Furia cavallo del west. Ma non si può reagire, c’è lo schermo, bisogna usare un’emoticon. Ma per rappresentare bene quello stato d’animo, servirebbe una gif animata che raffiguri Mario Merola in modalità “piazzata” che spara minacce casuali del calibro di “T’accid ‘a madre”. Invece no, qual è l’emoticon che si usa per rappresentare quello stato di agitazione e tagliare corto? Il pollice alzato di Fonzie, usato non per dire “tutto ok” ma per un più provocatorio “stai bene così”. E chi lo usa conosce benissimo la reazione violenta che suscita nell’avversario e che va ben oltre le minacce di Mario Merola: roba tipo “te lo spezzerei, quel pollice, se fossi lì”. Ma per fortuna c’è sempre uno schermo. Il pollice non è vero, è un fake pollice, che conduce a una verità incontrovertibile: se Leibniz avesse risposto all’epistola prior e all’epistola posterior di Newton con un pollice alzato, probabilmente non avremmo mai conosciuto Le monadi e la gravitazione universale…
Paradossalmente, però, e questo è veramente un mistero comunicativo, l’immagine che rappresenta l’incazzatura (passatemi il termine) esiste, si tratta di una faccetta rossa e arrabbiata che non assume mai il reale significato a cui è deputata. Non viene presa sul serio, perché, diciamo la verità, quando parte l’embolo della rissa, a nessuno verrebbe in mente di assumere l’espressione di una faccetta rossa simpaticamente imbronciata.
Ben più pericolose sono le emoticon che rappresentano le diverse sfumature d’amore. E le diverse sfumature di ipocrisia e di falsità. C’è un abuso di simboli mielosi che nella realtà non si trasformerebbero mai in azioni concrete. Baci e bacetti inviati a persone che dal vivo non vorresti toccare nemmeno con la canna da pesca. Invece la rete prolifera di bit che trasportano cuori e baci “cuorosi” a chiunque, anche a perfetti sconosciuti, per fingere empatia o per esprimere un qualche sentimento. Tanto c’è lo schermo del telefono a fare da filtro. Dall’altra parte, però, c’è sempre qualcuno che interpreta, fraintende, spera, soffre… e spesso l’altra parte non si capisce bene quale sia, se quella del mittente o del destinatario.
Se gli scambi virtuali tra due persone stanno dimostrando ampiamente le difficoltà relazionali di questa e delle future generazioni, gli scambi di gruppo denotano dei disagi ben più importanti, che rafforzano l’impressione espressa da Umberto Eco qualche anno fa, ovvero che “internet ha dato diritto di parola a legioni di imbecilli”. Per esempio, se In un gruppo c’è qualcuno che scrive, che so, Qualcuno sa dirmi la vera ricetta della coda alla vaccinara?, la risposta non proviene soltanto da chi ha qualcosa da dire. Ci mancherebbe altro. Ognuno deve dire la sua. E quando ricapita un momento di visibilità? No. Io no. NO! Io no, mi dispiace. Io ce l’avevo, ma l’ho persa. Provo a chiedere a mia nonna e ti faccio sapere. Io no, ma ho quella degli strozzapreti alla romana, va bene lo stesso? Te la darei volentieri, ma sono fuori casa. Decine di messaggi per non ottenere nulla, a parte un aumento non richiesto del traffico di rete. Poi ci sono le comunicazioni di servizio, quelle che bisognerebbe leggere senza replicare e che invece danno luogo alle 50 sfumature di “grazie”. Grazie. Grazie! Grazie mille. Grazie davvero. Grazie (cuoricino). Grazie (emoticon circondata da cuoricini).Ma grazie! Di nulla. Grazie a te. E infine ci sono gli auguri, quelli che nella realtà nessuno ricorda, a parte quelle poche persone che ci tengono sul serio. In ogni caso, al segnale di auguri si scatena ogni volta l’inferno. Un trionfo di faccette festanti, bicchieri brindanti e coriandoli di ogni tipo. Forse dipende dall’età, forse dipende dalla stanchezza, forse dipende dalla scarsa capacità di comprendere dei valori diversi perché sono troppo ancorato ai miei, ma queste relazioni non riesco proprio a viverle con partecipazione. Dignitoso distacco. Eppure sostengo la trasformazione digitale da sempre e in quasi tutti gli innumerevoli aspetti positivi di cui è portatrice. Tranne questo. Non lo comprendo. Ho bisogno di tutte quelle manifestazioni di cui l’uomo è capace di esprimere solo dal vivo. Insomma di quella vita che la virtualizzazione dei sentimenti in qualche modo ha offuscato. Ad maiora
I dati statistici permettono di descrivere un certo tipo di fenomeno (naturale, sociale, etc.) e di rappresentare la realtà con una buona approssimazione: questa è la buona notizia. La brutta notizia è che, laddove nel processo di produzione e di diffusione non sia applicato un metodo scientifico rigoroso, i dati statistici possono prestarsi a interpretazioni fantasiose e possono dar luogo a una conseguente distorsione della verità. La storia, anche la più recente, ha ampiamente dimostrato che una bugia “certificata” attraverso i dati può essere trasformata in una falsa verità supportata da numeri e opinioni, diffuse in contesti social-televisivi, che non provengono quasi mai da analisi scientifiche approfondite, ma da sensazioni o interessi personali. Questi ultimi, in particolare, inducono l’interessato a narrare capziosamente i dati, aggiungendo al racconto una buona dose di pathos e di trasporto emotivo che non hanno nulla in comune con la rigorosità scientifica. Umberto Eco ha insegnato che in qualsiasi narrazione esiste un patto narrativo tra l’autore e il lettore. Nel caso dei dati, affinché la narrazione sia quanto più possibile vicina alla verità, è necessario che il produttore conosca a fondo il fenomeno che sta descrivendo e i metodi per rappresentarlo con il massimo rigore scientifico possibile. Il lettore, invece, dovrebbe avere un insieme minimo di conoscenze per capire il significato di ciò che sta leggendo e metterlo in dubbio, se necessario. Questa condizione è molto infrequente poiché, spesso, anche gli addetti ai lavori sottovalutano le insidie del mestiere e, soprattutto, sottovalutano il nesso che c’è tra il dato statistico e le finalità di chi lo produce o lo diffonde.
Il metodo utilizzato per trarre in inganno i fruitori dei dati è collaudato e funziona molto bene: si sceglie la verità (o la bugia) che fa comodo e si supporta con una certa interpretazione dei dati, omettendo volutamente informazioni metodologiche o altre interpretazioni più veritiere. Accade spesso che, tra le tante interpretazioni associate ai dati, non prevalga mai quella più vicina alla verità ma quella più verosimile: e questo, laddove ci siano intenzioni dolose, o semplicemente superficialità, è molto pericoloso.
La credulità nei numeri, che deriva dalla scarsa conoscenza della matematica e della statistica, dà la possibilità ai malintenzionati di trasformare le falsità in verità e viceversa. La comunicazione, i notiziari e gli articoli sono pieni di esempi di questo tipo. L’interpretazione di qualsiasi fenomeno attraverso i dati dovrebbe essere introdotta da una frase di pericolo, come avviene per i pacchetti di sigarette, qualcosa del tipo “Con i dati si può mentire: leggere con cautela, pensare, ragionare e dubitare. Sempre”.
“Siamo invasi dai migranti” è una notizia che viene utilizzata frequentemente allo scopo di far leva sulle paure di chi vede nella diversità un pericolo e nella povertà una minaccia: questo per raccogliere consensi elettorali o per altri motivi poco nobili. Ci sarebbe da chiedersi come sarebbe una società in cui questa stessa informazione fosse divulgata in modo martellante sotto un’altra forma, descrivendo la diversità come un’opportunità e la povertà come un’occasione per abbattere le barriere piuttosto che alzarle. Di certo c’è che, a fronte di un titolo simile, un’esigua minoranza di persone consulta i dati prodotti dalla statistica ufficiale. Una minoranza ancora più ristretta riesce a contestualizzarli e a rendersi conto autonomamente che non c’è nessuna “operazione invasione” in corso. Uno dei peccati capitali delle informazioni statistiche riguarda la diffusione dei valori assoluti senza le adeguate descrizioni e contestualizzazioni. E anche dei valori relativi (percentuali) senza le dovute precisazioni. Quel numero, 700 migranti, significa tanto o poco? Diciamo che tanto e poco non hanno mai un significato vero e proprio, se non viene specificato “rispetto a cosa”. Effettivamente, in un villaggio di 10 abitanti, 700 può essere “tanto”, ma in una metropoli di 5 milioni di abitanti è relativamente “poco”. Se però, all’interno della stessa metropoli, i 700 migranti vengono fatti alloggiare in un comprensorio, ecco che per la percezione “locale” il numero significa di nuovo “tanti”. Se poi si considerano i dettagli temporali, ovvero il periodo in cui si analizzano i dati complessivi (generalmente lo stock riferito all’anno solare), e lo status (rifugiati, richiedenti asilo politico, minori non accompagnati o persone che si ricongiungono con un famigliare) ecco che la descrizione del fenomeno cambia ulteriormente in maniera radicale.
C’è poi un’altra questione, sempre riferita alla contestualizzazione dei dati, che non deve essere trascurata: la definizione delle variabili analizzate.
