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Mese: Maggio 2021

Le competenze digitali dei dipendenti pubblici

Posted on 18 Maggio 202111 Giugno 2021 by admin

La parola competenza è ambigua e illusoria almeno quanto la parola innamoramento. Per entrambe è difficile dare una definizione, anche se, per la seconda parola, George Bernard Shaw in qualche modo l’ha fatto, definendo l’innamoramento un’esagerazione smisurata della differenza tra una persona e tutte le altre. Per le competenze, invece, la questione è più complicata. In primo luogo perché, a differenza dell’innamoramento, che proietta i fortunati in uno stato di grazia onirico totalmente estraneo al mondo reale, le competenze vengono esercitate in una cruda e superficiale realtà, oltre a essere valutate, misurate e giudicate da persone a volte assolutamente inadeguate. Inoltre, a differenza delle esagerazioni amorose, il divario di competenze può essere esageratamente smisurato tra una persona e tutte le altre. La misura, la valutazione e il giudizio, in realtà, vengono esercitati anche per i sentimenti, e questo la dice lunga sullo spessore culturale e morale di una società in cui ognuno si sente autorizzato a valutare, misurare e giudicare gli altri, rispetto a qualsiasi campo della conoscenza, con un rigore esagerato se confrontato con l’indulgenza che viene applicata verso sé stessi.

La PA, a differenza del settore privato, in cui gli addetti alla formazione e alla selezione del personale hanno un ruolo delicatissimo, utilizza dei meccanismi di selezione, di valutazione e di rilevazione dei fabbisogni formativi quantomeno bizzarri. Il titolo di studio, per esempio, l’antico italico pezzo di carta, quello che “un laureato conta più di un cantante”, per dirlo con le parole di Guccini, è considerato ancora il principale lasciapassare per l’accesso al concorso pubblico e alle carriere che “contano”. In più è, (o dovrebbe essere?) la prova provata delle competenze possedute dai candidati, che solleva le commissioni da qualsiasi responsabilità, liberandole dal gravoso compito di indagare sul percorso di vita che ciascun individuo ha intrapreso quando ha lasciato i banchi dell’università e che, probabilmente, lo ha arricchito almeno quanto il percorso di studi. Il ruolo di chi si occupa della formazione e della gestione delle risorse umane, quindi, è essenziale per l’adozione di percorsi mirati ad accrescere il set di competenze digitali dei lavoratori pubblici. È necessario conoscere a fondo i processi lavorativi, le tecnologie adottate e i singoli individui, per attuare misure realmente efficaci e spendibili dai lavoratori. C’è da dire che, molto frequentemente, le aree che si occupano di gestire le risorse umane di una pubblica amministrazione sono costituite da poche persone con le idee chiare, spesso arrese, sfiduciate e messe da parte, e da molte persone con le idee confuse, in cerca di visibilità, di gloria e di carriere, che probabilmente approdano all’ufficio del personale per sbaglio, per stanchezza o perché non hanno trovato una collocazione migliore. Questo aspetto, laddove scarseggino le competenze umane e relazionali, rende l’applicazione di qualsiasi provvedimento riguardante le competenze digitali molto complesso. I dipendenti pubblici che acquisiscono nuove competenze, di qualsiasi tipo, dovrebbero avere dei benefici che non sempre sono evidenti. Benefici in termini di possibilità di crescita all’interno dell’organizzazione e di migliorie tangibili nello svolgimento del lavoro. Tutto ciò, in molte PA, non è possibile. Non è possibile perché la visione prospettica di ogni amministrazione pubblica è limitata dal perimetro istituzionale nel quale ci si muove. Non è possibile perché il meccanismo perverso attraverso il quale si costruiscono le carriere, la gloria e la visibilità nella Pubblica Amministrazione non è affatto associato al merito e alle competenze possedute, piuttosto viene costruito partendo dalla formalizzazione, sotto forma di delibere spendibili nei concorsi, di un qualche tipo di incarico, anche il più insignificante, di una qualche pubblicazione, anche la più insignificante, e dalla partecipazione a commissioni e gruppi di lavoro, che adesso vengono chiamati più scenograficamente cabine di regia o task force. Insomma, fare carriera è un vero e proprio lavoro nel lavoro che assorbe quasi tutte le energie dei lavoratori. Le aspettative riposte nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), quindi, sono subordinate al (mal)funzionamento di una macchina con pochi ingranaggi giusti che vengono fatti funzionare nel modo sbagliato e molti ingranaggi sbagliati che funzionano in modo sbagliato. La mancanza di competenze digitali non è soltanto associata alla velocità con cui si muove la tecnologia e all’incapacità dei lavoratori pubblici di inseguirne i cambiamenti, ma è frutto di un sistema che negli anni ha disinvestito nella cultura e nella condivisione, favorendo l’individualismo e la competizione. In una recente intervista, il Ministro per l’innovazione e la transizione digitale Vittorio Colao ha rilasciato la seguente dichiarazione. “Sappiamo tutti che non c’è vera innovazione senza profonde competenze: mancando queste gli investimenti non possono decollare, la modernizzazione della PA rimarrà al palo, il sistema educativo non può diventare un motore di promozione sociale. Vogliamo innanzitutto colmare il gap digitale e competitivo tra Italia in Europa, grazie a un cambiamento culturale profondo di metodo. Occorrono investimenti, nuovi processi nella pubblica amministrazione, ma soprattutto competenze”.

