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Mese: Ottobre 2021

Il Manifesto della digitalizzazione

Posted on 27 Ottobre 2021 by admin

Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Marx. Marx, proprio lui, il celebre ballerino prussiano passato alla storia per l’interpretazione acrobatica dello schiaccianoci del Bolshoi, terminata con un dolorosissimo atterraggio e una conseguente frantumazione delle suddette noci. È da questo balletto, mi sento di dire “di rottura”, che è nato il cosiddetto materialismo storico.

In pochi sanno che, nel tempo libero, tra un esercizio sulle punte e la cura maniacale delle unghie dei piedi, Marx si è occupato anche di filosofia. Sociale, politica ed economica, per l’esattezza. Si potrebbe dire che sia stato un filosofo globale, un osservatore privilegiato che ha analizzato la società a tutto tondo, da diverse prospettive. So che, a questo punto, risalire la china e dare un’immagine di Marx diversa dall’avvocato svitato, interpretato da Alberto Sordi nel film Troppo forte, sia difficile. Ci proverò, parlando della realtà che ci circonda e provando a contestualizzare alcuni aspetti della filosofia marxista alla digitalizzazione e ai giorni nostri.

La comprensione della realtà è essenziale per capire l’epoca in cui si vive e, anche se può sembrare anacronistico, la filosofia di Marx è quanto di più attuale ci possa essere per comprendere il processo di trasformazione digitale in cui siamo, consapevolmente o inconsapevolmente, immersi. In primo luogo, Marx è stato il filosofo della consapevolezza: uno degli elementi chiave della digitalizzazione. A differenza dei colleghi che lo hanno preceduto, egli sosteneva che la consapevolezza filosofica, la conoscenza della realtà, non doveva essere finalizzata a sé stessa ma al cambiamento.

Teoria filosofica e pratica, quindi, cercando di superare la visione einsteiniana secondo la quale “la teoria è quando si sa tutto e non funziona niente, la pratica è quando funziona tutto e non si sa perché, noi facciamo teoria e pratica: non funziona niente e non si sa perché.”

Chi si occupa di digitalizzazione sa benissimo che le parole “consapevolezza” e “cambiamento” sono alla base del processo di trasformazione digitale e hanno un peso maggiore rispetto, ad esempio, alle parole “tecnologia” e “cloud”. Non solo, ė la visione globale a influenzare il cambiamento e a fare in modo che si prenda la direzione giusta al posto di quella sbagliata. Nel corso della mia carriera lavorativa, ho visto centinaia di progetti fallire a causa della mancanza della visione globale di un fenomeno di qualsiasi tipo, che sia tecnologico, scientifico, sociale o economico. Nello specifico, quando si tratta il delicato tema della digitalizzazione, si sente parlare frequentemente, in base alle convenienze e alle mode del momento, solo di cloud, o solo di smart working, o solo di open data, e quasi mai del fenomeno “trasformazione digitale” nella sua interezza.

Per questo, ritengo che Marx sia stato un filosofo della digitalizzazione ante litteram, un gigantesco filosofo senza tempo, le cui idee sono più che mai attuali e attuabili nella società moderna. Un manifesto della digitalizzazione, riprendendo il celebre incipit, potrebbe iniziare più o meno così: “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro della digitalizzazione. … È ormai tempo che i responsabili della trasformazione digitale espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro della digitalizzazione un manifesto della digitalizzazione stessa.”

