Quante facce ha l’amore? Tante quanti sono gli amori vissuti nella vita di ognuno di noi. Come una farfalla che si posa sulla testa è un viaggio emotivo che conduce con delicatezza gli spettatori alla scoperta del sentimento più vero e inafferrabile che ci sia: l’amore. Storie di incontri e di addii, di marinai e di nuvole, di fughe e di ritorni, che si susseguono senza sosta, nel tentativo di trovare un senso a quella forza inspiegabile che spinge gli esseri umani a legarsi indissolubilmente tra loro e a condizionare le reciproche esistenze. I protagonisti di questo viaggio sono l’uomo, la donna e l’incomunicabilità, il terzo incomodo che li perseguita da sempre senza pietà. Oggi più che mai, l’universo maschile e l’universo femminile sono destinati a non incontrarsi, a restare prigionieri dell’individualismo e della solitudine, a essere lontani pur restando vicini. E se è vero che l’amore è poesia e passione allo stato puro, è anche vero che le stanze delle passioni sono abitate da incomprensioni, da ripicche quotidiane, da prove di forza, da piccole grandi fobie e da ossessioni per il controllo, che diventano goffi tentativi di cambiare il prossimo, per amarlo come lo vorremmo e non come in realtà è. Tentare di dare un senso all’amore è una follia: accade tutto così, all’improvviso. Senza motivo. Quando meno te l’aspetti. Come una farfalla che si posa sulla testa.
A proposito della mia abiura, ha scritto La sera leone, la mattina coglione Galileo Galilei
”Si è permesso di giudicare i miei giudizi sintetici a priori e di criticare la mia Critica” Immanuel Kant
“Dice che ho un carattere di merda… invece lui…” Carl Friedrich Gauss
“Un fratello, per me è come un fratello: ci siamo ubriacati e abbiamo cantato insieme l’Internazionale e La locomotiva!” Karl Marx
Un servosterzo, secondo me, vive una vita di merda. Tutti sanno che esiste, tutti lo usano, nessuno sa dov’è e, soprattutto, quasi nessuno sa come funziona. Esattamente come per la fisica e per la filosofia. Il servosterzo è solitario (avete mai visto un’auto con due servosterzi?), fa il suo lavoro in silenzio, ma, se si guasta, l’auto si schianta in un attimo. Se io fossi un servosterzo, me ne fregherei altamente di cosa pensano gli altri sui servosterzi. Saprei benissimo che, senza di me, la vita delle persone sarebbe difficilissima. Eppure, nessuno ha mai scritto parole di elogio per i servosterzi. Niente, nemmeno un grazie. Di solito, non si scrivono parole di elogio nemmeno per la fisica. Per la filosofia, poi… Tranne nei casi in cui qualcuno vince un premio Nobel. In quel caso, l’Italia si trasforma in una Repubblica di fisici, in cui le persone parlano di relatività e di neutrini come se parlassero di fuorigioco. Io avrei voluto trovare un titolo adeguato per questo libro, ma non ho trovato parole originali, a parte “servosterzo”. Qualsiasi titolo calzante, che so, Filosofia della fisica, o Fisica per filosofi, era già stato usato. E allora, con la parola servosterzo che mi ronzavUn servosterzo, secondo me, vive una vita infernale. Tutti sanno che esiste, tutti lo usano, nessuno sa dov’è e, soprattutto, quasi nessuno sa come funziona. Esattamente come per la fisica e per la filosofia. Il servosterzo è solitario (avete mai visto un’auto con due servosterzi?), fa il suo lavoro in silenzio, ma, se si guasta, l’auto si schianta in un attimo. Se io fossi un servosterzo, me ne fregherei altamente di cosa pensano gli altri sui servosterzi. Saprei benissimo che, senza di me, la vita delle persone sarebbe difficilissima. Eppure, nessuno ha mai scritto parole di elogio per i servosterzi. Niente, nemmeno un grazie. Di solito, non si scrivono parole di elogio nemmeno per la fisica. Per la filosofia, poi… Tranne nei casi in cui qualcuno vince un premio Nobel. In quel caso, l’Italia si trasforma in una Repubblica di fisici, in cui le persone parlano di relatività e di neutrini come se parlassero di fuorigioco. Io avrei voluto trovare un titolo adeguato per questo libro, ma non ho trovato parole originali, a parte “servosterzo”. Qualsiasi titolo calzante, che so, Filosofia della fisica, o Fisica per filosofi, era già stato usato. E allora, con la parola servosterzo che mi ronzava in testa, mi sono messo a fare dei parallelismi con la fisica e con la filosofia. L’italiano è una lingua fantastica per questo motivo: tu prendi una parola a caso e, con un po’ di fantasia, riesci a costruire delle connessioni bestiali. A conti fatti, la fisica e la filosofia sono legate alla matematica come le ruote e il volante sono legati al servosterzo. E questo è il primo punto a favore del titolo. Senza la fisica e senza la filosofia non si va da nessuna parte, esattamente come accade per un’auto senza servosterzo. È vero, senza un servosterzo, facendo una fatica incredibile, si può guidare comunque un’auto. Senza la fisica, invece, non si può vivere, perché gli uomini, da quando hanno messo piede sulla terra, non hanno mai smesso di interrogarsi e di cercare la verità. Un servosterzo rende la vita più semplice e allevia la fatica, proprio come la filosofia. Quindi, ho deciso di adottare un servosterzo e di averne cura, nella buona e nella cattiva sorte, in salute e malattia, finché rottamazione non ci separi. Nell’Apologia del servosterzo affronteremo molti argomenti, fisici e filosofici, a volte con rigore, a volte con del sano e consapevole cazzeggio. Inizieremo con il ‘600, per arrivare, sbandando, ai giorni nostri. Proveremo a spiegare, con un minimo di rigore scientifico, perché la terra è tonda e cosa diavolo sia la luce. Poi, attraverso i ragionamenti (da fisici) che faremo, con quella stessa luce, illumineremo la notte intellettuale in cui spesso ci troviamo: una notte buia, immensa, piena di domande e povera di risposte. Infine, attraverso un azzardo narrativo, proveremo a usare la filosofia per aggrapparci a qualcosa e tentare di dare una risposta alle domande esistenziali a cui la fisica non può rispondere. Riusciremo a rispondere alla domanda che l’uomo si pone da quando trascorreva la settimana bianca in una caverna? Qual è questa fottutissima domanda? Non posso permettermi di fare spoiler a me stesso: per scoprirlo, leggete il libro e accontentatevi delle poche luride pagine che riuscirò a scrivere. Pagine insulse e sudicie, in cui distruggerò, dissacrandoli, anni di studi e di ricerche. Non sarà facile, lo ammetto, perché sono sicuro che, leggendo con quale maestria abbia trattato il delicato argomento “servosterzo”, senza peraltro urtare la sensibilità dell’alternatore e dell’albero a cammes, chissà quali altissime aspettative nutriate nei miei confronti. Ci proverò, a costo di restare solo per la vergogna e di non uscire più di casa. Solo e anonimo, come un servosterzo.
Nascere è una fortuna, rinascere è un miracolo. Attraverso l’arte, e la scrittura, non solo si può rinascere, ma si può diventare eterni. Io e i miei amici abbiamo fondato la Caveart, un’associazione culturale. Un’altra, direte voi, una delle tante… Ne sentivamo il bisogno? Voi non saprei, noi certamente sì, perché a un certo punto della vita non è più possibile rimandare: bisogna diventare ciò che siamo. Facciamo cose, incontriamo gente,come direbbe Nanni Moretti, ma, soprattutto, facciamo arte: teatro, scrittura, direzione artistica, laboratori, musica, disegno, scultura. Lo facciamo perché ci siamo resi conto di saperlo fare bene e di non saper fare altro. Lo facciamo perché una vita senza arte è una vita vissuta a metà. Caveart ha un obiettivo ambizioso: arrivare nei luoghi abbandonati, dove ci sono dolore e sofferenza, dove non ci sono speranze e possibilità. Vogliamo arrivare in quei posti in cui c’è più che mai bisogno di quel sacro fuoco che non si spegne mai e che illumina da sempre le esistenze. Per ora ci sono uno statuto, un sito web e un gruppo di professionisti con una voglia dirompente di esserci. È sufficiente? Certo che no. Ci mancano una sede, uno sponsor e un numero consistente di iscritti. Dobbiamo organizzarci e partire, come la famiglia Joad in Furore. Vogliamo organizzarci e partire. Il furgone sul quale viaggiamo è vecchio e scassato, ha le gomme a terra, il radiatore che fuma e perde acqua, i bulloni arrugginiti e va piano. Di spazio, però, ce n’è a sufficienza. Ospitiamo quasi tutti, a eccezione degli arrivisti, degli iperconnessi, dei carrieristi e dei malati di successo e di soldi. Al contrario, troveremo sempre un posto per i diversi, per chi vive ai margini, per chi si sente solo, per chi non ce la fa più e per chi non riesce più a trovare un senso a questa vita senza senso. Il link al sito dell’associazione è http://www.caveart.it
Non bisogna mai avere paura dell’altro perché tu, rispetto all’altro, sei l’altro, diceva Andrea Camilleri. La discriminazione delle minoranze è un male antico dell’umanità a cui non è riuscito a trovare una cura nemmeno Dio in persona, consegnando a Mosè quelle famose tavole contenenti le “istruzioni per l’uso” in cui c’era scritto Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Chissà cosa penserebbe, Dio, guardando i suoi figli scannarsi nei talk show televisivi a colpi di insulti e di falsi dogmi costruiti ad arte per dividere i buoni dai cattivi, sulla base di pregiudizi e appartenenze. La verità è che la diversità fa paura e la maggioranza è sempre legittimata a sentirsi dalla parte giusta della barricata, nonostante sia stato ampiamente dimostrato dalla storia, e da Calvino, che prima di alzare un muro è sempre buona norma tenere presente ciò che si lascia fuori. Scrittori, poeti e cantautori hanno descritto la discriminazione molto meglio di quanto possa riuscire a fare io, anche vivendo dieci vite, per questo mi limiterò a fare alcune considerazioni “più o meno digitali”. Non prima di aver dichiarato apertamente la mia posizione rispetto alle discriminazioni, però. Per tutti il dolore degli altri è dolore a metà, scriveva De Andrè, uno tra i pochi autori contemporanei che, insieme a George Brassens e Jacque Brel, è riuscito non solo a dare voce alla diversità, ma a far emergere la bellezza dirompente degli ultimi, quelli che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti, come una svista, come una distrazione, quelli che viaggiano in direzione ostinata e contraria con un marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muovono gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità. Ecco, sono fermamente convinto che il senso delle minoranze sia proprio una goccia di splendore da consegnare in dono alla morte. Senza cadere nel tranello della retorica, mi verrebbe da dire che ogni uomo, a suo modo, è un “ultimo”. Ognuno ha una goccia di splendore da consegnare alla morte o a qualcuno, perché ogni uomo è diverso e, soprattutto, ogni uomo è solo. Uomo inteso come essere umano, sia chiaro. L’uom*, inclusivo, come direbbero a Napoli, o la donnə, inclusiva, come direbbero a Bari. Perdonerete la franchezza, ma a me l’inclusività letteraria fa un po’ sorridere: la ritengo un esempio pratico di come la superficialità e l’ipocrisia abbiano trasformato il problema della differenza tra un uomo e una donna in un problema lessicale e non culturale. Moriremo di “politicamente corretto”, quello che salva l’apparenza e l’appartenenza, e che, in altri tempi, avrebbe reso impossibile la scrittura della DIvina Commedia o del DIalogo sui massimi sistemi: due opere troppo sovversive per rispettare i criteri mediocri dettati dalla borghesia moderna. La verità è che la vita e la natura sono politicamente scorrette, di conseguenza lo sono l’arte, la politica, l’economia e i rapporti umani. Amen. La digitalizzazione è inclusiva e politicamente corretta? Beh, proviamo a rispondere a questa domanda, mettendoci dalla parte di un anziano alle prese con Spid: mia nonna, vostra nonna.