Non è esatto. Dovremmo sapere tutti che non c’è vera innovazione se non c’è una profonda cultura condivisa. I cambiamenti di qualsiasi tipo, anche quelli peggiorativi, hanno sempre una solida base culturale. Le competenze sono una conseguenza di un percorso culturale che la formazione può soltanto perfezionare. Per cambiare realmente il lavoro pubblico è necessario cambiare la cultura del lavoro, valorizzando adeguatamente le risorse umane, a partire dalla dirigenza. La Pubblica Amministrazione è composta da diverse anime molto diverse tra loro. Ci sono alcune eccellenze, grandi e piccole, in cui il livello culturale è altissimo e molte amministrazioni paludose in cui rilevare i fabbisogni formativi è complesso a causa di processi organizzativi lacunosi, infrastrutture inadeguate e scarsa visione da parte dei vertici. Qualche anno fa, ingenuamente, avevo maturato la convinzione che per colmare i gap cognitivi digitali e rilevare i fabbisogni formativi nella PA fosse sufficiente applicare due modelli di rappresentazione delle competenze, Syllabus ed ECF 3.0, per misurare il livello e pianificare la formazione. Entrambi i modelli propongono un sistema di misura attraverso la rilevazione di alcune dimensioni che possono rappresentare il livello delle competenze digitali dei lavoratori pubblici. Le dimensioni possono far riferimento all’autonomia, alla complessità dei compiti svolti, ai comportamenti o al dominio cognitivo degli individui. Attraverso la combinazione di queste componenti, è possibile valutare il set di competenze digitali di base e specialistiche e attuare le politiche di formazione digitale più adeguate. Questo in teoria. In pratica, quando mi sono trovato a insegnare ai lavoratori delle amministrazioni pubbliche “come si fa”, ho capito meglio l’impossibilità di applicare metodi scientifici generalizzati. In primo luogo perché per effettuare una qualsiasi misura bisogna aver chiaro cosa si deve misurare e come. In un’istituzione di qualche centinaio di dipendenti, esistono:

  • aree diverse (amministrative, produttive e tecnologiche)
  • tecnologie diverse
  • processi diversi
  • organizzazioni del lavoro diverse
  • esperienze personali diverse
  • generazioni diverse
  • volontà diverse
  • motivazioni diverse
  • interessi diversi
  • culture (e subculture) diverse
  • punti di vista diversi
  • dirigenti diversi