Chiedo scusa per la violenza perpetrata nei confronti di uno dei maggiori trattati dell’ottocento, ma l’ho fatto a fin di bene… Marx aggiunge alla consapevolezza anche la modalità per cambiare le cose: attraverso la rivoluzione. Sarà un caso se si parla di ”rivoluzione” digitale? Forse, ma per fare la rivoluzione digitale servono una visione globale e un substrato culturale che probabilmente ancora non ci sono. Non ci sono nei politici, che farfugliano slogan senza senso a scopi propagandistici, non ci sono in una fetta consistente di popolazione, disabituata al ragionamento e al senso critico, e non ci sono nemmeno in una fetta consistente di RTD, i responsabili per la transizione digitale, che spesso esercitano semplicemente un potere distorto senza avere la benché minima idea di quali strade intraprendere. Marx ed Engels, l’amico fidato del nostro barbuto ballerino, al contrario di quanto si possa pensare, sono stati i filosofi della libertà e non dell’uguaglianza. O meglio, l’uguaglianza, nella loro visione del mondo, non rappresenta un fine, ma un mezzo per liberare gli uomini. La via di fuga per l’uomo, l’atterraggio morbido nel bel mezzo dello schiaccianoci acrobatico, è l’emancipazione, la liberazione dallo sfruttamento. Emancipazione che si ottiene, per l’appunto, attraverso l’uguaglianza e la giustizia. Questo concetto tocca diversi aspetti relativi alla digitalizzazione. In primo luogo il sottile confine tra la libertà e la schiavitù. A questo proposito, non posso non ricordare le infinite e inutili discussioni in cui mi sono speso, nel decennio scorso, a favore dello smart working. Mentre la massa, dirigenti, lavoratori e sindacati, nessuno escluso, si ostinava a vedere lo smart working come un privilegio e ad attuare misure discriminatorie attraverso graduatorie e favoritismi, io parlavo di uguaglianza: smart working per tutti. Perché, avendolo sperimentato, sapevo perfettamente che attraverso delle misure egualitarie sullo smart working i lavoratori sarebbero stati finalmente liberi. Liberi di spendere adeguatamente e sensatamente il tempo di vita, indipendentemente dal controllo del datore di lavoro, mantenendo comunque la stessa produttività.

Di paradossi, in questo senso, ce ne sono molti. Si può essere liberi attraverso una digitalizzazione parziale e una politica che sposta nuovamente il lavoro in presenza, cercando di fermare il volano culturale che si è innescato? Si può essere liberi se una parte della popolazione ordina gli alimenti comodamente seduta sul divano e un’altra parte pedala al freddo sotto la pioggia? Si può essere liberi se gli sfruttati non sono consapevoli di esserlo e arrivano al punto di amare gli sfruttatori? Si può essere liberi se i mezzi (digitali e non) di produzione sono governati quasi esclusivamente dai privati e dal profitto? Si può essere liberi se una parte della popolazione non possiede le competenze digitali minime per accedere ai servizi? Si può essere liberi se i cittadini sono considerati “merce”, al pari della merce di scambio, e vengono profilati per capire meglio che tipo di consumatori sono? Mi sento di dire che in queste condizioni non c’è nessuna libertà (e non c’è nemmeno uguaglianza) perché la libertà “formale” della digitalizzazione si scontra con la realtà “reale”. Sulla carta, i cittadini digitali sono tutti uguali, ma nella pratica no. C’è chi possiede mezzi, competenze, possibilità e chi non li ha, c’è chi ha accesso ai servizi digitali e chi non ce l’ha, c’è chi lavora con modalità schiaviste nelle multinazionali e chi sfrutta il lavoro acquistando compulsivamente prodotti dietro lo schermo di un cellulare, c’è chi possiede i mezzi di produzione e chi produce plusvalore lavorando per la “nuova” borghesia digitale. Quest’ultimo aspetto richiama un altro concetto chiave della filosofia marxista: il bisogno e il suo soddisfacimento in un contesto che vede contrapposta una esigua classe dominante, che possiede i mezzi di produzione, e una numerosa classe proletaria che possiede la forza lavoro. Il bisogno e il conseguente soddisfacimento sono per il profitto un po’ come fu il cibo per Erisittone, il re di Tessaglia della mitologia greca, condannato da Demetra a una fame inesauribile. Quella fame che, per cibarsi, lo costrinse a vendere la figlia in un mercato. E il bisogno ossessivo, abbinato al soddisfacimento, non fa altro che creare insoddisfazione, noia, infelicità. Ma soprattutto crea nuovi bisogni da soddisfare, come nella migliore tradizione del pessimismo cosmico.