In primo luogo, per poter prendere un appuntamento negli uffici postali, avrebbe bisogno di scaricare l’app Poste ID, che richiede la registrazione di un account (procedura non proprio banale) e che ha un menù articolato per arrivare al pulsante “Prenota appuntamento”. E nonna, si sa, è in grado di cucinare per un esercito di parenti, ma non ha dimestichezza con lo smartphone. Quindi, si reca all’ufficio postale. Là fuori, al freddo o sotto il sole estivo, troverà ad accoglierla una coda esagerata, coda evitata abilmente dai giovani digitali, che mangiano pane e app. Finalmente, dopo due ore di attesa, nonna riuscirà a parlare con un operatore, sorridente o incazzato in base all’andamento generale della giornata, il quale le dirà parole incomprensibili e le farà firmare mucchi di fogli sulla fiducia, liquidandola con un bel “Riceverà un’email e un SMS per completare la registrazione. E mi raccomando, ricordi di impostare una password sicura e di effettuare, al termine della registrazione, il pagamento on line di 12 euro”. A questo punto, nonna, famosa per la pazienza e l’autocontrollo con cui prepara milioni di tortellini per il giorno di Natale, perde le staffe, inizia a imprecare contro i santi indemoniati Gates e Jobs, e maledice il giorno in cui l’hanno obbligata a richiedere lo SPID per far accedere il consulente del CAF al sito dell’INPS.
Amareggiata, per aver perso del tempo prezioso e non essere riuscita a concludere nulla, chiede aiuto al figlio, il quale, nonostante il tempo risparmiato, grazie alla digitalizzazione, per pagare le bollette o per le pratiche bancarie, non riesce a trovare dieci minuti per andare a trovare la madre, che ha bisogno di quel maledetto SPID. A nonna non resta che tentare da sola l’impresa e sfidare a viso aperto il mostro contenuto nell’email (aperta grazie all’aiuto del figlio della portiera). Il suo dito incerto e rugoso fa clic sul link e magicamente entra in un moderno paese delle meraviglie in cui il Bianconiglio ha le sembianze dell’addetto ai servizi postali, ribattezzato prontamente da nonna Bianconiglione. Questo intrepido roditore digitale la conduce in un bosco di schermate apparentemente simili, in cui è necessario autenticarsi più volte fino ad arrivare di fronte al Cappellaio matto, quello che la invita a scegliere una password composta da caratteri maiuscoli, minuscoli, numerici e speciali. A questo punto, nonna ricorre alla creatività partenopea e inserisce una password evocativa: Chitemmuort43.
Prova a proseguire, ma il Bianconiglione l’avverte, con una schermata di errore visibile solo se si fa scorrere la pagina di registrazione all’inizio, che Chitemmuort43 non va bene perché non è conforme alle regole. In preda al rancore più profondo verso la società, nonna aggiunge a Chitemmuort43 anche #&%$£:!.
Il sistema l’avvisa che apprezza lo sforzo e la collaborazione, ma il Chitemmuort deve essere confermato in un ulteriore campo. Più confermato di così, pensa lei, indirizzando la preghiera contenuta nella password al signor Franco Poste e a tutta la sua famiglia. A questo punto, giunge di fronte al mostro finale, quello che si incontrava nei videogiochi arcade degli anni ‘80: il pagamento dei 12 euro, da effettuare con i servizi Bancoposta, per essere certi che l’operazione possa andare a buon fine, o con qualche carta di credito, non meglio specificata, facente parte di altri circuiti, per essere certi che il pagamento possa essere rifiutato. E niente, ci prova, ci riprova, terrorizzata dalle conseguenze che potrebbe avere dopo aver fornito gli estremi della carta di credito al Bianconiglione, ma l’errore che le si palesa, sempre all’inizio della schermata, è sempre lo stesso “Si è verificato un errore nella compilazione”.
A questo punto, anche nonna, per quanto pia e timorata di dio, “sbrocca” e inizia a far ricorso alle preghiere imparate sui banchi di quella scuola televisiva che aveva come maestri Bombolo e il commissario Monnezza. Il figlio, forse per miracolo, o forse perché le maledizioni sono più efficaci delle preghiere, si muova a compassione e corre in soccorso del genitore blasfemo e fumantino. Anche lui, però, nonostante la sua laurea in ingegneria informatica, deve arrendersi a quel messaggio criptico: “Si è verificato un errore nella compilazione”. Come tutti gli informatici posti davanti a un errore incomprensibile, perché, diciamo la verità, all’apparenza sembra tutto giusto, i dati anagrafici, gli estremi della carta di credito…, inizia a parlare con lo schermo dello smartphone.
Ma perché mi fai così? Ce l’hai con me? Che t’ho fatto?
Si tratta di una vecchia tecnica per cercare di intenerire l’avversario, ma l’avversario ormai ha capito il trucchetto e non cede: “Si è verificato un errore nella compilazione”.
All’ingegnere, figlio di cotanta madre, non resta che abbandonarsi alle stesse preghiere descritte poche righe sopra e prendere un appuntamento con un operatore tramite l’app Poste ID. Nonna è felicissima di uscire col figlio: indossa il suo vestitone di flanella migliore, si ubriaca con litri di acqua di colonia ed elude la fila, esibendo il dito medio alla sua vicina di pianerottolo. Ci sono un ingegnere, una nonna e un operatore postale prossimo alla pensione… sembra l’inizio di una barzelletta, ma purtroppo è la triste realtà. Anche l’operatore, il Bianconiglione, è una vittima della digitalizzazione e non riesce a capire perché la procedura si blocchi. Alla fine, dopo aver chiamato l’esperto informatico dell’ufficio, che invece di gestire le pratiche Spid è a fare consulenza sui prodotti Bancoposta, si svela l’arcano: l’errore di compilazione è dovuto alla doppia m di Chitemmuort. Sì, proprio così, una password sicura, secondo le politiche del sistema, non può contenere due lettere uguali. E, se la password è sbagliata, non si può procedere al pagamento. Serve un Chitemuort addolcito, una versione avellinese… All’ingegnere non resta che ringraziare per aver informato dettagliatamente l’utente riguardo alla natura dell’errore attraverso il messaggio chiaro ed esplicativo “Si è verificato un errore nella compilazione”.
Chiedo scusa se mi sono lasciato trasportare dall’ironia, ma l’iter descritto è esattamente ciò che succede molto frequentemente: basta cercare su Google “Si è verificato un errore nella compilazione”, per rendersene conto.
La domanda che mi (e vi) pongo è la seguente: siamo proprio sicuri di andare nella direzione giusta? È proprio questo il modello di società che abbiamo in mente?Non vorrei dirottare il discorso sulla pericolosità degli uomini organizzati a discapito delle minoranze disorganizzate, perché entrerei in un campo che esula dalle questioni digitali. ma sarebbe opportuno soffermarsi a pensare quanto la digitalizzazione ci permetta di “essere” (poco), di apparire (tanto), o quanto l’appartenenza a un gruppo di persone iperconnesse trascuri le esigenze e le difficoltà delle minoranze analogiche. In questi lunghi mesi di isolamento, mi sono chiesto molte volte quanto sia realmente inclusiva la digitalizzazione e sono giunto alla conclusione che la società virtuale che stiamo creando non mi piace. Non dico che sia peggiore, dico che non mi piace. Ho imparato a mie spese quali siano le conseguenze delll’illusoria vicinanza che sembrano dare i sistemi di messaggistica: non è così, non vicinanza è lontananza “politicamente corretta”. E ho imparato che non basta avere del tempo a disposizione se non si hanno le idee chiare su come (e con chi) spenderlo. Ma, soprattutto, partendo dalla nonna e arrivando alle recenti fazioni SI vs NO, Sivax contro Novax, Si greenpass contro No greenpass, ho capito che siamo impreparati a indossare i panni dell’altro, a immedesimarci e a tollerare la diversità. L’applicazione della digitalizzazione, non la digitalizzazione in sé, rispecchia l’intolleranza e la chiusura verso la diversità tipica dell’epoca in cui viviamo. Nei fatti, sia chiaro, perché sui social un “Mi piace” ai post che riguardano i migranti o il DDL Zan non si nega a nessuno. È radical chic. Dà l’impressione di una larghezza di vedute che abbina i voli delle menti politicamente corrette alle gambe corte dei talebani. Eppure, una digitalizzazione più umana sarebbe possibile: basterebbe iniziare a immedesimarsi negli altri “da dentro”, invece di guardarli e giudicarli da fuori, da lontano, da dietro uno schermo. Sentirsi rom per un giorno, o ladri, o anziani, o malati, o prostitute, o migranti, e vedere l’effetto che fa, per capire realmente come si sta dall’altra parte, in mezzo a quella minoranza in cui si può finire per colpa, per fatalità o semplicemente perché è così che deve andare, perché prima o poi tutti diventano qualcun altro. Discriminato. Oggi, l’esperimento sociale è abbastanza semplice: basta dire “sono contro il green pass” e si passa automaticamente dalla parte dei cattivi. Ecco, forse, andare in giro per un giorno senza lasciapassare, e sentirsi dire No, lei qua non può entrare o, peggio, No, lei non può più lavorare potrebbe aiutare a vedere il mondo da un’altra prospettiva. Oppure, si potrebbe iniziare a viaggiare insieme alla famiglia Joad, fino a la rabbia degli emarginati: “Le strade pullulavano di gente assetata di lavoro, pronta a tutto per il lavoro. E le imprese e le banche stavano scavandosi la fossa con le loro stesse mani, ma non se ne rendevano conto. I campi erano fecondi, e i contadini vagavano affamati sulle strade. I granai erano pieni, e i figli dei poveri crescevano rachitici, con il corpo cosparso di pustole di pellagra. Le grosse imprese non capivano che il confine tra fame e rabbia è un confine sottile. E i soldi che potevano servire per le paghe servivano per fucili e gas, per spie e liste nere, per addestrare e reprimere. Sulle grandi arterie gli uomini sciamavano come formiche, in cerca di lavoro, in cerca di cibo. E la rabbia cominciò a fermentare.”
Un dato è un dato, due dati sono un’osservazione, tre dati sono conoscenza. Detta così, a freddo, senza un’opportuna contestualizzazione, può sembrare una frase rubata a una puntata della serie televisiva The Big Bang Theory. Cosa da non escludere a priori, peraltro. In realtà, si tratta di una riflessione maturata in questi due anni di vita sospesa, anni in cui ogni singolo dato, anche il peggiore, è stato spacciato per un’illusione di verità, una finta conoscenza, e la scienza è diventata un nuovo dio in cui credere, un’entità soprannaturale che ha permesso di agire in suo nome per ridefinire le regole di comportamento della collettività. Questa divinità si è palesata sotto forma di affermazioni spericolate e di dati spesso imprecisi, confusi, ricchi di errori, di omissioni e di evidenze smentite a colpi di contraddizioni, di false rassicurazioni e di finte certezze. Lo dico subito, così sgombriamo il campo da qualsiasi dubbio: io non ho bisogno di un dio scientifico in cui credere e considero questa nuova religione, che sfiora lo sciamanesimo e la cialtroneria, ben più pericolosa delle vecchie religioni a cui almeno va il merito di aver avuto Gesù Cristo o Buddha come leader rivoluzionari al comando. Non metto i like ai tweet dei virologi perché ho dei riferimenti diversi, più autorevoli, e considero la ricerca scientifica una faccenda troppo seria, che si fa nei laboratori e non può essere ridotta a dei ridicoli annunci pubblicitari diffusi sui social network o nei salotti televisivi. Insomma, sono uno di quegli inguaribili nostalgici che vedono nella ricerca scientifica il mezzo per arrivare “gratis” alla conoscenza. E quando dico gratis intendo dire che rinnego qualsiasi forma di profitto associata speculativamente alla parola scienza. La conoscenza deve essere alla portata di tutti, un po’ come l’amore.