Insomma, la parola più rappresentativa della pubblica amministrazione non è “digitale” ma “diversità”. Propagandare una qualche pozione magica che trasformi, seppur in un PNRR ben fatto, la parola diversità in digitale è pura demagogia. Per attuare un piano di formazione digitale nella PA è necessario procedere in una duplice direzione: da una parte ci sono le diversità e le necessità di competenze digitali specifiche per i singoli individui, dall’altra c’è la cultura digitale collettiva. E le due cose seguono canali totalmente distinti; :un conto è creare il tessuto di una nuova cultura, un altro conto è formare una risorsa all’uso di un foglio di calcolo o alla configurazione di un firewall. Ogniqualvolta ho indossato i panni da docente, queste due necessità sono emerse prepotentemente: i lavoratori vogliono conoscere il lessico, le tecnologie e le possibilità offerte dalla trasformazione digitale, ma per condurre con maggiore efficacia il lavoro quotidiano hanno bisogno di corsi specifici. Corsi che nella stragrande maggioranza dei casi si riferiscono non a un “digitale generico”, ma a temi specifici funzionali alle scelte tecnologiche e organizzative dell’amministrazione. Purtroppo, l’intreccio generazionale non aiuta molto a sciogliere questi nodi. La forza lavoro prossima alla pensione è spesso disinteressata alle opportunità di crescita, mentre le nuove generazioni hanno competenze digitali più legate all’uso dei dispositivi e delle applicazioni social che non ai prodotti, ai metodi e ai linguaggi del mondo digitale. I giovani, insieme alle fasce di lavoratori di mezza età, molto spesso apprendono sul campo le competenze necessarie allo svolgimento del lavoro, a volte vengono addirittura formate attraverso corsi che non hanno un’applicabilità alle attività quotidiane e che rappresentano più che altro una perdita di tempo e di energie. È proprio dalla diversità accennata nelle righe precedenti che bisogna partire per affrontare la sfida del digitale. In questo, possono essere d’aiuto le famose regole delle 5W, derivanti dal giornalismo anglosassone, quantomeno per suddividere una pubblica amministrazione in sottoinsiemi omogenei e pianificare una formazione mirata. Chi sono i dipendenti pubblici? Che tipo di attività svolgono? Dove lavorano principalmente? Quando svolgono la loro attività lavorativa? Perché hanno bisogno di acquisire competenze digitali? Rispondere a queste domande significa conoscere a fondo il capitale umano e la collocazione dei lavoratori all’interno della PA. E la conoscenza è la base di qualsiasi tipo di competenza, anche di quella dei decisori.

Le relazioni digitali (pericolose)