Un articolo di questo tipo, per esempio, prima di suscitare indignazione per la situazione occupazionale del Paese, dovrebbe indurre il lettore a porsi parecchie domande: Chi sono gli occupati a cui fa riferimento la notizia?, Quali metodologie sono state utilizzate per ricavare quel numero? Che cosa rappresenta quel dato? Qual è l’errore statistico considerato?
I non addetti ai lavori probabilmente non sanno che esiste una definizione, condivisa dopo molti anni dall’Istat, dall’Inps e dal Ministero del lavoro, che identifica gli occupati nelle persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento (a cui sono riferite le informazioni):presentano una delle seguenti caratteristiche:
hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura;
hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente;
sono assenti dal lavoro (ad esempio, per ferie, malattia o Cassa integrazione).
Se questa definizione (peraltro incompleta per motivi editoriali) potrebbe essere lontana dall’idea comune di occupato, le interpretazioni dei dati diffusi dalle principali istituzioni prima di giungere all’accordo sono ancora più complesse e articolate da comprendere. Questa definizione, oltretutto, è integrata da altre definizioni specifiche (disoccupato, occupato a tempo indeterminato, etc), che permettono di fornire descrizioni più dettagliate riguardo alle diverse forme di occupazione. È sufficiente questa osservazione per fornire una chiave di lettura migliore? Ovviamente no. La definizione deve essere riferita a una metodologia di calcolo scientificamente valida, altrimenti resta priva di senso. I dati riguardanti gli occupati possono essere elaborati attraverso diverse fonti, integrate o meno tra loro, attraverso le quali descrivere la situazione occupazionale da diversi punti di vista. In generale, per rispondere alla domanda “quanti sono i/gli… ?”, si ricorre a due metodi, ciascuno dei quali può introdurre degli errori: o si contano tutti gli oggetti di analisi, o si stima il numero attraverso un campione. Tempo fa, mi sono imbattuto in un articolo in cui si affermava che, secondo uno studio non meglio specificato, i topi presenti a Roma fossero circa 6 milioni.
Che metodologia ha adottato chi ha condotto lo studio? Escludendo a priori che possa aver contato i topi uno a uno, e in quel caso si sarebbe trattato di un censimento, che avrebbe dato luogo a un “archivio amministrativo dei topi” con tanto di nome, cognome e indirizzo, l’ipotesi più sensata è che abbia stimato la popolazione totale di ratti attraverso un campione rappresentativo. Le parole stima e campione rappresentativo dovrebbero essere introdotte per legge a corredo delle informazioni diffuse dai media, per evitare ogni tipo di misunderstanding. Nella quasi totalità dei casi, infatti, i dati statistici rappresentano la stima di un certo fenomeno, non la misura di una verità assoluta e incontrovertibile, derivante dall’analisi di dati raccolti attraverso metodi censuari o campionari. Le stime, per definizione, sono corredate dall’errore statistico campionario e non campionario: il primo deriva dalle tecniche di campionamento, il secondo dagli strumenti e dai metodi di rilevazione. Questa affermazione, che potrebbe sembrare ovvia, non lo è affatto quando si tratta di comunicare un dato alla popolazione. Dichiarare apertamente che un dato è associato a un certo margine di errore, possibilmente descritto accuratamente in tutti i suoi aspetti, induce il lettore a dubitare e a interrogarsi sulla possibile falsificazione popperiana dei modelli applicati. Un campione statistico, per quanto accurato e rappresentativo possa essere, introduce sempre una qualche distorsione e un errore che può essere più o meno accentuato laddove si stimi la misura di fenomeni oggettivi (ad esempio il numero di biglie bianche e rosse presenti in un contenitore) o di “opinioni” derivanti da questionari sociali e indagini di mercato. Analogamente, un archivio amministrativo è affetto da altri tipi di criticità, ugualmente complesse, che necessitano di “aggiustamenti” spesso molto complessi per poter essere utilizzati a scopi statistici. In entrambi i casi, è vero che uno studio condotto su un campione o su un archivio amministrativo non può essere migliore del campione o dell’archivio su cui si basa. È altrettanto vero che da un campione (di)storto non può nascere un dato dritto. Tra le ulteriori tecniche di distorsione della realtà c’è sicuramente l’utilizzo fraudolento e spericolato di quello che nella statistica prende il nome di ’”indice di posizione”, ovvero di quel “numero” attraverso il quale si sintetizzano i risultati di un’elaborazione statistica. Gli indici di posizione più utilizzati per sintetizzare le analisi statistiche sono la media, la moda e la mediana. Anche in questo caso, è utile far riferimento a una notizia vera (o verosimile?) diffusa dai media senza le giuste avvertenze, per mettere in risalto alcuni aspetti interessanti.
Indicare il salario medio dei lavoratori di un’azienda potrebbe avere un senso laddove si abbia un certo interesse a livellare verso l’alto la rappresentazione delle retribuzioni: in un’azienda in cui ci sono tre lavoratori, uno che percepisce un salario da 5000 euro e due che ne percepiscono 500, il salario medio aziendale è 2000 euro. Lo stesso fenomeno, descritto attraverso l’uso della moda, dà una lettura diversa: il salario più diffuso nella stessa azienda ammonta 500 euro. La mediana, invece, suggerisce che circa la metà dei dipendenti percepisce meno di 500 euro e l’altra metà di più. Le tre affermazioni sono vere, ma ognuna descrive un aspetto diverso della stessa verità. Il problema, in questo caso, non è l’indicatore statistico, ma è l’uso che se ne fa a fare la differenza…
Potrei continuare per pagine a elencare le possibili insidie dei dati statistici, ma diventerebbe estremamente noioso e poco utile. È utile, invece, riflettere su una domanda: “Quali e quante notizie e report relativi alla pandemia hanno rispettato i requisiti minimi richiesti per la produzione e la diffusione di un dato statistico di qualità?”.
Tutto ciò che chiamiamo reale è fatto di cose che non possono essere considerate reali. A giusta ragione, questa frase di Niels Bohr viene considerata la risposta moderna alla domanda che si pongono da millenni i filosofi e i fisici: cosa è reale? Gli anni che vanno dal ‘600 al ‘900 sono stati scientificamente fertili e fecondi. All’eterno dilemma su cosa sia reale e cosa non lo sia, hanno risposto Galileo, Newton, Spinoza, Gauss ,Hegel, Marx, Schopenhauer,Nietzsche, Einstein, Bohr, Planck, Heisenberg e Fermi… solo per citarne alcuni. Sta di fatto che la conclusione a cui è giunta la fisica quantistica è sintetizzata efficacemente in quella frase pronunciata da Bohr. Conclusione che continua ad avere sostenitori e detrattori, come è sempre accaduto per i paradigmi scientifici che si sono susseguiti nel corso dei secoli. Il calcolo differenziale e la statistica, in questo processo verso la conoscenza, hanno avuto un ruolo determinante, perché hanno permesso, tra le altre cose, di dare un senso all’infinito filosofico e all’indeterminazione atomica. Uno dei capisaldi della meccanica quantistica è proprio il principio di indeterminazione di Heisenberg, sintetizzato dalla relazione ∆x * ∆p ≈ h/2π, la quale, per i non addetti ai lavori, significa che la misura precisa della posizione, o della quantità di moto, di una particella implica un’indeterminazione nella misura dell’altra variabile in un intervallo, chiamato ampiezza di probabilità, definito per l’appunto dalla quantità h/2π. Questa relazione spiega in parte l’affermazione di Bohr. Mi piacerebbe divagare sulle questioni statistiche associate alla fisica e alla filosofia, ma non è l’obiettivo di questo articolo. Voglio invece soffermarmi sul futuro della statistica sociale ed economica e sulla pericolosità di una statistica che, nei tempi moderni, viene privata sempre di più della sua essenza, ovvero di quel legame stretto con il metodo scientifico.
Il metodo scientifico, frutto degli studi di quel genio anarchico e irriverente che portava il nome di Galileo Galilei, prevede alcuni punti fondamentali che vale la pena citare:
– l’osservazione del fenomeno;
– l’individuazione e la a misurazione delle variabili in gioco;
– la formulazione dell’ipotesi;
– la verifica dell’ipotesi tramite esperimento;
– la formulazione della legge;
– la riproducibilità dell’esperimento.