Ma cosa è, esattamente, la conoscenza? In modo semplicistico, si potrebbe dire che la conoscenza è la risposta a un qualche tipo di domanda. Domandare permette di capire, e capire consente di conoscere. Di sopravvivere. Di migliorare.Di evolversi. Si può vivere senza amicizie, senza un braccio, perfino senza amore, ma non si può vivere senza domandare e senza cercare delle risposte. È chiaro che ci sono domande e domande: non a caso si dice che è meglio avere domande giuste e risposte sbagliate piuttosto che il viceversa. Cosa si domanda, a chi si domanda e cosa ci si aspetta dalla risposta rappresentano i cardini su cui si basa il processo che porta alla conoscenza.
Come ti chiami?
Alessandro.
Alessandro è un dato. Un dato che mi descrive in minima parte e che potrebbe essere integrato da un insieme di altri dati, quali possono essere l’età, la corporatura, il colore degli occhi e un’invidiabile testa diversamente tricotica e fantasiosamente pettinabile, per fornire una descrizione più precisa. Alessandro è anche una risposta. Ma a cosa serve una risposta di questo tipo a chi ha posto la domanda? Sicuramente non serve a conoscere tutti gli uomini che si chiamano così. Non fosse altro per un’evidenza empirica, oserei dire una falsificazione, dimostrabile facilmente: esiste almeno un altro Alessandro che fa di cognome Barbero e ha dei capelli maledettamente folti. Una foresta. Sembra un playmobil con gli occhiali. Ne consegue che avere o meno i capelli è anch’esso un dato importante ma insufficiente per conoscere tutte le persone che si chiamano Alessandro e tantomeno per distinguere un Alessandro da tutti gli altri. Si potrebbe obiettare che la questione, posta in questi termini, è alquanto capziosa: per distinguere una persona da tutte le altre basta aggiungere il cognome, la data e il luogo di nascita e il problema è risolto. A parte il fatto che uno scrittore non cerca obiezioni ma conferme, e non cerca detrattori ma discepoli, l’obiezione è corretta. In parte. In parte perché potrebbe esistere un altro Alessandro, con lo stesso cognome, nato nello stesso luogo e nello stesso giorno. Ma non è questo il punto importante. Anche avendo a disposizione dei dati identificativi precisi, si potrebbe affermare di “conoscere” realmente Alessandro? Un fisico direbbe che il nome, il cognome, la data e il luogo di nascita sono volgari convenzioni introdotte dall’uomo e che non hanno nessun valore scientifico. Ma voglio dissociarmi da me stesso e di conseguenza dai fisici. Dirò che la volgare convenzione, l’identificativo, può essere utile durante un interrogatorio o per notificare una cartella esattoriale, ma di certo non è utile per conoscere la persona a cui si chiede il nome. Escluderei anche l’opzione “riscossione”, a meno che non vi piaccia essere contornati da quegli amici che Campbell, facendo ricorso agli archetipi mitologici, piazzerebbe irrimediabilmente tra il mutaforme e l’imbroglione. Se vi state chiedendo voglio proprio vedere questo cretino dove vuole arrivare, vi rispondo che il cretino vuole arrivare a mostrare un’evidenza banale: un dato, da solo, non serve quasi mai a nulla. Anche quello che può sembrare importantissimo, che so, la temperatura corporea o il numero di globuli bianchi, non fornisce risposte certe su eventuali patologie e di conseguenza sulla conoscenza di un fenomeno correlato. Direte: “Quindi?”. Quindi usare i dati a sproposito, senza metodo, non serve a granché, specialmente quando l’utilizzo è finalizzato a supportare dimostrazioni e ipotesi fraudolente. Per rendervi conto di quanto sia ricorrente il ricorso truffaldino ai dati parziali e incompleti in un discorso, basta accendere la TV e sintonizzarsi su qualche rarissima trasmissione in cui si parla di Covid. Se avrete la fortuna di cogliere uno degli sporadici attimi in cui compaiono “gli scienziati”, avrete anche il privilegio di comprendere meglio il senso di questo articolo. E dei dati. Se io dico che è stata superata la soglia di allerta del 10% di occupazione delle terapie intensive, ho fornito un dato. Un dato allarmante, però, attraverso il quale posso creare paure e pregiudizi amplificati dai media e dai toni catastrofici. Se però aggiungo che la soglia di allerta, negli ultimi tempi, a seguito di decisioni che sembrano prive di logica, è scesa dal 30% al 10%, il dato assume un altro significato. Se consulto la serie storica dei dati sull’occupazione delle terapie intensive, e prendo come riferimento i report annuali dell’Istituto Superiore della Sanità relativi ai 5 anni precedenti al 2020, posso dire che il tasso di occupazione medio delle terapie intensive si attesta intorno al 50%, con picchi del 100% nella stagione invernale. Quel dato, quindi, quel 10%, assume ancora un altro significato e l’interpretazione di ciò che accade subisce una connotazione totalmente diversa. Chi usa i dati per comunicare conosce benissimo questi meccanismi e sa altrettanto bene cosa omettere e cosa accentuare per dimostrare una certa ipotesi. Edgar Lee Master sosteneva che Il modo come la gente considera il furto è ciò che rende ladro il ragazzo e questo, quando si tratta di descrivere un fenomeno scientifico al di là dei pregiudizi, è francamente inaccettabile. Non è possibile che il modo di guardare i dati renda un fenomeno più o meno veritiero, più o meno certo, più o meno pericoloso. La morale e i pregiudizi riguardano un ambito che ha poca attinenza con il metodo scientifico.
A questo proposito, qualche tempo fa, ho scritto un articolo in cui parlavo di cosa fossero il metodo deduttivo e il metodo induttivo. Semplificando al massimo, si può dire che il primo metodo permette di indagare la natura di un certo fenomeno a partire dall’ipotesi teorica generale e dalla successiva verifica sperimentale dei fatti, mentre il secondo parte dall’osservazione dei fatti per costruire una qualche teoria generale. Einstein è stato un fan accanito del metodo deduttivo ed è arrivato a sostenere che le maggiori scoperte scientifiche siano state fatte ricorrendo alla deduzione e non all’induzione.
Baruch Spinoza, ancor prima di Einstein, scrisse un trattato, dal titolo Etica dimostrata con metodo geometrico, all’interno del quale, attraverso il metodo assiomatico deduttivo, “dimostrò” il concetto di deus sive natura, ovvero l’esistenza di un dio senza barba e figli prodigiosi ma concepito come sostanza infinita da cui dipendono tutte le cose esistenti in natura, compresi gli accadimenti, quelli che noi chiamiamo destino. Spinoza, pur non avendo inventato il metodo assiomatico deduttivo, ha utilizzato il metodo euclideo per un’impresa difficilissima: dimostrare rigorosamente l’esistenza di un dio ben più complesso di uno Zeus incazzoso che lanciava fulmini a destra e a manca. E l’ha fatto fregandosene della scomunica dei gesuiti, senza peraltro indossare il celebre vestito da bonzo per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming (ma trovando il centro di gravità permanente sconosciuto a Battiato). So che potrebbe sembrare una divagazione poco attinente all’argomento, ma vale la pena citare il testo della scomunica di Spinoza, per capire l’effetto dirompente che può causare un pensiero ampio, complesso e diverso da quello delle maggioranze.
“Con il giudizio degli angeli e la sentenza dei santi, noi dichiariamo Baruch de Spinoza scomunicato, esecrato, maledetto ed espulso, con l’assenso di tutta la sacra comunità […]. Sia maledetto di giorno e maledetto di notte; sia maledetto quando si corica e maledetto quando si alza; maledetto nell’uscire e maledetto nell’entrare. Possa il Signore mai piú perdonarlo; possano l’ira e la collera del Signore ardere, d’ora innanzi, quest’uomo, far pesare su di lui tutte le maledizioni scritte nel Libro della Legge, e cancellare il suo nome dal cielo; possa il Signore separarlo, per la sua malvagità, da tutte le tribú d’Israele, opprimerlo con tutte le maledizioni del cielo contenute nel Libro della Legge […]. Siete tutti ammoniti, che d’ora innanzi nessuno deve parlare con lui a voce, né comunicare con lui per iscritto; che nessuno deve prestargli servizio, né dormire sotto il suo stesso tetto, nessuno avvicinarsi a lui oltre i quattro cubiti [circa due metri], e nessuno leggere alcunché dettato da lui o scritto di suo pugno”.
Spinoza dimostra deduttivamente l’esistenza di dio e viene scomunicato con il giudizio degli angeli e la sentenza dei santi. Come dire che Paulo Roberto Falcão viene escluso dalla nazionale brasiliana col giudizio di Oronzo Canà e la sentenza di Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento. Non conosco storie analoghe per tessere le lodi del metodo induttivo; in compenso ne conosco molte per dimostrarne l’utilizzo fraudolento, ma per farlo occorre riprendere il filo del discorso e tornare alla conoscenza di Alessandro. Quando si utilizza il metodo induttivo, oggi confuso con l’empirismo puro e col relativismo interpretativo, occorre in primo luogo identificare il problema, formulare un’ipotesi di ricerca e definire il metodo e il campo di osservazione. È chiaro, quindi, che se il problema di chi pone la domanda “come ti chiami?” è l’identificazione precisa di Alessandro, può essere sufficiente aggiungere altre domande del tipo Quando sei nato?, Dove sei nato?, Qual è il tuo cognome?
Se il problema è conoscere Alessandro in profondità, non sarà sufficiente il nome e il cognome. Non sarà sufficiente nemmeno chiedere quali sono i libri, la musica o le pietanze preferite. Occorrerà estendere il campo di osservazione e raccogliere un insieme di variabili ben più ampio, approfondire le fragilità, i sentimenti, le paure, le ombre, i difetti e i pregi. Tutte variabili necessarie per ottenere un insieme consistente ed esaustivo di dati da correlare tra loro per fornire una descrizione più o meno precisa. Tanto maggiore sarà l’accuratezza dell’osservazione, tanto maggiori saranno le possibilità di conoscere meglio Alessandro. Tanto migliore sarà la scelta delle variabili, le tecniche di analisi e la correlazione tra i dati, tanto migliore sarà la precisione della descrizione. Descrizione, sia ben inteso, che avrà sempre un margine di incertezza e non sarà mai perfetta e assoluta. L’approccio deduttivo, per descrivere Alessandro, sarebbe più complesso in quanto richiederebbe di formulare una teoria generale che possa definirne la personalità, verificandone a posteriori la validità attraverso la pratica e la rilevazione dei dati, Poiché questa operazione non è riuscito a farla nemmeno Alessandro in persona, anche se è tuttora affascinato da una teoria generale che descriva sé stesso al fine di evitare le scelte sbagliate, dubito fortemente che ci sia qualcuno in grado di commettere un azzardo simile. Non sono pronto a giurarci perché in questo periodo storico si riuscirebbe a trovare facilmente qualcuno sufficientemente presuntuoso da spiegare a dio in persona com’è fatto dio. La maggior parte dei dati prodotti attraverso le statistiche si basa sul metodo induttivo e sulla capacità di osservazione e di analisi che hanno i produttori. La capacità di produrre dati di qualità è diventata una caratteristica molto rara, ma ancor più rara è la capacità di interpretare quei dati per descrivere un certo fenomeno nella sua totalità, fornendone la chiave di lettura corretta. Questa mancanza, dovuta essenzialmente a una scarsa cultura scientifica (anche da parte dei molti cosiddetti scienziati), si ripercuote sul processo cognitivo che porta gli individui alla conoscenza e, soprattutto, sulla falsa e ben più insidiosa percezione di conoscenza, quella basata sull’esperienza superficiale e non sulla ragione. Io leggo un dato e lo utilizzo per descrivere un fenomeno nella sua interezza, ignorandone, volutamente o involontariamente, la contestualizzazione rispetto al campo di osservazione e all’ipotesi iniziale. Il discorso sarebbe lungo e temo di aver sforato ampiamente i tempi previsti per la lettura di un articolo sul web. Concludo dicendo che, nell’incertezza, è sempre meglio dubitare. Il dubbio cartesiano ci salverà, forse. Dubitare, dubitare, dubitare sempre, quindi. E non smettere mai di chiedere e di domandare, anche se, in molti casi, a una domanda legittima potrebbe corrispondere una risposta poco soddisfacente.Un po’ come accade al viandante, citato dal profeta Isaia, che si ferma a chiedere a una sentinella “Quanto resta della notte?”” e si sente rispondere “Il mattino viene, ma è ancora notte! Se volete, domandate, chiedete, tornate e domandate ancora.”. Ci sarebbe da chiedersi se la notte simboleggi l’incapacità dell’uomo di conoscere il senso dell’esistenza e se, per questo, generi inquietudini e produca domande a cui non ci sarà mai una risposta, domande che in ogni caso bisogna continuare a fare ancora, e ancora, e ancora, alle sentinelle che si incontrano nella vita.