In questo passaggio c’è l’enorme contraddizione delle politiche sulla digitalizzazione: la produzione non di libertà ma di bisogni secondari che vengono soddisfatti attraverso lo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse. Ed è sulla sottile linea che separa i bisogni primari dai bisogni secondari che si articola la questione digitale. Perché i bisogni primari, quelli del materialismo naturalistico, l’amore, la paura della morte, e la paura della natura, che l’uomo ha proiettato fuori di sé creando un dio che somigliasse a sé stesso, sono stati sostituiti dai bisogni secondari, gli oggetti, che l’uomo ha proiettato fuori di sé creando un nuovo dio ben più terreno e pericoloso: la tecnologia. E la lista delle debolezze di questo nuovo dio è lunghissima: si va dall’invecchiamento programmato dei dispositivi alla produzione continua di nuovi modelli, che, tutto sommato, nella maggior parte dei casi eseguono operazioni simili a quelle che si eseguivano negli anni ‘90: chat, email, browser, etc. Si passa per i bisogni di consumo compulsivo, indotti da messaggi di ogni tipo (Black Friday, Prime, annunci e pubblicità aggressive) fino ad arrivare al paradosso degli influencer, i nuovi sacerdoti del consumo, che, attraverso un tweet, possono decretare il successo o il fallimento di un prodotto, a prescindere dal reale valore d’uso. E si approda al bisogno di informazioni e notizie, ormai completamente affidato ai social e alle piattaforme gestite dai privati. Come vengono soddisfatti questi bisogni “digitali”? Marx direbbe che da una parte ci sono i “padroni” dei mezzi di produzione digitale – Google, Amazon, Facebook, Twitter, e multinazionali in diversi settori economici, e dall’altra i lavoratori, gli sfruttati. Da una parte ci sono gli impazienti, quelli che pretendono la consegna di un pacco entro 24 ore, i complici degli sfruttatori, e dall’altra una catena di schiavi che, attraverso il lavoro, soddisfa questi bisogni secondari. Ed ecco che la storia, intesa come lotta di classe e disuguaglianza ,si ripete. Come tragedia e come farsa, contemporaneamente. Guardando ai tempi moderni con gli occhi di Marx, mi chiedo se sia veramente questo il modello di trasformazione digitale a cui bisogna tendere. Non dovrebbe essere il profitto delle classi dominanti, quelle a cui sono destinati i fondi del PNRR, a dover guidare la digitalizzazione, dovrebbe essere la libertà dei cittadini, attraverso il raggiungimento di un’uguaglianza universale e di un benessere condiviso. Gli Stati, in tutto ciò, hanno un ruolo essenziale perché sono responsabili dell’attuazione distorta delle politiche digitali e, cosa ancor più grave, sono responsabili della creazione delle divisioni e di un nuovo proletariato digitale in cui i singoli cittadini sono sempre più estranei alla collettività: non è sufficiente che la cittadinanza digitale formale, quella scritta sulla carta, sia valida per tutti. È necessario che ci sia un’uguaglianza reale tra cittadini in termini di servizi erogati sul territorio, di accesso ai dati, di competenze digitali, di mediazione tra i bisogni reali e i bisogni superflui. È necessario arginare l’individualismo indotto dalla digitalizzazione dissennata, l’atomizzazione della società perpetrata attraverso l’uso (e la dipendenza) dagli strumenti e dalle tecnologie digitali, che inducono gli individui all’isolamento e all’egoismo. Ė colpa della struttura che influenza la sovrastruttura, direbbe Marx, preso da un irrefrenabile desiderio di clic, dopo aver acquistato per errore dei fuseaux rosa, taglia extra small, a 99 centesimi, su Amazon e aver scaricato la colpa dello sbaglio sul povero fattorino. E non avrebbe tutti i torti perché abbiamo imparato a nostre spese che la struttura economica di una società influenza fortemente la sovrastruttura, ovvero l’arte, la cultura, la politica, i comportamenti sociali e più in generale, la storia. Ecco perché dovremmo pretendere una visione globale da parte dei decisori politici e non accontentarci del reclutamento “spericolato” di risorse poco competenti da destinare alla gestione del recovery fund. Ogni rivoluzione porta con sé un cambiamento, e il cambiamento non può che essere dettato dalla consapevolezza. Gli ideali che propone Marx nei suoi trattati possono o meno essere condivisi, ciò non toglie che, a dispetto della presentazione introduttiva iperbolica e sopra le righe, quel pensiero, quel modello di società, è puro ed elegante come una danza raffinata. Come i dervisci turner che girano, direbbe il compianto Battiato, sulle spine dorsali al suono di cavigliere del kathakali.