Anche un occhio poco esperto può intuire la completezza e l’assolutezza di un approccio di questo tipo nella descrizione dei fenomeni naturali. È importante soffermarsi un istante sulla parola “naturali”, perché lo stesso Galileo, nel Saggiatore, scrisse le seguenti (lapidarie) parole: “ il Libro della natura è scritto nella lingua della matematica, i cui caratteri sono triangoli, cerchi e figure geometriche”. Poco importa se, in seguito, la geometria euclidea è stata affiancata da geometrie di altro tipo e se il calcolo differenziale ha permesso di concepire l’infinito e l’infinitesimo da un punto di vista matematico, ciò che conta è che il linguaggio della natura è rimasto sempre lo stesso: la matematica e la geometria. Nel momento in cui ho iniziato a occuparmi dei fenomeni sociali, ho cominciato a chiedermi quale fosse il linguaggio in cui sono scritte, che so, il mercato del lavoro, le dinamiche demografiche, gli andamenti occupazionali o le previsioni economiche. Da subito, ho avuto la sensazione che alla base della descrizione di questi fenomeni c’è sicuramente una componente matematica, ma c’è anche una forte componente empirica e una semplificazione selvaggia di numerosi aspetti associati ai diversi fenomeni analizzati. La conclusione a cui sono giunto è che forse perché è stato commesso un errore di fondo, affiancando la parola scienza alle parole lavoro, sociale, demografia ed economia. È possibile applicare il metodo scientifico ad ambiti che non siano lo studio dei fenomeni naturali? No. Qualsiasi riferimento al rigore scientifico, in ambiti diversi da quello “naturale”, dovrebbe essere evidenziato ogniqualvolta viene pubblicata un’analisi statistica, affinché non vengano confuse la completezza e l’assolutezza del metodo galileiano con il relativismo di altri metodi, molto meno assoluti e soggetti alle interpretazioni personali, alla scelta dei modelli applicati e alle chiavi di lettura del fenomeno. Per questo motivo, molte analisi statistiche (fortunatamente non tutte) diventano spesso “banalisi” statistiche, ovvero statistiche estremamente banali e pericolose, realizzate attraverso l’applicazione di modelli e standard preconfezionati, “mordi e fuggi, che non richiedono nessuno sforzo creativo, con cui mistificare il relativismo delle interpretazioni, spacciandolo per una scienza esatta e attribuendogli poteri descrittivi rigorosi che oggettivamente non possiedono, perché non rispettano i canoni del metodo scientifico. Le banalisi statistiche vengono prodotte in serie, meccanicamente, senza lo spirito critico e, soprattutto, senza la consapevolezza dell’utilità per la collettività. Questo non significa che le banalisi statistiche non abbiano alla base delle teorie solide, tutt’altro, significa che, frequentemente, vengono usate delle teorie solide per vendere il fondo di una bottiglia, spacciandolo per uno smeraldo purissimo. La gaussiana funziona per descrivere, che so, l’andamento dell’altezza degli italiani? Certo che funziona, ci mancherebbe altro! Funziona in questo e in tutti quei casi in cui si tratta di descrivere e analizzare la distribuzione di un set di dati. Un conto, però, è l’applicazione della gaussiana ai rilievi astronomici e ai relativi errori di misura, un altro conto è la sua applicazione alla conta dei conigli: lo strumento è lo stesso, ma cambia il contesto in cui viene applicato. Si potrebbe dire che un’analisi statistica seria si differenzia da una banalisi statistica in base al contesto in cui si applicano gli strumenti statistici. Il problema è che in molti contesti vale ciò che scriveva Huff, negli anni ’60, in un famoso saggio intitolato Mentire con le statistiche: Se torturi i dati abbastanza, alla fine confesseranno quello che vuoi,
Supponiamo, però, per assurdo, che non esistano degli invasati delle banalisi statistiche, ma soltanto degli onesti analisti che attribuiscano ai dati relativi a un certo ambito della conoscenza (diciamo pure meno nobile di altri) un semplice e normalissimo ruolo sociale, senza nessuna pretesa di rigore scientifico nel senso stretto del termine. Un rigore scientifico, diciamo così, amatriciano…
La scienza, da che mondo è mondo, si contrappone spesso al senso comune e alle percezioni degli esseri umani: nel momento in cui gli strumenti scientifici vengono usati per descrivere questioni associate a un insieme di variabili imprevedibili e aleatorie, quelle umane, che perdipiù vengono semplificate selvaggiamente, bisogna avere il coraggio di contestualizzare le statistiche in una dimensione diversa da quella assolutistica e incontrovertibile che attualmente gli viene attribuita. Le banalisi statstiche indagano principalmente due aspetti riguardanti gli ambiti sociali ed economici: le previsioni e lo stato delle cose a un tempo t-1 (generalmente all’anno precedente). Poiché il tempo misurato sulla terra è frutto di una convenzione, si potrebbe fare una divagazione filosofica di pagine e pagine sul relativismo e sull’assolutezza, ma andiamo oltre.
Da un decennio, si sono affermate le statistiche dei flussi in tempo reale, che, non a caso, vengono utilizzate efficacemente da chi usa il linguaggio del profitto e non della natura. Poiché le istituzioni non parlano lo stesso linguaggio del profitto, o almeno non apertamente, ma hanno la pretesa di insegnare come si fa a chi sa fare, abbiamo assistito negli anni a un’inutile corsa alle banalisi dei big data da parte dei soggetti più disparati, che hanno accumulato quantità importanti di dati, senza sapere cosa farci. Risultato? Il mondo ancora aspetta che, da qualche parte, in uno dei tanti convegni, si presenti una qualche scoperta sensazionale che superi quella marea di interventi scontati, scanditi dalle parole “nuovo petrolio”, “blockchain”, “machine learning”, etc.
La voglia di prevedere il futuro non è una grossa novità: un tempo si utilizzavano le viscere degli animali, oggi si usano le statistiche. Sembra paradossale, ma il risultato è esattamente lo stesso, perché la maggior parte delle volte è il caso a dettare la validità di una previsione e non la matematica. Per chi volesse togliersi lo sfizio di approfondire questo aspetto, consiglio di leggere un testo di Cicerone, De divinatione, da cui è tratto il passo seguente: “Dunque un indovino sarà più bravo di un navigatore nelle previsioni del tempo, o diagnosticherà una malattia con più perspicacia di un medico, o deciderà in anticipo il modo di condurre una guerra meglio di un comandante?Il medico prevede l’aggravarsi di una malattia seguendo il filo di un ragionamento; e allo stesso modo il comandante prevede un agguato, il navigatore le tempeste; eppure anch’essi, non di rado, si sbagliano, pur non formandosi alcuna opinione senza una ragione ben precisa; così come il contadino, quando vede un olivo in fiore, ritiene che vedrà anche i frutti, non senza ragione; e tuttavia qualche volta si sbaglia. E se si sbagliano coloro che nulla dicono senza aver fatto qualche ipotesi e qualche ragionamento probabile, che cosa dobbiamo pensare delle profezie di quelli che predicono il futuro in base alle viscere, agli uccelli, ai prodigi, agli oracoli, ai sogni?”
Si potrebbe obiettare che Cicerone non aveva gli strumenti matematici necessari per stimare le probabilità che un certo evento accadesse. Obiezione acuta, ma sbagliata.
Il Sole 24 Ore, supportato sempre dalle statistiche degli istituti internazionali di ricerca pubblici e privati, in un articolo della sezione Infodata del 15 gennaio 2022, dal titolo “Le previsioni (sbagliate) del 2021 e quelle per il 2022”, scrive: Nel 2020, quasi nessuno aveva previsto una pandemia, come avevamo rilevato qui discutendo di cigni neri e rinoceronti grigi. Nel 2021, chi avrebbe previsto il successo degli NFT? O solo che una nave portacontainer bloccasse il canale di Suez per giorni generando perdite milionarie su tutte le Borse mondiali? Come sappiamo bene la palla di cristallo in grado di prevedere il futuro non esiste. Al massimo possiamo stimare la probabilità che alcuni eventi possano accadere. Con un ampissimo margine di errore.
L’articolo termina con una considerazione che non lascia via di scampo: “La domanda vera è un’altra: perché ci avventuriamo in questo esercizio stilistico di inizio anno? Sappiamo che gli esseri umani temono l’incertezza, le previsioni servono anche a questo, a renderli più sicuri. E dopo quanto ci è accaduto in questi ultimi due anni siamo certi di essere davvero incerti anche di fronte ad eventi imprevisti ma prevedibili come nel caso di una pandemia.
Quindi, perché dovremmo prestare attenzione alle predizioni?”.
Già, perché dovremmo prestare attenzione alle predizioni? Lasciando le predizioni ai maghi e ai fanatici delle banalisi statistiche, potremmo dire che le statistiche socioeconomiche sono una specie di nottola di Minerva di hegeliana memoria e che si limitano a descrivere rigorosamente i fatti dopo il loro accadimento. Giusto, ma sbagliato. Giusto perché, con un margine molto ampio di errore (errore che peraltro non viene quasi mai messo in evidenza, a corredo dei dati diffusi), la statistica descrive un certo fenomeno a giochi fatti. Sbagliato perché la funzione giustificatrice della statistica, in una società che ha perso il senso della collettività, non serve assolutamente a nulla. Marx, sulla sua tomba, come epilogo di una vita vissuta all’insegna della rivoluzione, ha voluto che fosse scritto il seguente epitaffio: “I filosofi hanno interpretato il mondo; ora si tratta di trasformarlo”.Per tutta la vita aveva contestato fortemente il giustificazionismo, benché, da Platone in poi, proprio come la nottola di Minerva, la filosofia avesse una sua utilità ai fini della comprensione della realtà. Le banalisi statistiche non possono limitarsi al giustificazionismo, per due motivi differenti che analizzeremo attraverso il nemico più agguerriti del metodo scientifico: il senso comune.