I grandi cambiamenti, nella storia dell’umanità, hanno causato spesso enormi discriminazioni e hanno creato fratture profonde tra coloro i quali erano pro e colori i quali erano contro. Basti pensare all’invenzione della carta e agli innumerevoli detrattori a favore del papiro, che, pur di non cedere alla novità, hanno rallentato di molti anni il processo di trasformazione, paventando pericoli inesistenti e iatture di ogni tipo nei confronti degli utilizzatori del nuovo. In generale, il progresso tende a creare una divisione netta tra i beneficiari dei suoi lati positivi e chi ne subisce le conseguenze negative. Il benessere di una parte della popolazione è sempre compensato dallo sfruttamento di chi, per contribuire al suddetto benessere (altrui), è costretto a subire varie forme di schiavitù, diverse nella forma ma uguali nella sostanza. Poiché l’egoismo è tra gli sport sport preferiti dagli esseri umani, lo sfruttamento del lavoro altrui, la sottomissione e le vessazioni degli individui vengono spesso tollerati (anche se sarebbe più corretto scrivere “ignorati”), quando c’è di mezzo un certo status quo da mantenere. Al centro di numerosi egoismi ci sono loro, le cose. E le cose, oggi, sono legate indissolubilmente ai servizi, un po’ come è legato il WC allo sciacquone.
man hands trapped and wrapped on wrists with mobile phone cable as handcuffs in smart phone networking and communication technology addiction concept
La domanda da porsi, per capire meglio il modello di società che stiamo costruendo, è: “A cosa servono le cose, oggi?”. Domanda insidiosa, che si presta a milioni di risposte diverse, a cui proverò a rispondere, tentando di superare i pregiudizi rispetto al consumismo, che mi porterebbero a scrivere di getto “per raggiungere, attraverso il consumo, una felicità illusoria che dura il tempo di un prelievo al bancomat”. Le cose, in una società globalizzata e capitalista, non sono più associate ai fini pratici, al loro utilizzo, ma servono a dare un senso all’esistenza, a colmare vuoti, a creare appartenenza a gruppi elitari, a riempire di superficialità le insoddisfazioni e, perché no, le profonde carenze culturali in cui siamo sprofondati. Siamo continuamente alle prese con una bulimia da acquisto compulsivo che serve evidentemente a colmare una qualche mancanza. Non importa quale sia l’oggetto, non importa se serva e a cosa serva: l’importante è averlo. L’idea di “nuovo”, secondo me, serve per dare una infinitesima spinta vitale a vite sempre più spente Non è sempre stato così, ovviamente, e per accorgersene basta guardare la vita condotta negli anni ‘70, quando gli oggetti erano fatti per durare come i progetti di vita. Non c’è nessun richiamo nostalgico in questa osservazione, si tratta di una considerazione che induce a riflettere sul ruolo delle cose nel progetto di vita dell’uomo moderno, sul legame oggetto-progetto. Diciamo che, richiamando alla memoria il buon Heidegger, gli esseri umani si distinguono dagli animali per un aspetto essenziale: la consapevolezza dell’essere attraverso l’esistenza. E l’esistenza è costituita dalle infinite possibilità di esserci, a cui ognuno dà forma attraverso un progetto di sé stesso. Sì, lo so, il concetto è un po’ difficile e anch’io mi sono dovuto rileggere due volte per capirmi meglio… In ogni caso, le cose, gli oggetti, più che un valore intrinseco, hanno il valore che gli viene attribuito dagli individui rispetto al proprio progetto esistenziale. Così, per qualcuno l’auto può essere un semplice mezzo di trasporto, per qualcun altro un simbolo da esibire per dimostrare il proprio status e per altri, i piloti, una componente fondamentale dell’esistenza. La digitalizzazione, seppur in un primo momento, con l’avvento dei primi telefoni cellulari, è stata anche sinonimo di status, adesso è diventata qualcos’altro. La digitalizzazione è essenziale per i progetti esistenziali. Lo smartphone è diventato una presenza imprescindibile, un surrogato della vita, un oggetto che sta sostituendo il progetto individuale heideggeriano: l’esserci, l’esistenza. La vita di un numero consistente di persone viene scandita dai ritmi digitali, che hanno creato un precedente probabilmente unico nella storia: gli oppressori sono diventati anche schiavi di loro stessi.
Ma andiamo avanti per gradi…
Pur essendo un sostenitore della digitalizzazione, e conoscendone bene le potenzialità (che ho ampiamente descritto in altri articoli), credo di averne sottovalutato le insidie: conoscerle, può aiutare a fare scelte più consapevoli. In pochi anni siamo passati da una socialità reale a una socialità virtuale, da un consumo reale, caratterizzato da un rapporto “fisico” con gli oggetti, a un consumo virtuale dalle possibilità illimitate. Rapporti umani e consumo sono diventati forme di schiavitù che coinvolgono contemporaneamente gli sfruttatori e gli sfruttati. E i dispositivi. ovviamente. La colpa, se di colpa si può parlare, è da attribuire non alla digitalizzazione ma alla sua applicazione, che ha accentuato i lati peggiori degli esseri umani: il profitto incontrollato delle numerose industrie (tech, artistiche, farmaceutiche) e il bisogno del superfluo amplificato dalla velocità con cui si propagano le informazioni, i messaggi e le azioni incontrollate, che prevalgono spesso sulle facoltà cognitive e riflessive. Così, mentre alcune sparute minoranze fuggono dalle grandi città per scandire la propria vita al ritmo della lentezza, la vita digitale viene scandita dalla velocità e dal bisogno. Basta un clic per dar seguito a un acquisto, non serve più neanche inserire la carta di credito. E la velocità con cui si acquista un prodotto, per i venditori e per gli acquirenti, deve trasformarsi automaticamente in una consegna immediata. La velocità “virtuale” con cui viaggiano le informazioni nella rete ha indotto nelle persone un inconscio desiderio di velocità “reale” insostenibile per chi si trova a dover soddisfare un delirio simile: i lavoratori. Fattorini, magazzinieri e spedizionieri sono diventati i nuovi schiavi, costretti a ritmi insostenibili, a pause programmate, anche per andare in bagno, a contratti precari, a rischi di ogni genere e a salari inadeguati. Se è vero che queste discriminazioni sono sempre avvenute è anche vero che, dal mio punto di vista, una golosa cena all you can eat può anche essere consumata al ristorante, evitando che il viziato digitale si avvalga del fattorino che effettua le consegne pedalando sotto la pioggia. Questo tipo di schiavitù, poco attinente alla digitalizzazione, può essere fronteggiato, ammesso che si possa ragionare con le “industrie” del consumo, garantendo e pretendendo maggiori diritti per i lavoratori e condizioni di lavoro umane, affinché gli sfruttati siano un po’ meno sfruttati. Sono cambiati i mezzi, ma le modalità di sfruttamento sono rimaste le stesse: il benessere acquisito da pochi viene difficilmente spartito con gli altri. La forma di schiavitù ben più pericolosa della precedente, però, riguarda le distorsioni indotte dall’abuso degli strumenti digitali. È più pericolosa perché è l’espressione di un bisogno patologico di “esserci”, nel senso heideggeriano, senza esserci. È l’espressione di un progetto di esistenza sbiadito, mascherato, nascosto dietro un filtro che può essere una piattaforma di e-commerce, un sito pornografico, un social network o un sistema di messaggistica. È l’espressione di una voglia di protagonismo lontano dal palcoscenico, dietro le quinte. Perché per essere protagonisti è necessario esporsi, e gli strumenti digitali virtualizzano la presenza, la fisicità, le possibilità. È l’espressione del desiderio di controllo sugli altri, dell’alienazione, dello svilimento del pensiero critico a favore del pensiero veloce, quello del relativismo che ha trasformato la cultura in opinioni. Questa forma di schiavitù merita una vera e propria rivoluzione perché ha trasformato le possibilità degli individui in qualcosa di estremamente fragile e superficiale. E rende tutti tremendamente soli.
Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Marx. Marx, proprio lui, il celebre ballerino prussiano passato alla storia per l’interpretazione acrobatica dello schiaccianoci del Bolshoi, terminata con un dolorosissimo atterraggio e una conseguente frantumazione delle suddette noci. È da questo balletto, mi sento di dire “di rottura”, che è nato il cosiddetto materialismo storico.
In pochi sanno che, nel tempo libero, tra un esercizio sulle punte e la cura maniacale delle unghie dei piedi, Marx si è occupato anche di filosofia. Sociale, politica ed economica, per l’esattezza. Si potrebbe dire che sia stato un filosofo globale, un osservatore privilegiato che ha analizzato la società a tutto tondo, da diverse prospettive. So che, a questo punto, risalire la china e dare un’immagine di Marx diversa dall’avvocato svitato, interpretato da Alberto Sordi nel film Troppo forte, sia difficile. Ci proverò, parlando della realtà che ci circonda e provando a contestualizzare alcuni aspetti della filosofia marxista alla digitalizzazione e ai giorni nostri.
La comprensione della realtà è essenziale per capire l’epoca in cui si vive e, anche se può sembrare anacronistico, la filosofia di Marx è quanto di più attuale ci possa essere per comprendere il processo di trasformazione digitale in cui siamo, consapevolmente o inconsapevolmente, immersi. In primo luogo, Marx è stato il filosofo della consapevolezza: uno degli elementi chiave della digitalizzazione. A differenza dei colleghi che lo hanno preceduto, egli sosteneva che la consapevolezza filosofica, la conoscenza della realtà, non doveva essere finalizzata a sé stessa ma al cambiamento.
Teoria filosofica e pratica, quindi, cercando di superare la visione einsteiniana secondo la quale “la teoria è quando si sa tutto e non funziona niente, la pratica è quando funziona tutto e non si sa perché, noi facciamo teoria e pratica: non funziona niente e non si sa perché.”