Posted on 10 Maggio 202110 Maggio 2021 by admin

La trasformazione digitale delle relazioni umane è iniziata molti anni fa, e non è nata con i sistemi di messaggistica istantanea. È figlia di un insospettabile colpevole che si chiama link. O, meglio, hyperlink. Ritengo da sempre che l’hyperlink sia tra le invenzioni più importanti del secolo scorso e, tutto sommato, ha origine da un’idea semplice: io sono qua e con un clic vado là. Leggerezza calviniana. Velocità. All’inizio, il link collegava dei documenti ipertestuali, ma ben presto ha iniziato a collegare persone, sentimenti ed emozioni. Basta aprire un qualsiasi social network per (ri)scoprire quanto sia ancora attuale e rivoluzionario il link. Gli amici sono dei link, il curriculum è un link, sono link le foto postate su instagram e le ricerche che si fanno per capire, sempre restando confinati alle relazioni umane, le caratteristiche di persona, chi è, cosa fa, di cosa si occupa. La reputazione e la vita privata  di una persona sono di fatto affidate ai link, che hanno soppiantato totalmente il ruolo millenario delle comari di paese. Io sono qua e vado là, a vedere, senza che si sappia, chi è quella persona che ha suscitato il mio interesse. Vale per una selezione lavorativa o per una selezione sentimentale. Senza guardare negli occhi per vedere dentro. Senza ascoltare come cambiano la voce e l’espressione del viso al suono secco di una domanda. Senza possibilità di capire, dalla gestualità del corpo, le reazioni involontarie, quelle che non si possono nascondere dietro alle parole. Datemi un link e vi sovvertirò il mondo, avrebbe affermato Archimede, se ne fosse stato lui l’inventore. E le informazioni superficiali che si possono avere dai link sono molte: gli interessi, gli hobby, il lavoro, la partecipazione alla vita sociale, la situazione sentimentale… perfino le opinioni sui valori e sulla morale. Tutto tranne i sentimenti, quelli dai link non si vedono. Le prime avvisaglie che qualcosa stava cambiando si sono avute verso la fine degli anni ‘90, con l’utilizzo di massa della posta elettronica nei luoghi di lavoro. I nostalgici ricorderanno senz’altro quelle inutili e infinite discussioni, consumate a colpi di centinaia di email ricche di insulti e di provocazioni, in cui chiunque si sentiva legittimato a scrivere qualsiasi cosa. L’Italia si è trasformata ben presto in un Paese di rissosi da tastiera, capaci di dar luogo a vere e proprie sfide all’O.K. Corral, che tentavano goffamente, con fiumi di parole e frasi spesso sgrammaticate, di rivendicare una qualche ragione, di scaricare responsabilità o di affibbiare una qualche colpa. Parallelamente alle liti a distanza, però, fiorivano anche le prime relazioni clandestine virtuali. Poi c’è stata un’ulteriore evoluzione: i social e le chat hanno velocizzato gli scambi e le relazioni si sono velocizzate. Sono diventate prodotti da consumare in fretta, laddove, da sempre,

necessitano di tempo e di lentezza. Il linguaggio si è dovuto adeguare ad assumere un ruolo per il quale non era stato pensato: esprimere in pochi tic tac sul touch screen, e bip delle notifiche, le emozioni, le reazioni e i sentimenti. Per chi come me è attento alle parole, ne subisce il fascino, la bellezza, e le considera il dono che il grande padre Giove ha fatto agli uomini per comunicare efficacemente, è facile accorgersi di tante piccole sfumature che denotano la pericolosità delle relazioni digitali. Per esempio, quando si chatta (ops, stavo per scrivere parla, un lapsus…) con qualcuno con cui si ha un rapporto libero e leale, si fa poca attenzione alla punteggiatura, diventa quasi superflua. Si lasciano le domande e le risposte aperte. Si danno tutte le possibilità. È un po’ come stare rilassati al pub a bere un boccale di birra. Ma quando si sta sulla difensiva, o si vuole esprimere disappunto, la punteggiatura diventa un requisito comunicativo essenziale. Scrivere No potrebbe bastare, ma No., oppure No!, è molto più efficace. Evidenzia la  chiusura, rende il rifiuto definitivo.Toglie il diritto di replica. Francamente, il punto aggiunto alle parole durante uno scambio di messaggi mi lascia sempre un po’ interdetto. Provo una sorta di tenerezza nei confronti di chi pensa che le questioni si possano realmente chiudere così. Che quel punto riesca realmente a creare dei muri e a considerare chiusa la questione. La punteggiatura nella narrativa ha un ruolo essenziale essenziale, ma mentre si parla, anche laddove si facciano delle pause alla Celentano, difficilmente si percepisce dove inizia il punto è quando si va realmente a capo. E il punto esclamativo? Lo trovo ambiguo, può mettere in difficoltà. Se qualcuno risponde Sì!, qual è il corretto significato da attribuire alla risposta? In termini di emozioni, intendo. Quel punto esclamativo significa “sì, sì, sì”? È un’esortazione, tipo, “sì, muoviti”? È voglia di chiudere in fretta la conversazione e passare ad altro, senza soffermarsi troppo? Beh, può significare qualunque cosa, dipende dallo stato d’animo di chi lo scrive e di chi lo interpreta. Guccini, nel Cyrano scritto con Dati, utilizzava un’espressione evocativa : “Infilerò la penna ben dentro il vostro orgoglio perché con questa spada vi uccido quando voglio”. Forse non è proprio così, forse le parole non uccidono, ma sicuramente possono fare molto male e ferire profondamente. Se non fosse una triste realtà, ci sarebbe da ridere di fronte a una situazione grottesca in cui qualcuno prova dolore, piange, soffre e si emoziona non davanti a una persona ma davanti a uno schermo che non ha nemmeno le sembianze umane. Eppure, con questo tipo di schiavitù bisogna farci i conti. C’è chi calcola i tempi di risposta, o di visualizzazione, di un messaggio perché anche i silenzi, le pause e i ritardi digitali hanno assunto un significato diverso e sono portatori di un notevole carico d’ansia. Se non risponde, ci sarà un motivo, significa che mi ignora o “chissà cosa stia facendo”. L’ipotesi che possa aver lasciato da parte il telefono non viene presa in considerazione. Alzi la mano chi almeno una volta non è stato assalito da un’angoscia incontrollabile mentre, durante una discussione (si fa per dire) accesa, magari in un momento topico in cui si stava consumando la fine di una storia d’amore, il messaggio “Sta scrivendo…” si è interrotto di colpo. Per poi riprendere. In quei frammenti di tempo si concentra tutta la relazione: i pensieri si affastellano, sono fiumi in piena, si susseguono velocemente emozioni e stati d’animo come non era mai successo nella storia dell’uomo. Dall’altra parte c’è qualcuno che ha cambiato idea. E quella pausa rende evidente una reazione comunissima, ma che di solito non viene percepita nella vita reale, a meno che non venga inventato un display da applicare sulla fronte che segnali “sta cambiando idea” durante una conversazione. Nelle relazioni digitali ci sono un uomo, una donna e due schermi che li separano. Che fanno da filtro. Che nascondono e ingannano. Parole virtuali e sofferenze reali. Tutto. Rigorosamente. Davanti. A. Uno. Schermo. Velocemente. Qua i punti ci stavano bene…