Nel palazzo in cui sono cresciuto, negli anni ‘70, ogni famiglia aveva almeno un figlio. La società aveva ancora degli strascichi patriarcali, l’emancipazione femminile era agli inizi, la famiglia era “quasi” solo quella tradizionale e le coppie, benché scoppiate, restavano insieme tutta la vita. Si poteva definire un “palazzo” giovane, in cui l’aspettativa di vita media era di circa 70 anni e l’età era più o meno rappresentata da un grafico di questo tipo
Cosa è successo, in quel palazzo? Nel 2022, molti vecchi inquilini non ci sono più, alcuni sono deceduti, altri hanno cambiato residenza, i nuovi arrivati hanno un’età media intorno ai 40 anni e non hanno figli. In altre parole, il “palazzo” è invecchiato. Perché? Beh, di motivi ce ne sono molti e fanno parte di quell’insieme di variabili statistiche associate al genere umano che non sono sintetizzabili e semplificabili efficacemente come nella descrizione di un fenomeno naturale, che, paradossalmente, è molto più complesso, ma descritto con rigore dalla matematica. La società è diventata meno patriarcale, è stata inventata la pillola anticoncezionale, le donne hanno acquistato indipendenza e, a fatica, pezzi di uguaglianza, gli stili di vita sono cambiati, il neoliberismo ha esasperato l’individualismo e i consumi, è più facile viaggiare e più facile lasciarsi… fatto sta che si fanno meno figli. Poi, c’è da aggiungere che la medicina ha fatto progressi enormi e l’aspettativa di vita media è passata dai 70 anni agli 84 anni. Tutti eventi ipotizzabili ma non facilmente prevedibili nel lungo termine. In poche parole, l’età del mio condominio è rappresentata da un grafico che ha un andamento diverso dal precedente.
A questo punto, si può fare subito una considerazione: il mio condominio è un coacervo di luoghi comuni in cui possono proliferare le banalisi statistiche. Qualsiasi condomino, che non conosca la statistica, semplicemente osservando la dinamica demografica del condominio, potrebbe dire: “Il palazzo invecchia”. Goliardia a parte, viene da chiedersi: “A cosa serve conoscere l’età degli abitanti di un condominio?”. Oltre a fornire un argomento di conversazione alla comari, serve essenzialmente a due cose: a prevedere come saranno i futuri condomini e a migliorare il palazzo, per renderlo adeguato ai suoi abitanti.
Le previsioni, sempre loro, l’eterno gioco, l’eterna tentazione di immaginare cosa accadrà sulla base di cosa è accaduto. Si tratta di una tentazione forte, da cui è difficile liberarsi. Ebbene, qualcuno dovrà pur dirlo e a me tocca l’ingrato compito: sostenere che la popolazione è invecchiata non significa che la popolazione invecchierà, significa presumere, sulla base del buon senso, che, se non accadrà nulla di eccezionale, l’andamento resterà più o meno quello. Ma se non accade nulla, significa che la storia resta la stessa e che non ci sarà mai una pandemia particolarmente aggressiva, o una guerra mondiale, con un possibile esodo di giovani mamme con bambini al seguito, che magicamente potrebbero dare nuovamente senso alla piramide delle età degli anni ‘70.
Figuriamoci, una guerra mondiale, nel 2023… è poco plausibile…
Il mio timore è che la signora del piano terra, che peraltro cucina degli struffoli buonissimi, al pari di molti esperti, facendo ricorso al senso comune, si possa proporre su Tik Tok come esperta di banalisi statistiche. Certo, lei usa un linguaggio più diretto e meno ricco di infografiche, ma, quando sostiene che “Nel condominio ci sono tutti vecchi, è evidente che la popolazione italiana sia invecchiata, dice esattamente le stesse cose dette dagli esperti, che perdipiù non sanno nemmeno cucinare gli struffoli.
Ecco, questo modo di usare la statistica a me non piace per niente. La scienza è una cosa troppo seria e non merita di essere strumentalizzata dai cialtroni e dai maghi.
Ricordate?
– Osservazione del fenomeno;
– Individuazione e la a misurazione delle variabili in gioco;
– Formulazione dell’ipotesi;
– Verifica dell’ipotesi tramite esperimento;
– Formulazione della legge;
– Riproducibilità dell’esperimento.
I fenomeni sociali hanno una limitata “riproducibilità dell’esperimento” e, a differenza di un oggetto che cade al suolo, un insieme di variabili troppo imprevedibili con cui fare i conti. Per questo motivo, la maggior parte delle statistiche diffuse fa uso di modelli, più o meno funzionanti, che restituiscono dei risultati spesso interpretabili, spesso sbagliati e spesso dipendenti dal modello adottato. In questo contesto intellettualmente povero e limitato, non è difficile immaginare un futuro in cui, tra poco, le banalisi statistiche faranno a meno degli statistici.
Prima che impedissero l’accesso a ChatGPT, ho provato a testarne l’abilità statistica con qualche domanda, immaginando lo scenario dei prossimi vent’anni. Le risposte, benché ancora imprecise e rudimentali, sono comunque inquietanti e indicative.
Facendo ricorso all’intelligenza artificiale, è già possibile conoscere, seppur con un certo errore, alcuni dati demografici. Se è vero che siamo ancora lontani dagli standard dei report diffusi dagli istituti internazionali di statistica, è anche vero che l’AI sta muovendo i primi passi e che immaginare un sistema in grado di generare grafici ed elaborazioni anche molto complessi, che faccia ricorso alla totalità dei modelli conosciuti e che sappia scegliere il miglior modello in termini di precisione e di minimizzazione dell’errore, non è fantascienza. In altre parole, da qui ai prossimi anni, le banalisi statistiche saranno affidate sempre di più agli algoritmi. Questo aspetto, che potrebbe gettare nello sconforto molti addetti ai lavori, quelli che hanno bisogno delle pubblicazioni più di quanto le pubblicazioni abbiano bisogno di loro, è un bene per la comunità scientifica. Gli statistici, finalmente, torneranno a occuparsi di statistica e gli indovini a leggere il futuro nelle viscere degli agnelli sacrificali.
Fin qui, è rimasto fuori il secondo aspetto, quello che darebbe un senso a una statistica di questo tipo: l’adeguamento del palazzo alle caratteristiche dei condomini. Purtroppo, anche volendo riconoscere un’utilità alla funzione giustificatrice, il mio palazzo è rimasto esattamente quello degli anni ’70. Non ci sono i montascale e l’ascensore non è adeguato a ospitare persone con disabilità; in compenso, gli inquilini anziani sono costretti a comunicare con l’amministratore attraverso la posta elettronica e a fare le riunioni in videoconferenza. Insomma, tutte cose che ignorano l’invecchiamento del palazzo.
Certo, alla statistica non interessano le sorti degli struffoli e di un condominio di periferia: ragiona su scala globale. Ed è proprio su una scala globale che le cose peggiorano… Nel palazzo Italia, in cui bisogna fare i conti con un invecchiamento ben più grave di quello del mio condominio, le banalisi statistiche, benché discutibili e sofferenti di tutte le mancanze che abbiamo evidenziato, potrebbero avere una loro utilità, ma sono totalmente ignorate dai decisori politici. In un Paese palesemente invecchiato, gli anziani sono costretti ad avere lo SPID, a prenotare i servizi su internet, a comunicare tramite email, a subire tagli continui alla sanità e all’assistenza, ad avere un’auto nuova per poter fare la spesa, o una visita medica, nella ZTL, ad attendere tempi biblici per un accertamento medico e a elemosinare una badante fidata dal parroco del paese, a raccomandarsi ai figli, ai nipoti, o al vicino di casa, per rinnovare la carta d’identità. Questo ragionamento, seppur limitato a un ambito di conoscenza preciso, la demografia, può essere generalizzato a qualsiasi altro ambito dominato dalle banalisi statistiche. Il lavoro, per esempio, o l’economia: chi aveva previsto internet, i Bitcoin, la spesa digitale e un sistema in cui una pizza, per essere consegnata, impiega meno tempo ad arrivare a casa di un’autoambulanza? Lo so, è sconfortante pensare che uno strumento indispensabile per indagare sulla struttura della materia sia stato strumentalizzato per cause molto meno nobili. Ma se non servono a fare le previsioni e non servono per guidare le scelte dei decisori politici, a cosa servono, le banalisi statistiche? Servono per partecipare a dei convegni in cui si riuniscono i banalisti, massimi esperti di banalisi statistiche, per dirsi reciprocamente quanto sono bravi a fare le banalisi statistiche. Servono per scrivere pubblicazioni inutili in cui si cerca goffamente di dimostrare non solo cosa è reale in un mondo fatto da cose irreali ma anche come sarà la realtà del futuro, senza avere la minima idea di come sia la realtà del presente. I banalisti e la banalità del male.