Chi si occupa di digitalizzazione sa benissimo che le parole “consapevolezza” e “cambiamento” sono alla base del processo di trasformazione digitale e hanno un peso maggiore rispetto, ad esempio, alle parole “tecnologia” e “cloud”. Non solo, ė la visione globale a influenzare il cambiamento e a fare in modo che si prenda la direzione giusta al posto di quella sbagliata. Nel corso della mia carriera lavorativa, ho visto centinaia di progetti fallire a causa della mancanza della visione globale di un fenomeno di qualsiasi tipo, che sia tecnologico, scientifico, sociale o economico. Nello specifico, quando si tratta il delicato tema della digitalizzazione, si sente parlare frequentemente, in base alle convenienze e alle mode del momento, solo di cloud, o solo di smart working, o solo di open data, e quasi mai del fenomeno “trasformazione digitale” nella sua interezza.
Per questo, ritengo che Marx sia stato un filosofo della digitalizzazione ante litteram, un gigantesco filosofo senza tempo, le cui idee sono più che mai attuali e attuabili nella società moderna. Un manifesto della digitalizzazione, riprendendo il celebre incipit, potrebbe iniziare più o meno così: “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro della digitalizzazione. … È ormai tempo che i responsabili della trasformazione digitale espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro della digitalizzazione un manifesto della digitalizzazione stessa.”
Chiedo scusa per la violenza perpetrata nei confronti di uno dei maggiori trattati dell’ottocento, ma l’ho fatto a fin di bene… Marx aggiunge alla consapevolezza anche la modalità per cambiare le cose: attraverso la rivoluzione. Sarà un caso se si parla di ”rivoluzione” digitale? Forse, ma per fare la rivoluzione digitale servono una visione globale e un substrato culturale che probabilmente ancora non ci sono. Non ci sono nei politici, che farfugliano slogan senza senso a scopi propagandistici, non ci sono in una fetta consistente di popolazione, disabituata al ragionamento e al senso critico, e non ci sono nemmeno in una fetta consistente di RTD, i responsabili per la transizione digitale, che spesso esercitano semplicemente un potere distorto senza avere la benché minima idea di quali strade intraprendere. Marx ed Engels, l’amico fidato del nostro barbuto ballerino, al contrario di quanto si possa pensare, sono stati i filosofi della libertà e non dell’uguaglianza. O meglio, l’uguaglianza, nella loro visione del mondo, non rappresenta un fine, ma un mezzo per liberare gli uomini. La via di fuga per l’uomo, l’atterraggio morbido nel bel mezzo dello schiaccianoci acrobatico, è l’emancipazione, la liberazione dallo sfruttamento. Emancipazione che si ottiene, per l’appunto, attraverso l’uguaglianza e la giustizia. Questo concetto tocca diversi aspetti relativi alla digitalizzazione. In primo luogo il sottile confine tra la libertà e la schiavitù. A questo proposito, non posso non ricordare le infinite e inutili discussioni in cui mi sono speso, nel decennio scorso, a favore dello smart working. Mentre la massa, dirigenti, lavoratori e sindacati, nessuno escluso, si ostinava a vedere lo smart working come un privilegio e ad attuare misure discriminatorie attraverso graduatorie e favoritismi, io parlavo di uguaglianza: smart working per tutti. Perché, avendolo sperimentato, sapevo perfettamente che attraverso delle misure egualitarie sullo smart working i lavoratori sarebbero stati finalmente liberi. Liberi di spendere adeguatamente e sensatamente il tempo di vita, indipendentemente dal controllo del datore di lavoro, mantenendo comunque la stessa produttività.
Di paradossi, in questo senso, ce ne sono molti. Si può essere liberi attraverso una digitalizzazione parziale e una politica che sposta nuovamente il lavoro in presenza, cercando di fermare il volano culturale che si è innescato? Si può essere liberi se una parte della popolazione ordina gli alimenti comodamente seduta sul divano e un’altra parte pedala al freddo sotto la pioggia? Si può essere liberi se gli sfruttati non sono consapevoli di esserlo e arrivano al punto di amare gli sfruttatori? Si può essere liberi se i mezzi (digitali e non) di produzione sono governati quasi esclusivamente dai privati e dal profitto? Si può essere liberi se una parte della popolazione non possiede le competenze digitali minime per accedere ai servizi? Si può essere liberi se i cittadini sono considerati “merce”, al pari della merce di scambio, e vengono profilati per capire meglio che tipo di consumatori sono? Mi sento di dire che in queste condizioni non c’è nessuna libertà (e non c’è nemmeno uguaglianza) perché la libertà “formale” della digitalizzazione si scontra con la realtà “reale”. Sulla carta, i cittadini digitali sono tutti uguali, ma nella pratica no. C’è chi possiede mezzi, competenze, possibilità e chi non li ha, c’è chi ha accesso ai servizi digitali e chi non ce l’ha, c’è chi lavora con modalità schiaviste nelle multinazionali e chi sfrutta il lavoro acquistando compulsivamente prodotti dietro lo schermo di un cellulare, c’è chi possiede i mezzi di produzione e chi produce plusvalore lavorando per la “nuova” borghesia digitale. Quest’ultimo aspetto richiama un altro concetto chiave della filosofia marxista: il bisogno e il suo soddisfacimento in un contesto che vede contrapposta una esigua classe dominante, che possiede i mezzi di produzione, e una numerosa classe proletaria che possiede la forza lavoro. Il bisogno e il conseguente soddisfacimento sono per il profitto un po’ come fu il cibo per Erisittone, il re di Tessaglia della mitologia greca, condannato da Demetra a una fame inesauribile. Quella fame che, per cibarsi, lo costrinse a vendere la figlia in un mercato. E il bisogno ossessivo, abbinato al soddisfacimento, non fa altro che creare insoddisfazione, noia, infelicità. Ma soprattutto crea nuovi bisogni da soddisfare, come nella migliore tradizione del pessimismo cosmico.
In questo passaggio c’è l’enorme contraddizione delle politiche sulla digitalizzazione: la produzione non di libertà ma di bisogni secondari che vengono soddisfatti attraverso lo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse. Ed è sulla sottile linea che separa i bisogni primari dai bisogni secondari che si articola la questione digitale. Perché i bisogni primari, quelli del materialismo naturalistico, l’amore, la paura della morte, e la paura della natura, che l’uomo ha proiettato fuori di sé creando un dio che somigliasse a sé stesso, sono stati sostituiti dai bisogni secondari, gli oggetti, che l’uomo ha proiettato fuori di sé creando un nuovo dio ben più terreno e pericoloso: la tecnologia. E la lista delle debolezze di questo nuovo dio è lunghissima: si va dall’invecchiamento programmato dei dispositivi alla produzione continua di nuovi modelli, che, tutto sommato, nella maggior parte dei casi eseguono operazioni simili a quelle che si eseguivano negli anni ‘90: chat, email, browser, etc. Si passa per i bisogni di consumo compulsivo, indotti da messaggi di ogni tipo (Black Friday, Prime, annunci e pubblicità aggressive) fino ad arrivare al paradosso degli influencer, i nuovi sacerdoti del consumo, che, attraverso un tweet, possono decretare il successo o il fallimento di un prodotto, a prescindere dal reale valore d’uso. E si approda al bisogno di informazioni e notizie, ormai completamente affidato ai social e alle piattaforme gestite dai privati. Come vengono soddisfatti questi bisogni “digitali”? Marx direbbe che da una parte ci sono i “padroni” dei mezzi di produzione digitale – Google, Amazon, Facebook, Twitter, e multinazionali in diversi settori economici, e dall’altra i lavoratori, gli sfruttati. Da una parte ci sono gli impazienti, quelli che pretendono la consegna di un pacco entro 24 ore, i complici degli sfruttatori, e dall’altra una catena di schiavi che, attraverso il lavoro, soddisfa questi bisogni secondari. Ed ecco che la storia, intesa come lotta di classe e disuguaglianza ,si ripete. Come tragedia e come farsa, contemporaneamente. Guardando ai tempi moderni con gli occhi di Marx, mi chiedo se sia veramente questo il modello di trasformazione digitale a cui bisogna tendere. Non dovrebbe essere il profitto delle classi dominanti, quelle a cui sono destinati i fondi del PNRR, a dover guidare la digitalizzazione, dovrebbe essere la libertà dei cittadini, attraverso il raggiungimento di un’uguaglianza universale e di un benessere condiviso. Gli Stati, in tutto ciò, hanno un ruolo essenziale perché sono responsabili dell’attuazione distorta delle politiche digitali e, cosa ancor più grave, sono responsabili della creazione delle divisioni e di un nuovo proletariato digitale in cui i singoli cittadini sono sempre più estranei alla collettività: non è sufficiente che la cittadinanza digitale formale, quella scritta sulla carta, sia valida per tutti. È necessario che ci sia un’uguaglianza reale tra cittadini in termini di servizi erogati sul territorio, di accesso ai dati, di competenze digitali, di mediazione tra i bisogni reali e i bisogni superflui. È necessario arginare l’individualismo indotto dalla digitalizzazione dissennata, l’atomizzazione della società perpetrata attraverso l’uso (e la dipendenza) dagli strumenti e dalle tecnologie digitali, che inducono gli individui all’isolamento e all’egoismo. Ė colpa della struttura che influenza la sovrastruttura, direbbe Marx, preso da un irrefrenabile desiderio di clic, dopo aver acquistato per errore dei fuseaux rosa, taglia extra small, a 99 centesimi, su Amazon e aver scaricato la colpa dello sbaglio sul povero fattorino. E non avrebbe tutti i torti perché abbiamo imparato a nostre spese che la struttura economica di una società influenza fortemente la sovrastruttura, ovvero l’arte, la cultura, la politica, i comportamenti sociali e più in generale, la storia. Ecco perché dovremmo pretendere una visione globale da parte dei decisori politici e non accontentarci del reclutamento “spericolato” di risorse poco competenti da destinare alla gestione del recovery fund. Ogni rivoluzione porta con sé un cambiamento, e il cambiamento non può che essere dettato dalla consapevolezza. Gli ideali che propone Marx nei suoi trattati possono o meno essere condivisi, ciò non toglie che, a dispetto della presentazione introduttiva iperbolica e sopra le righe, quel pensiero, quel modello di società, è puro ed elegante come una danza raffinata. Come i dervisci turner che girano, direbbe il compianto Battiato, sulle spine dorsali al suono di cavigliere del kathakali.
Io sto morendo, ma quella puttana di Emma Bovary vivrà in eterno. Con queste parole, pronunciate in punto di morte, Flaubert ha sintetizzato, oltre ai sentimenti di amore e odio nei confronti del personaggio letterario da lui stesso creato, il significato più profondo della parola “narrazione”. Parola che, a essere onesti, grazie all’utilizzo ad minchiam perpetrato e abusato da giornalisti, politici e opinionisti, comincia a causarmi reazioni allergiche almeno quanto la parola resilienza, ormai utilizzata così frequentemente da perdere ogni significato. Ma andiamo per gradi… Io credo che l’uomo esista perché esistono le sue storie. Questo concetto è sintetizzato molto bene dalla meccanica quantistica e dal principio antropico: un fenomeno esiste quando può essere osservato e, se può essere osservato, dipende in qualche modo dall’osservatore. L’osservatore, però, ha dei vincoli dovuti alla sua stessa esistenza. Scendendo leggermente di livello, si potrebbe fare un parallelismo e affermare che l’uomo esiste perché esistono degli osservatori che raccontano la sua storia e lo rendono immortale. Osservatori vincolati da un principio antropico “depotenziato”, che corrisponde all’esistenza in un certo periodo storico governato da morali, ordinamenti sociali e pregiudizi.