Il problema è che ci siamo abituati troppo alla velocità della vita. Non riusciamo più a trattenere nulla, ad assaporare. Sintetizziamo. A volte si sente il bisogno di  “chiudere gli occhi per fermare qualcosa che è dentro te ma nella mente tua non c’è”. E respirare. E dargli tempo. Dargli spazio. Invece, le relazioni digitali vanno di corsa, richiedono velocità, Non c’è tempo per ragionare, per rallentare, per riflettere, per spiegare, per chiedere scusa, per esprimere un concetto che riguardi gli infiniti ambiti della vita quotidiana. Figuriamoci se c’è tempo per stringersi la mano, baciarsi, abbracciarsi, camminare fianco a fianco. A che scopo, se ci sono decine di emoticon pronte all’uso che sintetizzano benissimo altrettanti gesti? In passato, per curiosità, ho letto la corrispondenza tra i fisici e i matematici dell’800. Si trattava di lettere lunghissime e rispettose in cui venivano dibattute questioni complesse per arrivare a una qualche conclusione. Non c’era un vincitore. Le conversazioni digitali vogliono che spesso ci sia un vincitore e un vinto. E, nella competizione, le emoticons hanno un ruolo centrale. La dinamica è spesso la seguente: si inizia a scambiare messaggi in modo soft e, per un motivo o per un altro, si arriva al climax, a un punto di rottura in cui la rabbia è esplosa, il viso diventa rosso come il succo di melograno e il cuore galoppa come Furia cavallo del west. Ma non si può reagire, c’è lo schermo, bisogna usare un’emoticon. Ma per rappresentare bene quello stato d’animo, servirebbe una gif animata che raffiguri Mario Merola in modalità “piazzata” che spara minacce casuali del calibro di “T’accid ‘a madre”. Invece no, qual è l’emoticon che si usa per rappresentare quello stato di agitazione e tagliare corto? Il pollice alzato di Fonzie, usato non per dire “tutto ok” ma per un più provocatorio “stai bene così”. E chi lo usa conosce benissimo la reazione violenta che suscita nell’avversario e che va ben oltre le minacce di Mario Merola: roba tipo “te lo spezzerei, quel pollice, se fossi lì”. Ma per fortuna c’è  sempre uno schermo. Il pollice non è vero, è un fake pollice, che conduce a una verità incontrovertibile: se Leibniz avesse risposto all’epistola prior e all’epistola posterior di Newton con un pollice alzato, probabilmente non avremmo mai conosciuto Le monadi e la gravitazione universale…