Cosa significa “avere le palle”? A dispetto dell’accezione apparentemente volgare, il significato di questa espressione è da ricercarsi nella storia della famiglia de’ Medici: c’è chi l’attribuisce al numero di palle dello stemma nobiliare e chi alle pillole con cui un medico, appartenente alla famiglia, curò Carlo Magno. Col tempo, questa espressione ha subito una nuova contestualizzazione: durante la prima guerra mondiale, i soldati più pericolosi erano quelli che giravano i proiettili al contrario, per causare più danni al nemico (da qui, e non dagli attributi maschili, deriva la condizione di chi “ha le palle girate”). Di certo c’è che questo modo di caratterizzare una persona non è per niente sessista e può essere utilizzato indistintamente per l’uomo, per la donna e più in generale per i lavoratori. Tra le tante leggende, io preferisco la versione in cui si fa riferimento alle pillole di Carlo Magno: mi piace pensare che “avere le palle” significhi saper prendersi cura di qualcuno o di qualcosa. Che a sua volta significa essere liberi, colti, coraggiosi, generosi, ribelli, folli, visionari e rivoluzionari, se occorre. Tutte caratteristiche assenti nella classe dirigente moderna e, soprattutto, nella classe dirigente della PA, che è bravissima a prendersi cura dei propri interessi e meno degli interessi altrui.Il cancro della pubblica amministrazione, checché se ne dica, non è per niente il lavoratore (o, almeno, non solo), è quell’esercito sterminato di dirigenti senza palle, strapagati dalla collettività per raggiungere dei fantomatici obiettivi istituzionali, che nella maggior parte dei casi corrispondono a un solo obiettivo personale: mantenere il potere e lo stipendio. Poiché la piramide dirigenziale funziona grazie a un sistema gerarchico clientelare, attribuire le responsabilità dei fallimenti è un compito arduo: per questo, chi sbaglia, nella PA, non paga mai. Per questo, è molto difficile risalire alla radice delle responsabilità e descrivere precipuamente il sistema di crediti e di debiti, di scambi di favori e di prebende, tipico di una concezione del lavoro (e non solo) molto italiana. Quando si compie uno scempio, di solito, ci sono i carnefici e i complici: nei bassifondi dei vertici, i carnefici agiscono alla luce del sole, senza vergogna, i complici sono pavidi, restano in silenzio, accettano passivamente, lasciano che le cose vadano in malora, senza opporsi, per non avere rogne. Come se l’indifferenza di fronte a un crimine sia una garanzia di innocenza sufficiente per autoassolversi e per essere assolti. In questo gioco perverso e malato di connivenze e di ginnastiche d’obbedienza, i lavoratori sono semplicemente una merce, uno strumento che serve alla dirigenza per rafforzare la propria posizione, per esercitare il potere e mantenerlo. Molto tempo fa, quando avevo ancora fiducia negli ideali marxiani, un docente che si occupava della formazione dirigenziale mi raccontò che, durante i corsi, ai dirigenti di ogni ordine e grado veniva inculcato nella testa un messaggio chiaro e inequivocabile: “I lavoratori servono esclusivamente a favorire la carriera dei superiori e a nient’altro. Siate abili, divideteli, create disuguaglianze e lasciate scannarli tra loro”.Mi sono rifiutato di credere a questa versione, fin quando non ho capito che aveva ragione, che Marx e Feuerbach avevano buttato via i migliori anni della loro vita e che i loro insegnamenti non erano serviti a niente. La PA, fortunatamente non tutta, ormai da anni, sta andando verso una deriva che rispecchia esattamente la situazione drammatica in cui versa il nostro Paese: la distruzione totale della collettività a favore dell’individualismo, il disfacimento dell’ interesse pubblico a favore di quello privato. Se dovessi scegliere un momento in cui tutto è cominciato, sceglierei gli anni ‘80, quando le USL (Unità Sanitarie Locali) sono diventate ASL (Aziende Sanitarie Locali): è bastato cambiare una vocale per cambiare la vocazione di un’intera nazione: quella A al posto della U significava che una delle cose pubbliche più preziose, la sanità, sarebbe andata verso una lenta e inesorabile privatizzazione. Che la parola unità avrebbe dovuto lasciare spazio alla parola azienda e che il diritto alle cure, prima o poi, sarebbe diventato subordinato al reddito. La parola dirigente, di conseguenza, è stata sostituita dalla parola manager e la distruzione è stata completata dalla Legge 59 del 15 marzo 1997 (meglio conosciuta come RIforma Bassanini) e successivamente dalla legge 133 del 6 agosto 2008 (la RIforma Brunetta). Queste due leggi, insieme alle rispettive leggi finanziarie, attraverso le quali è stato dato il colpo di grazia alla scuola e alla sanità, hanno trasformato il luogo di lavoro in un luogo di competizione e di sofferenza, laddove, per anni, era stato un posto di collaborazione e di discreto benessere. Con molti problemi, per carità, ma umanamente sostenibile. A un peggioramento della condizione lavorativa nell’eterna classe degli oppressi, è corrisposto un miglioramento della vita della classe degli oppressori, che possono godere di una serie di garanzie di impunibilità varie, autorizzate per legge. Paradossalmente, da quando si è iniziato a parlare di benessere sul lavoro, il malessere, l’insoddisfazione e l’allontanamento dei lavoratori (di solito i più preparati)l dal posto pubblico a favore di quello privato sono aumentati vertiginosamente.D’altronde, non si può migliorare il benessere lavorativo, applicando misure repressive e punitive nei confronti dei lavoratori e azzerando i diritti conquistati in anni e anni di lotte. È bene sempre ricordare che la Pubblica Amministrazione è fatta di persone: se non vengono rispettati gli esseri umani non può essere rispettata l’istituzione che si rappresenta. A ogni modo, è ormai chiaro che le azioni peggiori, perpetrate ai danni dei cittadini, debbano essere supportate da parole che significhino l’esatto contrario: si usa il termine “benessere” per creare malessere, “misura giusta” per compiere ingiustizie, “azione necessaria” quando nessuno ne sente la necessità, “missione di pace” per fornire armi e soldati ai paesi in guerra.La classe dirigente, abilissima a cambiare direzione in funzione di come soffia il vento delle convenienze, già inadeguata a gestire la cosa pubblica, si è trasformata da subito in un leviatano senza testa assolutamente incapace di contrastare la privatizzazione, le vessazioni, la distruzione dello status quo e lo sfascio dell’apparato statale. Come si può, dico io, utilizzare un modello organizzativo che abbia come fine il profitto, per gestire delle amministrazioni che dovrebbero avere come fine il benessere della comunità? Se a questa domanda è difficile dare una risposta, ancor più difficile è trovare una logica nell’impiego, nel settore pubblico, di manager che non sono chiamati a generare profitto e che, per questo, non rischiano mai nulla, perché giocano con i soldi degli altri (i cittadini).Nei casi peggiori, l’avvicendamento di manager spregiudicati, invasati dal delirio capitalistico del “make or buy”, ha prodotto la cessione di conoscenza, la vera ricchezza delle istituzioni, e vincolato l’erogazione dei servizi pubblici alla fornitura di servizi privati di dubbia qualità. Il risultato ottenuto è facilmente prevedibile: la distruzione totale degli equilibri produttivi, l’umiliazione dei lavoratori e, ovviamente, un premio: l’avanzamento di carriera. Perché, una cosa l’ho capita, maggiori sono i fallimenti della classe dirigente e maggiori sono gli avanzamenti di carriera: se mia nonna sapesse che ai giorni nostri viene promosso un incapace che ha fatto fallire la bottega e gettato sul lastrico la famiglia, desidererebbe morire una seconda volta.Poiché al grottesco non c’è mai fine, quegli stessi manager, che in un’azienda privata non avrebbero potuto ambire nemmeno al ruolo di fattorini, sono gli stessi che, passando di promozione in promozione, e fingendo abilmente una redenzione mai sincera, quando, a causa del loro operato, vengono realmente ceduti degli asset pubblici alle aziende private, indossano la divisa da Don Chisciotte e adottano iniziative contro le privatizzazioni: come se un macellaio manifestasse contro gli allevamenti di suini… poco credibile…Sia chiaro, non ho niente contro l’iniziativa privata: ben venga il modello imprenditoriale inventato da Olivetti, ben vengano gli imprenditori coscienziosi, che sappiano abbinare col giusto equilibrio il profitto, il benessere dei lavoratori e il miglioramento della vita collettiva. Purtroppo, quando il profitto prende il sopravvento, il resto perde di valore, anche la vita. Gli imprenditori illuminati che conosco, e ce ne sono, faticano a restare a galla e sono costretti a barcamenarsi per sopravvivere ai colossi e al modello Briatore o, peggio, Musk.Cambiare questa classe dirigente è un’impresa impossibile, perché un Paese ha la dirigenza che si merita e, oggi, le palle le hanno veramente in pochi. Si fa un gran parlare di competenze, ma la realtà è che la parola competenza viene utilizzata a sproposito per mascherare con originalità l’incompetenza e l’ignoranza. Eppure, l’Italia è un Paese in cui i dirigenti con le palle ci sono: basterebbe andare a cercare gli esiliati, quelli che “hanno un caratteraccio”, quelli che non si sono piegati ai ricatti e che vengono messi da parte perché antepongono la comunità in cui vivono agli interessi personali e ai giochi di potere. Quelli che, altra nota dolente, hanno la conoscenza, quella caratteristica di cui la Pubblica Amministrazione non ha bisogno, perché fa emergere la mediocrità diffusa e genera invidie e malcontenti. La cultura, nella PA, viene severamente punita ed emarginata, in quanto, oggi come ai tempi del fascismo, fa paura.Un po’ di tempo fa, sull’onda di chissà quale illuminazione, a qualcuno venne in mente di proporre una valutazione della dirigenza “dal basso”, perché, ci vuole poco a capirlo, un dirigente che valuta un altro dirigente non potrà mai essere obiettivo. Panico. Adesso che si fa? Si fanno rispondere al questionario i fedelissimi, gli yesman, gli zerbini, affinché le valutazioni risultino positive. Ebbene, i risultati, in molte amministrazioni, furono ugualmente disastrosi: nemmeno i fedelissimi se la sentirono di partecipare a questa operazione collettiva di distorsione della realtà. È stato un po’ come assistere a quelle elezioni in cui i candidati non vengono votati nemmeno dai genitori…È chiaro che le colpe enormi della dirigenza non assolvono quei lavoratori che utilizzano la PA come una mucca da mungere, ma questa è un’altra storia, che necessita di altre analisi e di altre argomentazioni. Se è facile, per molti politici e per gli imprenditori, sostenere l’inutilità dell’apparato pubblico, non è altrettanto facile immaginare uno Stato, che so, senza il MEF o senza Agenzia delle Entrate: senz’altro migliorabili, ma senza dubbio indispensabili. Il miglioramento, però, ha bisogno di una consapevolezza diversa e di una lenta ricostruzione di quel tessuto sociale distrutto da anni di politiche scriteriate.Raccontata così, sembrerebbe uno sfacelo, ma una speranza c’è: i giovani. Loro, fortunatamente, sono diversi, hanno capito da subito che “i boomer” sono il problema. A loro sono rivolte le speranze della “generazione X”, una generazione arresa che ha miseramente fallito. Siate coraggiosi, non abbiate paura di ribellarvi, dite no ai ricatti, alla schiavitù, alle gerarchie e al potere. Siate liberi. Riprendetevi il futuro, la dignità e il Paese che vi abbiamo tolto. Metteteci da parte. Indignatevi e, soprattutto, collaborate: la collaborazione è meravigliosa, è l’unica speranza di salvezza degli esseri umani. Da soli, per quanto possa essere grande la fama, il livello raggiunto o la poltrona occupata, non si va da nessuna parte.Vi chiediamo scusa. Scusa.
Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu, rispetto all’altro, sei l’altro, diceva Andrea Camilleri. La discriminazione delle minoranze è un male antico dell’umanità a cui non è riuscito a trovare una cura nemmeno Dio in persona, consegnando a Mosè quelle famose tavole contenenti le “istruzioni per l’uso” in cui c’era scritto Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Chissà cosa penserebbe, Dio, guardando i suoi figli scannarsi nei talk show televisivi a colpi di insulti e di falsi dogmi costruiti ad arte per dividere i buoni dai cattivi, sulla base di pregiudizi e appartenenze. La verità è che la diversità fa paura e la maggioranza è sempre legittimata a sentirsi dalla parte giusta della barricata, nonostante sia stato ampiamente dimostrato dalla storia, e da Calvino, che prima di alzare un muro è sempre buona norma tenere presente ciò che si lascia fuori. Scrittori, poeti e cantautori hanno descritto la discriminazione molto meglio di quanto possa riuscire a fare io, anche vivendo dieci vite, per questo mi limiterò a fare alcune considerazioni “più o meno digitali”. Non prima di aver dichiarato apertamente la mia posizione rispetto alle discriminazioni, però. Per tutti il dolore degli altri è dolore a metà, scriveva De Andrè, uno tra i pochi autori contemporanei che, insieme a George Brassens e Jacque Brel, è riuscito non solo a dare voce alla diversità, ma a far emergere la bellezza dirompente degli ultimi, quelli che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti, come una svista, come una distrazione, quelli che viaggiano in direzione ostinata e contraria con un marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muovono gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità. Ecco, sono fermamente convinto che il senso delle minoranze sia proprio una goccia di splendore da consegnare in dono alla morte. Senza cadere nel tranello della retorica, mi verrebbe da dire che ogni uomo, a suo modo, è un “ultimo”. Ognuno ha una goccia di splendore da consegnare alla morte o a qualcuno, perché ogni uomo è diverso e, soprattutto, ogni uomo è solo. Uomo inteso come essere umano, sia chiaro. L’uom*, inclusivo, come direbbero a Napoli, o la donnə, inclusiva, come direbbero a Bari. Perdonerete la franchezza, ma a me l’inclusività letteraria fa un po’ sorridere: la ritengo un esempio pratico di come la superficialità e l’ipocrisia abbiano trasformato il problema della differenza tra un uomo e una donna in un problema lessicale e non culturale. Moriremo di “politicamente corretto”, quello che salva l’apparenza e l’appartenenza, e che, in altri tempi, avrebbe reso impossibile la scrittura della DIvina Commedia o del DIalogo sui massimi sistemi: due opere troppo sovversive per rispettare i criteri mediocri dettati dalla borghesia moderna. La verità è che la vita e la natura sono politicamente scorrette, di conseguenza lo sono l’arte, la politica, l’economia e i rapporti umani. Amen. La digitalizzazione è inclusiva e politicamente corretta? Beh, proviamo a rispondere a questa domanda, mettendoci dalla parte di un anziano alle prese con Spid: mia nonna, vostra nonna.
In primo luogo, per poter prendere un appuntamento negli uffici postali, avrebbe bisogno di scaricare l’app Poste ID, che richiede la registrazione di un account (procedura non proprio banale) e che ha un menù articolato per arrivare al pulsante “Prenota appuntamento”. E nonna, si sa, è in grado di cucinare per un esercito di parenti, ma non ha dimestichezza con lo smartphone. Quindi, si reca all’ufficio postale. Là fuori, al freddo o sotto il sole estivo, troverà ad accoglierla una coda esagerata, coda evitata abilmente dai giovani digitali, che mangiano pane e app. Finalmente, dopo due ore di attesa, nonna riuscirà a parlare con un operatore, sorridente o incazzato in base all’andamento generale della giornata, il quale le dirà parole incomprensibili e le farà firmare mucchi di fogli sulla fiducia, liquidandola con un bel “Riceverà un’email e un SMS per completare la registrazione. E mi raccomando, ricordi di impostare una password sicura e di effettuare, al termine della registrazione, il pagamento on line di 12 euro”. A questo punto, nonna, famosa per la pazienza e l’autocontrollo con cui prepara milioni di tortellini per il giorno di Natale, perde le staffe, inizia a imprecare contro i santi indemoniati Gates e Jobs, e maledice il giorno in cui l’hanno obbligata a richiedere lo SPID per far accedere il consulente del CAF al sito dell’INPS.
Amareggiata, per aver perso del tempo prezioso e non essere riuscita a concludere nulla, chiede aiuto al figlio, il quale, nonostante il tempo risparmiato, grazie alla digitalizzazione, per pagare le bollette o per le pratiche bancarie, non riesce a trovare dieci minuti per andare a trovare la madre, che ha bisogno di quel maledetto SPID. A nonna non resta che tentare da sola l’impresa e sfidare a viso aperto il mostro contenuto nell’email (aperta grazie all’aiuto del figlio della portiera). Il suo dito incerto e rugoso fa clic sul link e magicamente entra in un moderno paese delle meraviglie in cui il Bianconiglio ha le sembianze dell’addetto ai servizi postali, ribattezzato prontamente da nonna Bianconiglione. Questo intrepido roditore digitale la conduce in un bosco di schermate apparentemente simili, in cui è necessario autenticarsi più volte fino ad arrivare di fronte al Cappellaio matto, quello che la invita a scegliere una password composta da caratteri maiuscoli, minuscoli, numerici e speciali. A questo punto, nonna ricorre alla creatività partenopea e inserisce una password evocativa: Chitemmuort43.
Prova a proseguire, ma il Bianconiglione l’avverte, con una schermata di errore visibile solo se si fa scorrere la pagina di registrazione all’inizio, che Chitemmuort43 non va bene perché non è conforme alle regole. In preda al rancore più profondo verso la società, nonna aggiunge a Chitemmuort43 anche #&%$£:!.
Il sistema l’avvisa che apprezza lo sforzo e la collaborazione, ma il Chitemmuort deve essere confermato in un ulteriore campo. Più confermato di così, pensa lei, indirizzando la preghiera contenuta nella password al signor Franco Poste e a tutta la sua famiglia. A questo punto, giunge di fronte al mostro finale, quello che si incontrava nei videogiochi arcade degli anni ‘80: il pagamento dei 12 euro, da effettuare con i servizi Bancoposta, per essere certi che l’operazione possa andare a buon fine, o con qualche carta di credito, non meglio specificata, facente parte di altri circuiti, per essere certi che il pagamento possa essere rifiutato. E niente, ci prova, ci riprova, terrorizzata dalle conseguenze che potrebbe avere dopo aver fornito gli estremi della carta di credito al Bianconiglione, ma l’errore che le si palesa, sempre all’inizio della schermata, è sempre lo stesso “Si è verificato un errore nella compilazione”.
A questo punto, anche nonna, per quanto pia e timorata di dio, “sbrocca” e inizia a far ricorso alle preghiere imparate sui banchi di quella scuola televisiva che aveva come maestri Bombolo e il commissario Monnezza. Il figlio, forse per miracolo, o forse perché le maledizioni sono più efficaci delle preghiere, si muova a compassione e corre in soccorso del genitore blasfemo e fumantino. Anche lui, però, nonostante la sua laurea in ingegneria informatica, deve arrendersi a quel messaggio criptico: “Si è verificato un errore nella compilazione”. Come tutti gli informatici posti davanti a un errore incomprensibile, perché, diciamo la verità, all’apparenza sembra tutto giusto, i dati anagrafici, gli estremi della carta di credito…, inizia a parlare con lo schermo dello smartphone.
Ma perché mi fai così? Ce l’hai con me? Che t’ho fatto?
Si tratta di una vecchia tecnica per cercare di intenerire l’avversario, ma l’avversario ormai ha capito il trucchetto e non cede: “Si è verificato un errore nella compilazione”.