In fin dei conti, nel corso dei secoli, sono cambiati i mezzi, ma le tecniche di comunicazione, dai tempi della caverna, quando i cavernicoli si radunavano intorno a un fuoco per raccontarsi storie di caccia, non sono cambiate poi così tanto. Jung sosteneva che la grotta è una delle rappresentazioni dell’archetipo della Grande Madre: la magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile. La grotta viene associata a uno dei luoghi di procreazione o di nascita perché, in qualche modo, rappresenta l’utero femminile da cui sorge la vita. Gesù Cristo, tanto per citare la storia inedita di un personaggio poco conosciuto, viene fatto nascere all’interno di una grotta, al freddo e al gelo. Non nasce, forse, ma viene fatto nascere, perché quella storia, vera o falsa che sia, è ricca di simbolismi: rappresenta la riscoperta del bambino, il ritorno all’inizio, la valorizzazione delle esperienze di vita vissuta. L’inventore di questa narrazione, tuttora ignoto, merita senz’altro il premio Nobel per la comunicazione: conoscete un’altra storia, altrettanto duratura, che sia riuscita a condizionare le coscienze di miliardi di persone e che abbia permesso la creazione di uno stato potente e ricco come il Vaticano? A dire il vero, nei Vangeli non vengono fatti molti riferimenti alla natività (sembra addirittura che Gesù sia nato nel 7 a.c., ovvero sette anni prima di sapere che fosse nato), per cui, la storia della grotta deve essere stata creata ad arte da qualche social media manager buontempone, che ha intuito nel Natale un enorme business, fatto di presepi, di statuine e di regali riciclati. Potremmo fermarci qua e, come in un racconto di Carver, lasciare ai lettori la libera interpretazione di quale sia il ruolo, oggi, del social media manager, ma non sarebbe giusto: proviamo a darne una connotazione più precisa. Iniziamo subito a escludere la parola narrazione dai discorsi che faremo e, soprattutto, dai contesti politici e lavorativi, luoghi fisici o virtuali in cui viene più che altro privilegiata la mistificazione della realtà al solo scopo di orientare le masse e controllare la popolazione. La narrazione, o più propriamente la narrativa, non corrisponde mai alla realtà: il fruitore di una narrazione si aspetta che le storie abbiano un senso narrativo non un senso di verità assoluta. E il senso narrativo è subordinato a un patto invisibile tra il narratore e il lettore, il quale è disposto ad accettare qualsiasi tipo di artificio, anche che il lupo di Cappuccetto Rosso parli e si mascheri da nonna.
Katherine Mansfield, una celebre scrittrice di racconti brevi dei primi del ‘900, definì il narratore una specie di funambolo in grado di raccontare la verità come solo un bugiardo può dirla. Ecco, un social media manager non è un narratore e la mistificazione della verità a cui assistiamo quotidianamente sui diversi media non c’entra niente con la parola “narrazione”. Eppure, un social media manager che non si limiti alla pubblicazione meccanica dei post sui social, ma che utilizzi le parole per comunicare, è destinato a diventare l’evoluzione del giornalista vecchia maniera. Oggi più che mai, creare i contenuti non basta, è necessario “saper raccontare un contenuto” e renderlo visibile affinché il messaggio arrivi al maggior numero di persone. Il celebre Don Gaetano, un personaggio letterario di un romanzo di Leonardo Sciascia, sosteneva maliziosamente che “le cose che non si sanno non sono”. Ed è vero. Ce ne siamo accorti negli ultimi due anni, in cui i media hanno vergognosamente orientato l’opinione pubblica attraverso una narraz… descrizione parziale e poco chiara della realtà. Tutto ciò che non si conosce, in qualche modo non esiste… un po’… come dire… “occhio non vede e cuore non duole”. Le parole continuano a essere il mezzo di comunicazione più potente che abbiamo a disposizione e possono essere usate come armi, soprattutto in un momento di paura dilagante. Paura di morire per colpa di un virus, per esempio. Ed ecco che la parola “immunizzazione”, ripetuta sotto forma di notiziario o hashtag, diventa una specie di mantra da cui scaturisce il convincimento diffuso di essere protetti. Immuni, per l’appunto. Anche se le ricerche scientifiche dimostrano tutt’altro, la diffusione delle parole prevale sulle pubblicazioni. E non solo perché una rassicurante bugia è più gradita di una scomoda verità, ma perché le parole viaggiano sui media a una velocità molto più alta di quanto viaggi un problema complesso e sfaccettato a cui corrispondono soluzioni altrettanto complesse. I media, attraverso alle parole, semplificano, forniscono risposte facili e veloci, riducono la complessità e creano tuttologi- o fuffologi?- spocchiosamente (im)preparati su qualsiasi argomento.
Il social media manager ha un ruolo sociale importantissimo: a lui è demandata la narraz… la ricerca della verità, la sua rappresentazione e la diffusione sui diversi mezzi d’informazione. Il problema principale con cui si deve confrontare, però, riguarda proprio la parola “verità” perché, troppo spesso, chi svolge questo lavoro viene chiamato a costruire false verità partendo da punti di vista, opinioni personali o, peggio, da obiettivi meschini. Federico Palmaroli, il creatore della pagina Le più belle frasi di Osho, è un Social Media Manager? Direi proprio di sì: lo è, a fin di bene. Utilizza l’ironia, spesso fa sorridere, a volte fa riflettere, e riesce a raggiungere i destinatari più disparati. Conosce l’uso di un certo tipo di linguaggio, lo sa usare benissimo e sa usare i social network. Ma chi sono, esattamente, i bersagli perfetti, quelli a cui certi messaggi arrivano più facilmente attraverso i social network? In primo luogo, sono i fruitori delle informazioni rapide, quella parte di popolazione che va di corsa, non ha tempo di approfondire le notizie e le fonti, si limita a leggere i titoli, spesso non è in grado di valutare l’attendibilità di un’informazione, non si ferma a ragionare e, quando si tratta di condividere qualcosa, ha il dito più veloce del west. Finché si tratta di leggere frettolosamente una vignetta di Osho, ridere e condividere, direi che non ci sono grossi problemi.
Ma cosa succede quando i messaggi e le condivisioni sono di un tenore diverso e ben più insidiose?
Succede che si orientano, pardon, disorientano, le masse attraverso la leva delle paure. Si tratta di una tecnica collaudata che funziona benissimo da secoli: si costruisce un nemico, si creano una paura e un guerriero che, in nome del bene, protegge e rassicura gli impauriti, e il gioco è fatto. In nome della paura, e della protezione, si può compiere indisturbati qualsiasi scempiaggine. In questo, Luca Morisi è stato un vero maestro. Un social media manager raffinato, se di raffinatezza si può parlare. È lui ad aver coniato la parola “Capitano”, per dare un ruolo da condottiero a Matteo Salvini, è lui ad aver portato un partito politico a un consenso del 30% partendo da un misero 4%, è lui ad aver ideato “La bestia”, ovvero il team di esperti che, attraverso la sentiment analysis, ha costruito ad arte e diffuso sui social le idee di un partito, basandosi sui desideri espressi da una parte degli elettori, attraverso le preferenze manifestate sui social network. È lui ad aver creato il fenomeno Salvini, mistificando la realtà, amplificando le paure, che a dire il vero già ribollivano nelle viscere di una parte della società, dei migranti e dei diversi (dei deboli, in poche parole). Questa descrizione può sembrare di parte, ma in realtà rappresenta soltanto una faccia della medaglia che non c’entra nulla con gli schieramenti politici. L’altra faccia, forse peggiore, è rappresentata dagli avvenimenti recenti e dalle scelte scellerate e liberticide conseguenti alla gestione della pandemia. L’amplificazione delle paure, in quel caso, è andata ben oltre “la bestia” e ha coinvolto i media nella loro interezza, creando un pensiero a senso unico, demonizzando il dubbio socratico, dividendo la società tra pro e contro, riducendo la democrazia e il parlamento ai minimi termini e legittimando provvedimenti a dir poco spregevoli e discriminatori. In questo caso, non c’è stato bisogno di creare una paura ad hoc, è arrivata direttamente dalla Cina ed è bastato bombardare di notizie terribili le persone fino a terrorizzarle. Con l’accondiscendenza della “scienza”, ovviamente, che in molte esternazione è passata dall’uso del linguaggio scientifico a un linguaggio da infimo avanspettacolo pubblicato senza vergogna sui social.
O con le contraddizioni della politica, che può permettersi di affermare con sicumera un concetto e tradire gli ideali il giorno dopo, senza pagare la minima conseguenza.
Diciamo la verità: quello del social media manager diventa spesso il famoso “sporco lavoro che qualcuno dovrà pur fare”, perché il potere, il profitto e il consumo (in poche parole il neoliberismo) giocano ancora un ruolo chiave nella società. In questo panorama triste, però, ci sono gli spazi per l’affermazione di un esercito di “garanti diffusi dell’informazione”. Un esercito di cui fidarsi, insomma. Perché non basta che una notizia rimbalzi da un social all’altro, riceva milioni di like e orienti l’opinione pubblica: una notizia deve essere prima di tutto veritiera e verificata. I “vecchi” professionisti dell’informazione non hanno capito ancora bene le dinamiche attraverso le quali una notizia o un fenomeno diventino “virali” (anche se da mesi non fanno altro che parlare di virus). I vecchi professionisti dell’informazione non hanno capito ancora che non possono più permettersi di comportarsi come delle vallette, leggendo le notizie diffuse dall’ANSA o propagandando una qualche ordine imposto dall’alto.
I vecchi professionisti dell’informazione non hanno ancora capito che i fenomeni sociali e politici si narra… descrivono attraverso i dati, e i dati bisogna saperli cercare, trovare, capire e interpretare invece di spararli a caso in base alle proprie convenienze. I nuovi professionisti dell’informazione, i social media manager, queste cose le sanno eccome, perché non conoscono soltanto gli strumenti digitali, ma conoscono molto bene i meccanismi alla base della comunicazione moderna, sanno riconoscere gli utilizzatori, targettizzarli, prevedendo le reazioni e le tendenze rispetto a una certa notizia. Per questo hanno un potere enorme, il potere di omettere un’informazione e convincere una moltitudine di persone che una certa cosa non esista. Oppure che esista, dimostrandola. Documentandola in maniera imparziale. Supportandola con i dati e con le diverse interpretazioni che ne possono conseguire. Trattando i media, l’informazione, ma soprattutto i destinatari dei messaggi, con i dovuti riguardi. Cercando di non contraddirsi e di non tradire la fiducia. Ciò che differenzia un Burioni qualsiasi da un social media manager è proprio questo aspetto: il primo può permettere il lusso di insultare, di dire mezze verità, di tradire la fiducia e di perdere qualche follower, il secondo non può farlo perché ha un’etica e una dignità che devono andare oltre ogni irragionevole conflitto di interessi.