Narrazione e falsificazione della realtà: la dura vita del social media manager

Posted on 22 Ottobre 2021 by admin

Io sto morendo, ma quella puttana di Emma Bovary vivrà in eterno. Con queste parole, pronunciate in punto di morte, Flaubert ha sintetizzato, oltre ai sentimenti di amore e odio nei confronti del personaggio letterario da lui stesso creato, il significato più profondo della parola “narrazione”. Parola che, a essere onesti, grazie all’utilizzo ad minchiam perpetrato e abusato da giornalisti, politici e opinionisti, comincia a causarmi reazioni allergiche almeno quanto la parola resilienza, ormai utilizzata così frequentemente da perdere ogni significato. Ma andiamo per gradi… Io credo che l’uomo esista perché esistono le sue storie. Questo concetto è sintetizzato molto bene dalla meccanica quantistica e dal principio antropico: un fenomeno esiste quando può essere osservato e, se può essere osservato, dipende in qualche modo dall’osservatore. L’osservatore, però, ha dei vincoli dovuti alla sua stessa esistenza. Scendendo leggermente di livello, si potrebbe fare un parallelismo e affermare che l’uomo esiste perché esistono degli osservatori che raccontano la sua storia e lo rendono immortale. Osservatori vincolati da un principio antropico “depotenziato”, che corrisponde all’esistenza in un certo periodo storico governato da morali, ordinamenti sociali e pregiudizi.

In fin dei conti, nel corso dei secoli, sono cambiati i mezzi, ma le tecniche di comunicazione, dai tempi della caverna, quando i cavernicoli si radunavano intorno a un fuoco per raccontarsi storie di caccia, non sono cambiate poi così tanto. Jung sosteneva che la grotta è una delle rappresentazioni dell’archetipo della Grande Madre: la magica autorità del femminile, la saggezza e l’elevatezza spirituale che trascende i limiti dell’intelletto; ciò che è benevolo, protettivo, tollerante; ciò che favorisce la crescita, la fecondità, la nutrizione; i luoghi della magica trasformazione, della rinascita; l’istinto o l’impulso soccorrevole; ciò che è segreto, occulto, tenebroso; l’abisso, il mondo dei morti; ciò che divora, seduce, intossica; ciò che genera angoscia, l’ineluttabile. La grotta viene associata a uno dei luoghi di procreazione o di nascita perché, in qualche modo, rappresenta l’utero femminile da cui sorge la vita. Gesù Cristo, tanto per citare la storia inedita di un personaggio poco conosciuto, viene fatto nascere all’interno di una grotta, al freddo e al gelo. Non nasce, forse, ma viene fatto nascere, perché quella storia, vera o falsa che sia, è ricca di simbolismi: rappresenta la riscoperta del bambino, il ritorno all’inizio, la valorizzazione delle esperienze di vita vissuta. L’inventore di questa narrazione, tuttora ignoto, merita senz’altro il premio Nobel per la comunicazione: conoscete un’altra storia, altrettanto duratura, che sia riuscita a condizionare le coscienze di miliardi di persone e che abbia permesso la creazione di uno stato potente e ricco come il Vaticano? A dire il vero, nei Vangeli non vengono fatti molti riferimenti alla natività (sembra addirittura che Gesù sia nato nel 7 a.c., ovvero sette anni prima di sapere che fosse nato), per cui, la storia della grotta deve essere stata creata ad arte da qualche social media manager buontempone, che ha intuito nel Natale un enorme business, fatto di presepi, di statuine e di regali riciclati. Potremmo fermarci qua e, come in un racconto di Carver, lasciare ai lettori la libera interpretazione di quale sia il ruolo, oggi, del social media manager, ma non sarebbe giusto: proviamo a darne una connotazione più precisa. Iniziamo subito a escludere la parola narrazione dai discorsi che faremo e, soprattutto, dai contesti politici e lavorativi, luoghi fisici o virtuali in cui viene più che altro privilegiata la mistificazione della realtà al solo scopo di orientare le masse e controllare la popolazione. La narrazione, o più propriamente la narrativa, non corrisponde mai alla realtà: il fruitore di una narrazione si aspetta che le storie abbiano un senso narrativo non un senso di verità assoluta. E il senso narrativo è subordinato a un patto invisibile tra il narratore e il lettore, il quale è disposto ad accettare qualsiasi tipo di artificio, anche che il lupo di Cappuccetto Rosso parli e si mascheri da nonna. 