All’ingegnere, figlio di cotanta madre, non resta che abbandonarsi alle stesse preghiere descritte poche righe sopra e prendere un appuntamento con un operatore tramite l’app Poste ID. Nonna è felicissima di uscire col figlio: indossa il suo vestitone di flanella migliore, si ubriaca con litri di acqua di colonia ed elude la fila, esibendo il dito medio alla sua vicina di pianerottolo. Ci sono un ingegnere, una nonna e un operatore postale prossimo alla pensione… sembra l’inizio di una barzelletta, ma purtroppo è la triste realtà. Anche l’operatore, il Bianconiglione, è una vittima della digitalizzazione e non riesce a capire perché la procedura si blocchi. Alla fine, dopo aver chiamato l’esperto informatico dell’ufficio, che invece di gestire le pratiche Spid è a fare consulenza sui prodotti Bancoposta, si svela l’arcano: l’errore di compilazione è dovuto alla doppia m di Chitemmuort. Sì, proprio così, una password sicura, secondo le politiche del sistema, non può contenere due lettere uguali. E, se la password è sbagliata, non si può procedere al pagamento. Serve un Chitemuort addolcito, una versione avellinese… All’ingegnere non resta che ringraziare per aver informato dettagliatamente l’utente riguardo alla natura dell’errore attraverso il messaggio chiaro ed esplicativo “Si è verificato un errore nella compilazione”.
Chiedo scusa se mi sono lasciato trasportare dall’ironia, ma l’iter descritto è esattamente ciò che succede molto frequentemente: basta cercare su Google “Si è verificato un errore nella compilazione”, per rendersene conto.
La domanda che mi (e vi) pongo è la seguente: siamo proprio sicuri di andare nella direzione giusta? È proprio questo il modello di società che abbiamo in mente?Non vorrei dirottare il discorso sulla pericolosità degli uomini organizzati a discapito delle minoranze disorganizzate, perché entrerei in un campo che esula dalle questioni digitali. ma sarebbe opportuno soffermarsi a pensare quanto la digitalizzazione ci permetta di “essere” (poco), di apparire (tanto), o quanto l’appartenenza a un gruppo di persone iperconnesse trascuri le esigenze e le difficoltà delle minoranze analogiche. In questi lunghi mesi di isolamento, mi sono chiesto molte volte quanto sia realmente inclusiva la digitalizzazione e sono giunto alla conclusione che la società virtuale che stiamo creando non mi piace. Non dico che sia peggiore, dico che non mi piace. Ho imparato a mie spese quali siano le conseguenze delll’illusoria vicinanza che sembrano dare i sistemi di messaggistica: non è così, non vicinanza è lontananza “politicamente corretta”. E ho imparato che non basta avere del tempo a disposizione se non si hanno le idee chiare su come (e con chi) spenderlo. Ma, soprattutto, partendo dalla nonna e arrivando alle recenti fazioni SI vs NO, Sivax contro Novax, Si greenpass contro No greenpass, ho capito che siamo impreparati a indossare i panni dell’altro, a immedesimarci e a tollerare la diversità. L’applicazione della digitalizzazione, non la digitalizzazione in sé, rispecchia l’intolleranza e la chiusura verso la diversità tipica dell’epoca in cui viviamo. Nei fatti, sia chiaro, perché sui social un “Mi piace” ai post che riguardano i migranti o il DDL Zan non si nega a nessuno. È radical chic. Dà l’impressione di una larghezza di vedute che abbina i voli delle menti politicamente corrette alle gambe corte dei talebani. Eppure, una digitalizzazione più umana sarebbe possibile: basterebbe iniziare a immedesimarsi negli altri “da dentro”, invece di guardarli e giudicarli da fuori, da lontano, da dietro uno schermo. Sentirsi rom per un giorno, o ladri, o anziani, o malati, o prostitute, o migranti, e vedere l’effetto che fa, per capire realmente come si sta dall’altra parte, in mezzo a quella minoranza in cui si può finire per colpa, per fatalità o semplicemente perché è così che deve andare, perché prima o poi tutti diventano qualcun altro. Discriminato. Oggi, l’esperimento sociale è abbastanza semplice: basta dire “sono contro il green pass” e si passa automaticamente dalla parte dei cattivi. Ecco, forse, andare in giro per un giorno senza lasciapassare, e sentirsi dire No, lei qua non può entrare o, peggio, No, lei non può più lavorare potrebbe aiutare a vedere il mondo da un’altra prospettiva. Oppure, si potrebbe iniziare a viaggiare insieme alla famiglia Joad, fino a la rabbia degli emarginati: “Le strade pullulavano di gente assetata di lavoro, pronta a tutto per il lavoro. E le imprese e le banche stavano scavandosi la fossa con le loro stesse mani, ma non se ne rendevano conto. I campi erano fecondi, e i contadini vagavano affamati sulle strade. I granai erano pieni, e i figli dei poveri crescevano rachitici, con il corpo cosparso di pustole di pellagra. Le grosse imprese non capivano che il confine tra fame e rabbia è un confine sottile. E i soldi che potevano servire per le paghe servivano per fucili e gas, per spie e liste nere, per addestrare e reprimere. Sulle grandi arterie gli uomini sciamavano come formiche, in cerca di lavoro, in cerca di cibo. E la rabbia cominciò a fermentare.”
Un dato è un dato, due dati sono un’osservazione, tre dati sono conoscenza. Detta così, a freddo, senza un’opportuna contestualizzazione, può sembrare una frase rubata a una puntata della serie televisiva The Big Bang Theory. Cosa da non escludere a priori, peraltro. In realtà, si tratta di una riflessione maturata in questi due anni di vita sospesa, anni in cui ogni singolo dato, anche il peggiore, è stato spacciato per un’illusione di verità, una finta conoscenza, e la scienza è diventata un nuovo dio in cui credere, un’entità soprannaturale che ha permesso di agire in suo nome per ridefinire le regole di comportamento della collettività. Questa divinità si è palesata sotto forma di affermazioni spericolate e di dati spesso imprecisi, confusi, ricchi di errori, di omissioni e di evidenze smentite a colpi di contraddizioni, di false rassicurazioni e di finte certezze. Lo dico subito, così sgombriamo il campo da qualsiasi dubbio: io non ho bisogno di un dio scientifico in cui credere e considero questa nuova religione, che sfiora lo sciamanesimo e la cialtroneria, ben più pericolosa delle vecchie religioni a cui almeno va il merito di aver avuto Gesù Cristo o Buddha come leader rivoluzionari al comando. Non metto i like ai tweet dei virologi perché ho dei riferimenti diversi, più autorevoli, e considero la ricerca scientifica una faccenda troppo seria, che si fa nei laboratori e non può essere ridotta a dei ridicoli annunci pubblicitari diffusi sui social network o nei salotti televisivi. Insomma, sono uno di quegli inguaribili nostalgici che vedono nella ricerca scientifica il mezzo per arrivare “gratis” alla conoscenza. E quando dico gratis intendo dire che rinnego qualsiasi forma di profitto associata speculativamente alla parola scienza. La conoscenza deve essere alla portata di tutti, un po’ come l’amore.
Ma cosa è, esattamente, la conoscenza? In modo semplicistico, si potrebbe dire che la conoscenza è la risposta a un qualche tipo di domanda. Domandare permette di capire, e capire consente di conoscere. Di sopravvivere. Di migliorare.Di evolversi. Si può vivere senza amicizie, senza un braccio, perfino senza amore, ma non si può vivere senza domandare e senza cercare delle risposte. È chiaro che ci sono domande e domande: non a caso si dice che è meglio avere domande giuste e risposte sbagliate piuttosto che il viceversa. Cosa si domanda, a chi si domanda e cosa ci si aspetta dalla risposta rappresentano i cardini su cui si basa il processo che porta alla conoscenza.
Come ti chiami?
Alessandro.