L’opinione è uno dei mali peggiori che affligge la cultura moderna. Per costruire un’opinione, non serve nessun talento: basta leggere superficialmente qualche notizia e trarre conclusioni affrettate e imprecise. Per costruire una cultura, invece, è necessario studiare un argomento in profondità. Per costruire una cultura collettiva, oltre a una buona dose di pazienza e di utopia, occorrono tempo e condivisione. Il diritto all’opinione è diventato sacro, talmente sacro da lasciare poco spazio alla cultura. L’Italia ormai è un Paese basato sulle opinioni; ovunque è pieno di opinionisti da bar, esperti all’occorrenza di virus e di fisica nucleare, che tendono a ridicolizzare, o, peggio, a banalizzare qualsiasi concetto richieda un’analisi approfondita Si potrebbe dire che la professione attualmente più diffusa sia l’Esperto di opinioni. Recentemente, mi sono imbattuto in un articolo scritto da un sociologo, che rimproverava uno storico per aver fatto riferimento a dei “non meglio precisati fatti storici”. Lo storico in questione era Alessandro Barbero, uno che di storia… come dire… ha dimostrato di saperne qualcosina. Sicuramente ne sapeva più dell’opinionista in questione. Lo smart working, al pari di numerosi altri temi che ho trattato in passato, non fa eccezione: sono bastati pochi mesi per costruire milioni di esperti di lavoro agile e di organizzazione del lavoro, che in realtà ne sanno ben poco, ma dispensano consigli e pareri. Esperti che sono passati da anni e anni di lavoro dietro alla scrivania alla formulazione di teorie sullo smart working. L’emergenza sanitaria ha dato una forte spinta verso lo smart working, ma, paradossalmente, ha anche dato una forte spinta verso il ritorno in presenza. Semplicemente perché la tipologia di lavoro attuata in questi mesi non è stata affatto smart; si è trattato perlopiù di un telelavoro, spesso disorganizzato e attuato con mezzi di fortuna, attraverso il quale è stato possibile proseguire numerose attività, spostando di fatto la postazione lavorativa dall’ufficio alle case dei dipendenti. Eravamo pronti? Forse. Sicuramente non lo erano tutti i lavoratori e non con quel metodo. C’è da dire, però, che il lavoro pubblico è rimasto imbalsamato per decenni in un regime di telelavoro assistenziale, da cui avrebbe dovuto trarre insegnamento, dispensato sulla base delle graduatorie, delle disgrazie e dei favoritismi. Poi c’è stato (e c’è) il POLA, che avrebbe dovuto dare una spinta verso l’attuazione del lavoro agile. Insomma, sulla carta avremmo dovuto essere pronti da un pezzo, nei fatti, in molti casi, siamo stati colti di sorpresa e abbiamo improvvisato soluzioni di fortuna. Il Ministro per la Funzione Pubblica, in una recente intervista, ha definito il telelavoro emergenziale come “lavoro a domicilio all’italiana”: si tratta, a parer mio, di un’opinione spericolata simile a quella del sociologo citato all’inizio dell’articolo..Ci sono centinaia di numerosi esempi virtuosi che hanno dimostrato palesemente l’efficacia di questo “prototipo” di lavoro agile, e che, seppur tra numerose contraddizioni, ha migliorato l’organizzazione del lavoro e la produttività in molte istituzioni. Uno scenario simile, meriterebbe una forte accelerazione, perché è evidente che non cambiare adesso significherebbe non cambiare più. E a dover cambiare non è soltanto lo svolgimento della prestazione lavorativa; è il consumo delle risorse, è la spesa pubblica, è il modo di vivere le grandi città, è il modo di spendere il tempo e di spendere il denaro, è l’economia delle periferie e dei piccoli centri. Lo smart working porta con sé una serie di ricadute positive sulla collettività che non possono essere ignorate.
Prima di addentrarci nei nodi irrisolti, che giustamente devono essere affrontati e migliorati, è utile richiamare brevemente i pilastri fondanti della filosofia smart. Filosofia tutt’altro che attuale, dal momento che risale addirittura agli anni ‘70. Diciamo subito che lo smart working non è una modalità di erogazione della prestazione lavorativa, è un modello organizzativo della società in cui il benessere dell’individuo, inteso come parte integrante della collettività, prevale sulla sofferenza lavorativa, e conseguentemente esistenziale, del lavoratore. Proprio perché un lavoratore fa parte della collettività, il benessere dei singoli individui, attraverso lo smart working, diventa benessere collettivo. In altre parole, favorire il benessere dei lavoratori significa favorire il lavoro. Questo concetto semplice semplice è difficile da far digerire all’opinione pubblica, che, da sempre, preferisce sadicamente un lavoratore vessato e sofferente. Il bene più prezioso che hanno gli esseri umani, benché si cerchi continuamente di dimostrare il contrario, non è il denaro bensì il tempo. Lo smart working consente ai lavoratori di spendere il tempo nel modo migliore possibile (e di continuare a spendere il denaro nel modo peggiore possibile). Cosa è accaduto in questi mesi di emergenza? È accaduto un fenomeno che probabilmente, tra qualche anno, verrà studiato sui libri di storia: il malessere collettivo ha prevalso su qualsiasi forma di benessere individuale. Il tempo a disposizione è stato più che altro una collezione di minuti tutti uguali, di confinamenti, di momenti di paura e di interminabili comunicati televisivi in cui i temi principali erano la morte e il terrore. La collettività è stata disgregata e la diffidenza verso il prossimo ha prevalso sulla fiducia. Il prossimo è diventato potenzialmente pericoloso per la salute pubblica e i comportamenti altrui, anche i più innocui, sono diventati lesivi per la collettività. Questa evidenza è sempre stata sotto gli occhi di tutti: guidare in modo spericolato o sversare rifiuti tossici nelle falde acquifere è una colpa ben più grave rispetto a una corsetta senza mascherina. Eppure il sentimento di diffidenza verso il prossimo alimentato dalla pandemia ha prevalso sul buon senso ed è tuttora dilagante.Sfiducia, teniamo a mente questa parola. Venendo meno il tempo e il benessere, il lavoro agile ha perso la sua natura: più che lavoro a domicilio è diventato jail working, una specie di reclusione lavorativa che non c’entra nulla con l’idea originaria. E su questo il Ministro Brunetta non ha torto: il lavoro agile ha bisogno di un’organizzazione diversa. Ha torto quando sostiene (o fa finta di sostenere) che i lavoratori pubblici, tutti, indiscriminatamente, hanno goduto di un imprecisato lungo periodo di benessere e per questo devono tornare a soffrire in ufficio. Questo atteggiamento induce a sospettare che l’oggetto del contendere non sia la prestazione lavorativa ma una specie di questione personale tra il Ministro e i lavoratori pubblici. Certo, probabilmente ci saranno state minoranze di lavoratori che hanno approfittato del momento per tirare i remi in barca, ma a chi verrebbe in mente di incendiare una casa per togliere di mezzo un formicaio? Ci sono degli aspetti da migliorare, è vero, ma bisogna ripartire proprio da queste evidenze, per gettare le basi di un’organizzazione del lavoro diversa. In primo luogo è necessario superare la sfiducia collettiva. Lo smart working si basa su un patto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore, decadendo la fiducia, decade anche il principio fondante dell’accordo. I cittadini sono sfiduciati, divisi, hanno rancori e malcontenti, spesso giustificati dalla perdita del lavoro, che riversano in modo indiscriminato su coloro i quali stanno meno peggio. Dar seguito a questo sentimento, accontentare l’opinione pubblica, sarebbe come incendiare la casa per accontentare gli inquilini con la fobia per le formiche. Il dipendente pubblico è da sempre un bersaglio privilegiato dell’opinione pubblica, per questo (sarà un caso?) il futuro dello smart working è destinato a seguire due strade diverse. Nell’ambito privato, le aziende hanno capito molto bene di trovarsi di fronte a una delle opportunità più ghiotte degli ultimi anni: il lavoro agile permette loro di ottimizzare i costi e di dismettere le costosissime sedi, mantenendo lo stesso livello di servizio e di produzione. Nell’ambito pubblico, l’esigenza di contenere i costi viene sentita molto meno, forse perché le risorse amministrate non appartengono agli amministratori ma ai cittadini. C’è poi un’evidenza innegabile: se in molte amministrazioni centrali lo smart working ha dato risultati che sono andati oltre le più rosee aspettative, nelle amministrazioni locali la qualità dei servizi ha subito un peggioramento. Il disservizio si è verificato perlopiù in quelle organizzazioni in cui la presenza dei lavoratori a contatto con il pubblico è ancora essenziale. Mi riferisco ai piccoli comuni, ai servizi anagrafici, ai servizi territoriali, insomma, a tutte quelle attività in cui la digitalizzazione è assente. Ed è assente non solo a causa di un ritardo clamoroso delle istituzioni, ma è assente anche per la riluttanza di una parte della popolazione a utilizzare strumenti digitali per usufruire dei servizi pubblici. Più che disinvestire nello smart working, occorrerà investire fortemente in diverse direzioni. In primo luogo nella cultura e nella condivisione dei suoi principi fondanti, ma su questo aspetto, a differenza del passato, una parte della classe dirigente ha preso coscienza delle potenzialità di questo modello lavorativo ed è passata dall’altra parte della barricata, sostenendo, e non più osteggiando, il lavoro agile come modalità di lavoro ordinaria. In secondo luogo, sarebbe opportuno rafforzare le dotazioni informatiche della PA e investire nella formazione digitale dei lavoratori: alcune amministrazioni lo hanno fatto e risultati sono stati sorprendenti. Esiste una questione di natura giuridico-contrattuale, che verrà affrontata nel corso dei prossimi giorni in un tavolo condiviso dal Dipartimento per la Funzione Pubblica e l’Aran: tuttavia, non è l’aspetto contrattuale a preoccupare i lavoratori, semmai è il contenuto del contratto.
Quali sono i punti su cui non si dovrebbe assolutamente tornare indietro? Occorre opporsi fermamente alla reintroduzione delle graduatorie e dei punteggi basati sulle invalidità e sulle esigenze famigliari. Sembra assurdo che si torni ancora a parlare di questa eventualità, nonostante sia stato ampiamente dimostrato che il lavoro agile non è una forma di assistenzialismo ma una forma di organizzazione del lavoro basata su criteri differenti. Poi, bisogna evitare i limiti predefiniti di posti, che generano soltanto malcontenti, una stupida competizione tra lavoratori e un’inutile spaccatura tra presunti privilegiati e discriminati. Occorre monitorare gli obiettivi e il loro raggiungimento e mettere da parte le assurde fasce orarie e i giorni predefiniti di rientro in ufficio. Un’organizzazione del lavoro che privilegi gli obiettivi non può prevedere le fasce di operatività, di contattabilità e di inoperabilità: sarebbe una vera e propria contraddizione. L’unica deroga ammessa potrebbe riguardare quei lavoratori che erogano dei servizi in orari prefissati. Infine, c’è una questione aperta che riguarda la domanda e l’offerta di servizi in relazione alle competenze digitali della popolazione: difficilmente si potrà attuare una diversa organizzazione del lavoro, se i cittadini continuano a considerare i servizi pubblici come “luoghi” fisici in cui recarsi e non come piattaforme digitali a cui far affidamento. La chiave di svolta dello smart working è la trasformazione digitale, che, di fatto, rende l’ufficio uno spazio inadeguato allo svolgimento di molti lavori.