Katherine Mansfield, una celebre scrittrice di racconti brevi dei primi del ‘900, definì il narratore una specie di funambolo in grado di raccontare la verità come solo un bugiardo può dirla. Ecco, un social media manager non è un narratore e la mistificazione della verità a cui assistiamo quotidianamente sui diversi media non c’entra niente con la parola “narrazione”. Eppure, un social media manager che non si limiti alla pubblicazione meccanica dei post sui social, ma che utilizzi le parole per comunicare, è destinato a diventare l’evoluzione del giornalista vecchia maniera. Oggi più che mai, creare i contenuti non basta, è necessario “saper raccontare un contenuto” e renderlo visibile affinché il messaggio arrivi al maggior numero di persone. Il celebre Don Gaetano, un personaggio letterario di un romanzo di Leonardo Sciascia, sosteneva maliziosamente che “le cose che non si sanno non sono”. Ed è vero. Ce ne siamo accorti negli ultimi due anni, in cui i media hanno vergognosamente orientato l’opinione pubblica attraverso una narraz… descrizione parziale e poco chiara della realtà. Tutto ciò che non si conosce, in qualche modo non esiste… un po’… come dire… “occhio non vede e cuore non duole”. Le parole continuano a essere il mezzo di comunicazione più potente che abbiamo a disposizione e possono essere usate come armi, soprattutto in un momento di paura dilagante. Paura di morire per colpa di un virus, per esempio. Ed ecco che la parola “immunizzazione”, ripetuta sotto forma di notiziario o hashtag, diventa una specie di mantra da cui scaturisce il convincimento diffuso di essere protetti. Immuni, per l’appunto. Anche se le ricerche scientifiche dimostrano tutt’altro, la diffusione delle parole prevale sulle pubblicazioni. E non solo perché una rassicurante bugia è più gradita di una scomoda verità, ma perché le parole viaggiano sui media a una velocità molto più alta di quanto viaggi un problema complesso e sfaccettato a cui corrispondono soluzioni altrettanto complesse. I media, attraverso alle parole, semplificano, forniscono risposte facili e veloci, riducono la complessità e creano tuttologi- o fuffologi?- spocchiosamente (im)preparati su qualsiasi argomento.

Il social media manager ha un ruolo sociale importantissimo: a lui è demandata la narraz… la ricerca della verità, la sua rappresentazione e la diffusione sui diversi mezzi d’informazione. Il problema principale con cui si deve confrontare, però, riguarda proprio la parola “verità” perché, troppo spesso, chi svolge questo lavoro viene chiamato a costruire false verità partendo da punti di vista, opinioni personali o, peggio, da obiettivi meschini. Federico Palmaroli, il creatore della pagina Le più belle frasi di Osho, è un Social Media Manager? Direi proprio di sì: lo è, a fin di bene. Utilizza l’ironia, spesso fa sorridere, a volte fa riflettere, e riesce a raggiungere i destinatari più disparati. Conosce l’uso di un certo tipo di linguaggio, lo sa usare benissimo e sa usare i social network. Ma chi sono, esattamente, i bersagli perfetti, quelli a cui certi messaggi arrivano più facilmente attraverso i social network? In primo luogo, sono i fruitori delle informazioni rapide, quella parte di popolazione che va di corsa, non ha tempo di approfondire le notizie e le fonti, si limita a leggere i titoli, spesso non è in grado di valutare l’attendibilità di un’informazione, non si ferma a ragionare e, quando si tratta di condividere qualcosa, ha il dito più veloce del west. Finché si tratta di leggere frettolosamente una vignetta di Osho, ridere e condividere, direi che non ci sono grossi problemi.

Ma cosa succede quando i messaggi e le condivisioni sono di un tenore diverso e ben più insidiose?