Alessandro è un dato. Un dato che mi descrive in minima parte e che potrebbe essere integrato da un insieme di altri dati, quali possono essere l’età, la corporatura, il colore degli occhi e un’invidiabile testa diversamente tricotica e fantasiosamente pettinabile, per fornire una descrizione più precisa. Alessandro è anche una risposta. Ma a cosa serve una risposta di questo tipo a chi ha posto la domanda? Sicuramente non serve a conoscere tutti gli uomini che si chiamano così. Non fosse altro per un’evidenza empirica, oserei dire una falsificazione, dimostrabile facilmente: esiste almeno un altro Alessandro che fa di cognome Barbero e ha dei capelli maledettamente folti. Una foresta. Sembra un playmobil con gli occhiali. Ne consegue che avere o meno i capelli è anch’esso un dato importante ma insufficiente per conoscere tutte le persone che si chiamano Alessandro e tantomeno per distinguere un Alessandro da tutti gli altri. Si potrebbe obiettare che la questione, posta in questi termini, è alquanto capziosa: per distinguere una persona da tutte le altre basta aggiungere il cognome, la data e il luogo di nascita e il problema è risolto. A parte il fatto che uno scrittore non cerca obiezioni ma conferme, e non cerca detrattori ma discepoli, l’obiezione è corretta. In parte. In parte perché potrebbe esistere un altro Alessandro, con lo stesso cognome, nato nello stesso luogo e nello stesso giorno. Ma non è questo il punto importante. Anche avendo a disposizione dei dati identificativi precisi, si potrebbe affermare di “conoscere” realmente Alessandro? Un fisico direbbe che il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita sono volgari convenzioni introdotte dall’uomo e che non hanno nessun valore scientifico. Ma voglio dissociarmi da me stesso e di conseguenza dai fisici. Dirò che la volgare convenzione, l’identificativo, può essere utile durante un interrogatorio o per notificare una cartella esattoriale, ma di certo non è utile per conoscere la persona a cui si chiede il nome. Escluderei anche l’opzione “riscossione”, a meno che non vi piaccia essere contornati da quegli amici che Campbell, facendo ricorso agli archetipi mitologici, piazzerebbe irrimediabilmente tra il mutaforme e l’imbroglione. Se vi state chiedendo voglio proprio vedere questo cretino dove vuole arrivare, vi rispondo che il cretino vuole arrivare a mostrare un’evidenza banale: un dato, da solo, non serve quasi mai a nulla. Anche quello che può sembrare importantissimo, che so, la temperatura corporea o il numero di globuli bianchi, non fornisce risposte certe su eventuali patologie e di conseguenza sulla conoscenza di un fenomeno correlato. Direte: “Quindi?”. Quindi usare i dati a sproposito, senza metodo, non serve a granché, specialmente quando l’utilizzo è finalizzato a supportare dimostrazioni e ipotesi fraudolente. Per rendervi conto di quanto sia ricorrente il ricorso truffaldino ai dati parziali e incompleti in un discorso, basta accendere la TV e sintonizzarsi su qualche rarissima trasmissione in cui si parla di Covid. Se avrete la fortuna di cogliere uno degli sporadici attimi in cui compaiono “gli scienziati”, avrete anche il privilegio di comprendere meglio il senso di questo articolo. E dei dati. Se io dico che è stata superata la soglia di allerta del 10% di occupazione delle terapie intensive, ho fornito un dato. Un dato allarmante, però, attraverso il quale posso creare paure e pregiudizi amplificati dai media e dai toni catastrofici. Se però aggiungo che la soglia di allerta, negli ultimi tempi, a seguito di decisioni che sembrano prive di logica, è scesa dal 30% al 10%, il dato assume un altro significato. Se consulto la serie storica dei dati sull’occupazione delle terapie intensive, e prendo come riferimento i report annuali dell’Istituto Superiore della Sanità relativi ai 5 anni precedenti al 2020, posso dire che il tasso di occupazione medio delle terapie intensive si attesta intorno al 50%, con picchi del 100% nella stagione invernale. Quel dato, quindi, quel 10%, assume ancora un altro significato e l’interpretazione di ciò che accade subisce una connotazione totalmente diversa. Chi usa i dati per comunicare conosce benissimo questi meccanismi e sa altrettanto bene cosa omettere e cosa accentuare per dimostrare una certa ipotesi. Edgar Lee Master sosteneva che Il modo come la gente considera il furto è ciò che rende ladro il ragazzo e questo, quando si tratta di descrivere un fenomeno scientifico al di là dei pregiudizi, è francamente inaccettabile. Non è possibile che il modo di guardare i dati renda un fenomeno più o meno veritiero, più o meno certo, più o meno pericoloso. La morale e i pregiudizi riguardano un ambito che ha poca attinenza con il metodo scientifico.
A questo proposito, qualche tempo fa, ho scritto un articolo in cui parlavo di cosa fossero il metodo deduttivo e il metodo induttivo. Semplificando al massimo, si può dire che il primo metodo permette di indagare la natura di un certo fenomeno a partire dall’ipotesi teorica generale e dalla successiva verifica sperimentale dei fatti, mentre il secondo parte dall’osservazione dei fatti per costruire una qualche teoria generale. Einstein è stato un fan accanito del metodo deduttivo ed è arrivato a sostenere che le maggiori scoperte scientifiche siano state fatte ricorrendo alla deduzione e non all’induzione.
Baruch Spinoza, ancor prima di Einstein, scrisse un trattato, dal titolo Etica dimostrata con metodo geometrico, all’interno del quale, attraverso il metodo assiomatico deduttivo, “dimostrò” il concetto di deus sive natura, ovvero l’esistenza di un dio senza barba e figli prodigiosi ma concepito come sostanza infinita da cui dipendono tutte le cose esistenti in natura, compresi gli accadimenti, quelli che noi chiamiamo destino. Spinoza, pur non avendo inventato il metodo assiomatico deduttivo, ha utilizzato il metodo euclideo per un’impresa difficilissima: dimostrare rigorosamente l’esistenza di un dio ben più complesso di uno Zeus incazzoso che lanciava fulmini a destra e a manca. E l’ha fatto fregandosene della scomunica dei gesuiti, senza peraltro indossare il celebre vestito da bonzo per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming (ma trovando il centro di gravità permanente sconosciuto a Battiato). So che potrebbe sembrare una divagazione poco attinente all’argomento, ma vale la pena citare il testo della scomunica di Spinoza, per capire l’effetto dirompente che può causare un pensiero ampio, complesso e diverso da quello delle maggioranze.
“Con il giudizio degli angeli e la sentenza dei santi, noi dichiariamo Baruch de Spinoza scomunicato, esecrato, maledetto ed espulso, con l’assenso di tutta la sacra comunità […]. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia maledetto quando si corica e maledetto quando si alza; maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai piú perdonarlo; possano l’ira e la collera del Signore ardere, d’ora innanzi, quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribú d’Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del cielo contenute nel Libro della Legge […]. Siete tutti ammoniti, che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dormire sotto il suo stesso tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti [circa due metri], e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno”.
Spinoza dimostra deduttivamente l’esistenza di dio e viene scomunicato con il giudizio degli angeli e la sentenza dei santi. Come dire che Paulo Roberto Falcão viene escluso dalla nazionale brasiliana col giudizio di Oronzo Canà e la sentenza di Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento. Non conosco storie analoghe per tessere le lodi del metodo induttivo; in compenso ne conosco molte per dimostrarne l’utilizzo fraudolento, ma per farlo occorre riprendere il filo del discorso e tornare alla conoscenza di Alessandro. Quando si utilizza il metodo induttivo, oggi confuso con l’empirismo puro e col relativismo interpretativo, occorre in primo luogo identificare il problema, formulare un’ipotesi di ricerca e definire il metodo e il campo di osservazione. È chiaro, quindi, che se il problema di chi pone la domanda “come ti chiami?” è l’identificazione precisa di Alessandro, può essere sufficiente aggiungere altre domande del tipo Quando sei nato?, Dove sei nato?, Qual è il tuo cognome?
Se il problema è conoscere Alessandro in profondità, non sarà sufficiente il nome e il cognome. Non sarà sufficiente nemmeno chiedere quali sono i libri, la musica o le pietanze preferite. Occorrerà estendere il campo di osservazione e raccogliere un insieme di variabili ben più ampio, approfondire le fragilità, i sentimenti, le paure, le ombre, i difetti e i pregi. Tutte variabili necessarie per ottenere un insieme consistente ed esaustivo di dati da correlare tra loro per fornire una descrizione più o meno precisa. Tanto maggiore sarà l’accuratezza dell’osservazione, tanto maggiori saranno le possibilità di conoscere meglio Alessandro. Tanto migliore sarà la scelta delle variabili, le tecniche di analisi e la correlazione tra i dati, tanto migliore sarà la precisione della descrizione. Descrizione, sia ben inteso, che avrà sempre un margine di incertezza e non sarà mai perfetta e assoluta. L’approccio deduttivo, per descrivere Alessandro, sarebbe più complesso in quanto richiederebbe di formulare una teoria generale che possa definirne la personalità, verificandone a posteriori la validità attraverso la pratica e la rilevazione dei dati, Poiché questa operazione non è riuscito a farla nemmeno Alessandro in persona, anche se è tuttora affascinato da una teoria generale che descriva sé stesso al fine di evitare le scelte sbagliate, dubito fortemente che ci sia qualcuno in grado di commettere un azzardo simile. Non sono pronto a giurarci perché in questo periodo storico si riuscirebbe a trovare facilmente qualcuno sufficientemente presuntuoso da spiegare a dio in persona com’è fatto dio. La maggior parte dei dati prodotti attraverso le statistiche si basa sul metodo induttivo e sulla capacità di osservazione e di analisi che hanno i produttori. La capacità di produrre dati di qualità è diventata una caratteristica molto rara, ma ancor più rara è la capacità di interpretare quei dati per descrivere un certo fenomeno nella sua totalità, fornendone la chiave di lettura corretta. Questa mancanza, dovuta essenzialmente a una scarsa cultura scientifica (anche da parte dei molti cosiddetti scienziati), si ripercuote sul processo cognitivo che porta gli individui alla conoscenza e, soprattutto, sulla falsa e ben più insidiosa percezione di conoscenza, quella basata sull’esperienza superficiale e non sulla ragione. Io leggo un dato e lo utilizzo per descrivere un fenomeno nella sua interezza, ignorandone, volutamente o involontariamente, la contestualizzazione rispetto al campo di osservazione e all’ipotesi iniziale. Il discorso sarebbe lungo e temo di aver sforato ampiamente i tempi previsti per la lettura di un articolo sul web. Concludo dicendo che, nell’incertezza, è sempre meglio dubitare. Il dubbio cartesiano ci salverà, forse. Dubitare, dubitare, dubitare sempre, quindi. E non smettere mai di chiedere e di domandare, anche se, in molti casi, a una domanda legittima potrebbe corrispondere una risposta poco soddisfacente.Un po’ come accade al viandante, citato dal profeta Isaia, che si ferma a chiedere a una sentinella “Quanto resta della notte?”” e si sente rispondere “Il mattino viene, ma è ancora notte! Se volete, domandate, chiedete, tornate e domandate ancora.”. Ci sarebbe da chiedersi se la notte simboleggi l’incapacità dell’uomo di conoscere il senso dell’esistenza e se, per questo, generi inquietudini e produca domande a cui non ci sarà mai una risposta, domande che in ogni caso bisogna continuare a fare ancora, e ancora, e ancora, alle sentinelle che si incontrano nella vita.