Paradossalmente, però, e questo è veramente un mistero comunicativo, l’immagine che rappresenta l’incazzatura (passatemi il termine) esiste, si tratta di una faccetta rossa e arrabbiata che non assume mai il reale significato a cui è deputata. Non viene presa sul serio, perché, diciamo la verità, quando parte l’embolo della rissa, a nessuno verrebbe in mente di assumere l’espressione di una faccetta rossa simpaticamente imbronciata.

Ben più pericolose sono le emoticon che rappresentano le diverse sfumature d’amore. E le diverse sfumature di ipocrisia e di falsità. C’è un abuso di simboli mielosi che nella realtà non si trasformerebbero mai in azioni concrete. Baci e bacetti inviati a persone che dal vivo non vorresti toccare nemmeno con la canna da pesca. Invece la rete prolifera di bit che trasportano cuori e baci “cuorosi” a chiunque, anche a perfetti sconosciuti, per fingere empatia o per esprimere un qualche sentimento. Tanto c’è lo schermo del telefono a fare da filtro. Dall’altra parte, però, c’è sempre qualcuno che interpreta, fraintende, spera, soffre… e spesso l’altra parte non si capisce bene quale sia, se quella del mittente o del destinatario.

Se gli scambi virtuali tra due persone stanno dimostrando ampiamente le difficoltà relazionali di questa e delle future generazioni, gli scambi di gruppo denotano dei disagi ben più importanti, che rafforzano l’impressione espressa da Umberto Eco qualche anno fa, ovvero che “internet ha dato diritto di parola a legioni di imbecilli”. Per esempio, se In un gruppo c’è qualcuno che scrive, che so, Qualcuno sa dirmi la vera ricetta della coda alla vaccinara?, la risposta non proviene soltanto da chi ha qualcosa da dire. Ci mancherebbe altro. Ognuno deve dire la sua. E quando ricapita un momento di visibilità? No. Io no. NO! Io no, mi dispiace. Io ce l’avevo, ma l’ho persa. Provo a chiedere a mia nonna e ti faccio sapere. Io no, ma ho quella degli strozzapreti alla romana, va bene lo stesso? Te la darei volentieri, ma sono fuori casa. Decine di messaggi per non ottenere nulla, a parte un aumento non richiesto del traffico di rete. Poi ci sono le comunicazioni di servizio, quelle che bisognerebbe leggere senza replicare e che invece danno luogo alle 50 sfumature di “grazie”. Grazie. Grazie! Grazie mille. Grazie davvero. Grazie (cuoricino). Grazie (emoticon circondata da cuoricini).Ma grazie! Di nulla. Grazie a te. E infine ci sono gli auguri, quelli che nella realtà nessuno ricorda, a parte quelle poche persone che ci tengono sul serio. In ogni caso, al segnale di auguri si scatena ogni volta l’inferno. Un trionfo di faccette festanti, bicchieri brindanti e coriandoli di ogni tipo. Forse dipende dall’età, forse dipende dalla stanchezza, forse dipende dalla scarsa capacità di comprendere dei valori diversi perché sono troppo ancorato ai miei, ma queste relazioni non riesco proprio a viverle con partecipazione. Dignitoso distacco. Eppure sostengo la trasformazione digitale da sempre e in quasi tutti gli innumerevoli aspetti positivi di cui è portatrice. Tranne questo. Non lo comprendo. Ho bisogno di tutte quelle manifestazioni di cui l’uomo è capace di esprimere solo dal vivo. Insomma di quella vita che la virtualizzazione dei sentimenti in qualche modo ha offuscato. Ad maiora 👍

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