Succede che si orientano, pardon, disorientano, le masse attraverso la leva delle paure. Si tratta di una tecnica collaudata che funziona benissimo da secoli: si costruisce un nemico, si creano una paura e un guerriero che, in nome del bene, protegge e rassicura gli impauriti, e il gioco è fatto. In nome della paura, e della protezione, si può compiere indisturbati qualsiasi scempiaggine. In questo, Luca Morisi è stato un vero maestro. Un social media manager raffinato, se di raffinatezza si può parlare. È lui ad aver coniato la parola “Capitano”, per dare un ruolo da condottiero a Matteo Salvini, è lui ad aver portato un partito politico a un consenso del 30% partendo da un misero 4%, è lui ad aver ideato “La bestia”, ovvero il team di esperti che, attraverso la sentiment analysis, ha costruito ad arte e diffuso sui social le idee di un partito, basandosi sui desideri espressi da una parte degli elettori, attraverso le preferenze manifestate sui social network. È lui ad aver creato il fenomeno Salvini, mistificando la realtà, amplificando le paure, che a dire il vero già ribollivano nelle viscere di una parte della società, dei migranti e dei diversi (dei deboli, in poche parole). Questa descrizione può sembrare di parte, ma in realtà rappresenta soltanto una faccia della medaglia che non c’entra nulla con gli schieramenti politici. L’altra faccia, forse peggiore, è rappresentata dagli avvenimenti recenti e dalle scelte scellerate e liberticide conseguenti alla gestione della pandemia. L’amplificazione delle paure, in quel caso, è andata ben oltre “la bestia” e ha coinvolto i media nella loro interezza, creando un pensiero a senso unico, demonizzando il dubbio socratico, dividendo la società tra pro e contro, riducendo la democrazia e il parlamento ai minimi termini e legittimando provvedimenti a dir poco spregevoli e discriminatori. In questo caso, non c’è stato bisogno di creare una paura ad hoc, è arrivata direttamente dalla Cina ed è bastato bombardare di notizie terribili le persone fino a terrorizzarle. Con l’accondiscendenza della “scienza”, ovviamente, che in molte esternazione è passata dall’uso del linguaggio scientifico a un linguaggio da infimo avanspettacolo pubblicato senza vergogna sui social.

O con le contraddizioni della politica, che può permettersi di affermare con sicumera un concetto e tradire gli ideali il giorno dopo, senza pagare la minima conseguenza.

Diciamo la verità: quello del social media manager diventa spesso il famoso “sporco lavoro che qualcuno dovrà pur fare”, perché il potere, il profitto e il consumo (in poche parole il neoliberismo) giocano ancora un ruolo chiave nella società. In questo panorama triste, però, ci sono gli spazi per l’affermazione di  un esercito di “garanti diffusi dell’informazione”. Un esercito di cui fidarsi, insomma. Perché non basta che una notizia rimbalzi da un social all’altro, riceva milioni di like e orienti l’opinione pubblica: una notizia deve essere prima di tutto veritiera e verificata. I “vecchi” professionisti dell’informazione non hanno capito ancora bene le dinamiche attraverso le quali una notizia o un fenomeno diventino “virali” (anche se da mesi non fanno altro che parlare di virus). I vecchi professionisti dell’informazione non hanno capito ancora che non possono più permettersi di comportarsi come delle vallette, leggendo le notizie diffuse dall’ANSA o propagandando una qualche ordine imposto dall’alto.

I vecchi professionisti dell’informazione non hanno ancora capito che i fenomeni sociali e politici si narra… descrivono attraverso i dati, e i dati bisogna saperli cercare, trovare, capire e interpretare invece di spararli a caso in base alle proprie convenienze. I nuovi professionisti dell’informazione, i social media manager, queste cose le sanno eccome, perché non conoscono soltanto gli strumenti digitali, ma conoscono molto bene i meccanismi alla base della comunicazione moderna, sanno riconoscere gli utilizzatori, targettizzarli, prevedendo le reazioni e le tendenze rispetto a una certa notizia. Per questo hanno un potere enorme, il potere di omettere un’informazione e convincere una moltitudine di persone che una certa cosa non esista. Oppure che esista, dimostrandola. Documentandola in maniera imparziale. Supportandola con i dati e con le diverse interpretazioni che ne possono conseguire. Trattando i media, l’informazione, ma soprattutto i destinatari dei messaggi, con i dovuti riguardi. Cercando di non contraddirsi e di non tradire la fiducia. Ciò che differenzia un Burioni qualsiasi da un social media manager è proprio questo aspetto: il primo può permettere il lusso di insultare, di dire mezze verità, di tradire la fiducia e di perdere qualche follower, il secondo non può farlo perché ha un’etica e una dignità che devono andare oltre ogni irragionevole conflitto di interessi.