Dio non gioca a dadi con l’universo. Questa frase, scritta da Einstein all’amico Niels Bohr, sintetizza molto bene la natura probabilistica della meccanica quantistica, una teoria che mette in dubbio la natura deterministica su cui si basa la fisica classica. La contrapposizione tra le due teorie, nei primi anni del novecento, è stata molto forte. Da una parte, a sostenere il principio della causa e dell’effetto, c’erano nientepopodimeno che Galileo e Newton, dall’altra, a sostenere il principio dell’azione e della “probabilità” che si verifichi una certa conseguenza, c’erano dei giganti come Bohr, Schroedinger, Heisenberg e Dirac. Einstein dubitava. Dubitava che la natura fosse descritta in termini probabilistici ed espresse il suo dubbio attraverso quella frase divenuta celebre. Dal suo canto, Bohr gli rispose con un altro dubbio “relativistico”: Piantala di dire a Dio come deve giocare! Il dubbio è una caratteristica essenziale del pensiero filosofico e scientifico. Hanno dubitato Aristotele, Socrate, Cartesio, Galileo, Newton e Einstein, solo per citarne alcuni… Il dubbio, però, deve avere origine da basi solide e non sempre questo accade. Il relativismo scientifico nasce proprio dalla mancanza di un pensiero critico e di una conoscenza approfondita di un certo argomento. Pochi avrebbero il coraggio di mettere in dubbio la teoria della relatività, molti, invece, hanno la presunzione di mettere in dubbio l’interpretazione dei dati statistici. La differenza tra i due comportamenti è abbastanza legittima e deriva in parte dalla profonda diversità tra le teorie basate sul metodo scientifico deduttivo e l’adozione di modelli induttivi empirici attraverso i quali vengono descritti dei fenomeni (naturali, sociali, medici) attraverso la raccolta dei dati e la loro interpretazione. Anzi, “le” loro interpretazioni. Da una parte ci sono le previsioni teoriche, che vengono verificate sperimentalmente e hanno due caratteristiche fondamentali: si basano sulla matematica, l’unica scienza esatta (o quasi) a disposizione dell’uomo, e sono riproducibili sperimentalmente. Dall’altra parte ci sono la raccolta dei dati, organizzata in maniera più o meno rigorosa, l’analisi e le conclusioni a cui si giunge applicando uno o più modelli. Il metodo deduttivo contro il metodo induttivo. Si potrebbe semplificare “informaticamente” la questione, facendo ricorso alla differenza tra la logica top-down e la logica bottom-up, ma è evidente che ci troviamo di fronte a un problema ben più complesso. La logica induttiva (bottom-up) alla base del processo di raccolta e di produzione dei dati statistici, sebbene si basi su metodi scientifici, ha delle fragilità intrinseche che nella logica deduttiva sono molto meno accentuate. I dati statistici hanno bisogno di una chiave di lettura, che spesso può essere diversa in base al modello adottato (e spesso può essere sbagliata), la teoria scientifica, al contrario, “è” una chiave di lettura che trova conferma nell’esperimento e nella raccolta dei dati. È per questo che la lettura di un dato statistico non è quasi mai univoca, ed è per questo che i dati e le statistiche possono essere usati per mentire autorevolmente con (falso) rigore scientifico. Difendersi dalle “statistiche taroccate” è molto difficile, l’unico strumento efficace è rappresentato dal dubbio cartesiano. Il dubbio insieme al razionalismo critico e alla capacità di guardare un certo fenomeno da diverse prospettive rappresentano degli ottimi strumenti per avvicinarsi alla verità. Queste due caratteristiche, in un momento storico di profonda disgregazione sociale e intellettuale, pieno di giornalisti saputelli e pseudoscienziati televisivi che vendono facili certezze alla popolazione (salvo poi smentirle a petto nudo sulle riviste di gossip, sul red carpet o nei salotti dei talk show), sono, a volte a torto, a volte a ragione, abbinate alla parola “complottismo” e a una tipologia di persone ignoranti e inutilmente sospettose. Associare i ragionevoli dubbi al complottismo è un’operazione distruttiva molto grave perché permette di far passare una palese menzogna non contraddetta in una rassicurante falsa verità. L’unica verità. Questa perdita totale di razionalità è frutto di una decadente cultura scientifica collettiva, ormai ridotta ai minimi termini, e di una diffusa “scienza delle opinioni” attraverso la quale, chiunque, anche grazie a quei social che “hanno dato voce agli imbecilli”, per dirlo con le parole di Umberto Eco, può affermare qualsiasi teoria farlocca senza un vero e proprio contraddittorio e senza il rischio di passare per una sana gogna pubblica mediatica. La società del politicamente corretto vieta categoricamente di dire apertamente a un idiota che è un idiota. Galileo Galilei, Dante Alighieri e Magritte erano politicamente scorretti. La scienza e l’arte sono politicamente scorrette. La vita è politicamente scorretta. Bisognerebbe iniziare a farsene una ragione… La domanda, a questo punto, potrebbe essere: “Quando un dubbio e ragionevole?”. La risposta si può trovare in un aneddoto scientifico di qualche anno fa. Nel 1930, a Lipsia, di fronte alla Società tedesca di fisica, si svolse una conferenza a cui partecipò Albert Einstein. Al termine del suo intervento, “Albertone” si rivolse al pubblico per sollecitare qualche domanda. Dall’ultima fila si alzò un ragazzo magrolino, con due occhi vispi e un enorme ciuffo simile a quello di Cameron Diaz nel film Tutti pazzi per Mary. Il ragazzo non conosceva bene la lingua tedesca e con una certa aria di superiorità disse: “Quello che ha detto il Professor Einstein non è stupido, ma la seconda equazione che ha scritto non deriva dalla prima. Essa richiede, infatti, delle ulteriori assunzioni che non sono state fatte e, inoltre, quel che è peggio, non soddisfa un criterio di invarianza, come invece dovrebbe essere”. Ovviamente, l’atmosfera diventò subito gelida e surreale. C’era chi sghignazzava, chi, indignato e incredulo, esprimeva il proprio dissenso con cenni del capo e chi si chiedeva perché era stata data la parola a uno studentello che puzzava ancora di latte e che aveva osato mettere in dubbio le parole di Einstein. Per la maggioranza, quel dubbio era illegittimo e non aveva senso. Einstein non faceva parte della maggioranza. Cominciò ad accarezzare i suoi baffetti da sparviero e ad osservare attentamente la lavagna. Dopo qualche minuto, si rivolse alla platea e disse: “L’osservazione è perfettamente corretta. Vi prego pertanto di dimenticare tutto quello che vi ho detto quest’oggi”. C’è da dire che il ragazzo disobbediente, in quel caso, non era esattamente lo stereotipo dell’ignorante che “le scie chimiche…, il 5G…, il microchip…complotto!”, era Lev Davidovich Landau, quello che, qualche anno più tardi, divenne il principale fisico teorico dell’Unione Sovietica. In quel caso, il dubbio era più che legittimo e il destinatario della critica era egli stesso un critico feroce nei propri confronti, disponibile a prendere in considerazione osservazioni che avrebbero potuto sia sostenere che confutare le sue teorie. Si potrebbe dire che un dubbio diventa legittimo quando dimostra l’errore e falsifica una teoria. L’atteggiamento di Einstein nei confronti della scienza era basato su questa idea di dubbio e fu alla base delle riflessioni che fece in seguito Karl Popper, il filosofo del razionalismo critico, in merito alla critica e alla falsificazione scientifica, ovvero all’atteggiamento antidogmatico che non va alla ricerca di conferme ma di confutazioni. Popper criticò ferocemente il metodo induttivo, obiettando che le leggi scientifiche non vengono ricavate dall’osservazione ripetuta di puri fatti, ma sono sempre precedute da un’intuizione sulla natura delle cose o da un’ipotesi di lavoro palese o inconscia.In altre parole, Popper era un ultrà del metodo deduttivo galileiano (sempre sia laudato), Einstein era un po’ più equilibrato, ma pur sempre tifoso. Insomma, Popper era un po’ come Tirzan in Eccezziunale veramente e Einstein come Oronzo Canà nell’Allenatore nel pallone. Lo stesso Einstein scrisse queste parole a proposito del metodo induttivo : L’immagine più semplice che ci si può formare dell’origine di una scienza empirica è quella che si basa sul metodo induttivo. Fatti singoli vengono scelti e raggruppati in modo da lasciare emergere con chiarezza la relazione legiforme che li connette. Tramite il raggruppamento di queste regolarità è possibile conseguire ulteriormente regolarità più generali, fino a configurare – in considerazione dell’insieme disponibile dei singoli fatti – un sistema più o meno unitario, tale che la mente che guarda le cose a partire dalle generalizzazioni raggiunte per ultimo potrebbe, a ritroso, per via puramente logica, pervenire di nuovo a singoli fatti particolari. Un pur rapido sguardo allo sviluppo effettivo della scienza mostra che i grandi progressi della conoscenza scientifica solo in piccola parte si sono avuti in questo modo. Infatti, se il ricercatore si avvicinasse alle cose senza una qualche idea (Meinung) preconcetta, come potrebbe egli mai afferrare, dal mezzo di una enorme quantità della più complicata esperienza, fatti i quali sono semplicemente sufficienti a rendere palesi relazioni legiformi? Galilei non avrebbe mai potuto trovare la legge della caduta libera dei gravi senza l’idea preconcetta stando alla quale, sebbene i rapporti che noi di fatto troviamo, sono complicati dall’azione della resistenza dell’aria, nondimeno noi consideriamo cadute di gravi nelle quali tale resistenza gioca un ruolo sostanzialmente nullo. I progressi veramente grandi della conoscenza della natura si sono avuti seguendo una via quasi diametralmente opposta a quella dell’induzione. Una concezione intuitiva dell’essenziale di un grosso complesso di cose porta il ricercatore alla proposta di un principio ipotetico o di più principi di tal genere. Dal principio (sistema di assiomi) egli deduce per via puramente logico-deduttiva le conseguenze in maniera più completa possibile. Queste conseguenze estraibili dal principio, spesso attraverso sviluppi e calcoli noiosi, vengono poi messe a confronto con le esperienze e forniscono così un criterio per la giustificazione del principio basato. Il principio (assiomi) e le conseguenze si formeranno insieme quella che si dice una “teoria”. Ogni persona colta sa che i più grandi progressi della conoscenza della natura – per esempio, la teoria della gravitazione di Newton, la termodinamica, la teoria cinetica dei gas, l’elettrodinamica moderna, ecc. – hanno tutti avuto origine per questa via, e che il loro fondamento è di natura ipotetica. A questo punto, è utile fermarsi con le noiose considerazioni di carattere scientifico e soffermarsi su quanto è accaduto negli ultimi due anni in merito alla gestione della pandemia. Con un’avvertenza: il mio punto di vista è senz’altro influenzato dal pensiero scientifico einsteiniano. In primo luogo, non c’è stato un dibattito scientifico qualitativamente accettabile. Anzi, non c’è stato nessun dibattito. I dubbi, anche i più legittimi, sono stati etichettati con due immagini dispregiative e stupidamente discriminatorie: da una parte ci sono gli intelligenti e dall’altra ci sono i cavernicoli “complottisti”. I dati, anche quelli più evidenti, sono stati travisati e usati ad arte per creare false narrazioni, spaccature e conflitti sociali. La scienza è diventata un circo che non procede né per induzione né tantomeno per deduzione: procede per contraddizioni, per fede e per opinioni da bar portate avanti dalle tifoserie. La scienza è diventata una nuova religione salvifica che vende l’immortalità e un nuovo dio in cui credere. Un dio che ha le sembianze dell’opinionista da copertina e che riesce a convincere i suoi discepoli senza grosse difficoltà, spesso mentendo palesemente (come del resto fanno tutte le religioni). Giocando a dadi, per l’appunto, ma non nel senso einsteiniano. Giocando a giocare sui numeri e sulle diverse rappresentazioni della realtà. Giocando con le paure, con le parole, con il pensiero unico e con dieci di narrazioni contraddittorie che non c’entrano nulla con la ragione e non c’entrano nulla nemmeno con la religione. Peccato che, per qualcuno, non sia affatto vero che la scienza, come la religione, non si possa discutere. La scienza si discute eccome, perché soltanto attraverso il confronto socratico è possibile arrivare a qualcosa che somigli alla verità. Si può arrivare perfino a sostenere che “Dio è morto” ea discuterne civilmente. La storia sarebbe stata diversa, se Einstein, quel giorno, avesse detto: “Signor Landau, lei è un “complottista” e la mia equazione non si discute”. Si potrebbe obiettare le mie riflessioni riguardare un ambito scientifico elitario che fanno una subdola e tra scienze maggiori e scienze minori. Sono fermamente sostenuto che non esisteno scie maggiori e scienze minori, esistenze maggiori e quello minori, ed esiste il “dosso del relativismo scientifico”, in cui gli maggiori sono al dialogo e gli minori sono vanitosi, irascibili , intolleranti alle critiche e ai confronti, con un ego spropositato e inclini all’autocelebrazione. La scienza è una cosa seria che merita di essere discussa e contraddetta, non merita certamente di essere umiliata.