Smart working, quale futuro?

Posted on 22 Ottobre 2021 by admin

L’opinione è uno dei mali peggiori che affligge la cultura moderna. Per costruire un’opinione, non serve nessun talento: basta leggere superficialmente qualche notizia e trarre conclusioni affrettate e imprecise. Per costruire una cultura, invece, è necessario studiare un argomento in profondità. Per costruire una cultura collettiva, oltre a una buona dose di pazienza e di utopia, occorrono tempo e condivisione. Il diritto all’opinione è diventato sacro, talmente sacro da lasciare poco spazio alla cultura. L’Italia ormai è un Paese basato sulle opinioni; ovunque è pieno di opinionisti da bar, esperti all’occorrenza di virus e di fisica nucleare, che tendono a ridicolizzare, o, peggio, a banalizzare qualsiasi concetto richieda un’analisi approfondita Si potrebbe dire che la professione attualmente più diffusa sia l’Esperto di opinioni. Recentemente, mi sono imbattuto in un articolo scritto da un sociologo, che rimproverava uno storico per aver fatto riferimento a dei “non meglio precisati fatti storici”. Lo storico in questione era Alessandro Barbero, uno che di storia… come dire… ha dimostrato di saperne qualcosina. Sicuramente ne sapeva più dell’opinionista in questione. Lo smart working, al pari di numerosi altri temi che ho trattato in passato, non fa eccezione: sono bastati pochi mesi per costruire milioni di esperti di lavoro agile e di organizzazione del lavoro, che in realtà ne sanno ben poco, ma dispensano consigli e pareri. Esperti che sono passati da anni e anni di lavoro dietro alla scrivania alla formulazione di teorie sullo smart working. L’emergenza sanitaria ha dato una forte spinta verso lo smart working, ma, paradossalmente, ha anche dato una forte spinta verso il ritorno in presenza. Semplicemente perché la tipologia di lavoro attuata in questi mesi non è stata affatto smart; si è trattato perlopiù di un telelavoro, spesso disorganizzato e attuato con mezzi di fortuna, attraverso il quale è stato possibile proseguire numerose attività, spostando di fatto la postazione lavorativa dall’ufficio alle case dei dipendenti. Eravamo pronti? Forse. Sicuramente non lo erano tutti i lavoratori e non con quel metodo. C’è da dire, però, che il lavoro pubblico è rimasto imbalsamato per decenni in un regime di telelavoro assistenziale, da cui avrebbe dovuto trarre insegnamento, dispensato sulla base delle graduatorie, delle disgrazie e dei favoritismi. Poi c’è stato (e c’è) il POLA, che avrebbe dovuto dare una spinta verso l’attuazione del lavoro agile. Insomma, sulla carta avremmo dovuto essere pronti da un pezzo, nei fatti, in molti casi, siamo stati colti di sorpresa e abbiamo improvvisato soluzioni di fortuna. Il Ministro per la Funzione Pubblica, in una recente intervista, ha definito il telelavoro emergenziale come “lavoro a domicilio all’italiana”: si tratta, a parer mio, di un’opinione spericolata simile a quella del sociologo citato all’inizio dell’articolo..Ci sono centinaia di  numerosi esempi virtuosi che hanno dimostrato palesemente l’efficacia di questo “prototipo” di lavoro agile, e che, seppur tra numerose contraddizioni, ha migliorato l’organizzazione del lavoro e la produttività in molte istituzioni. Uno  scenario simile, meriterebbe una forte accelerazione, perché è evidente che non cambiare adesso significherebbe non cambiare più. E a dover cambiare non è soltanto lo svolgimento della prestazione lavorativa; è il consumo delle risorse, è la spesa pubblica, è il modo di vivere le grandi città, è il modo di spendere il tempo e di spendere il denaro, è l’economia delle periferie e dei piccoli centri. Lo smart working porta con sé una serie di ricadute positive sulla collettività che non possono essere ignorate.

Prima di addentrarci nei nodi irrisolti, che giustamente devono essere affrontati e migliorati, è utile richiamare brevemente i pilastri fondanti della filosofia smart. Filosofia tutt’altro che attuale, dal momento che risale addirittura agli anni ‘70. Diciamo subito che lo smart working non è una modalità di erogazione della prestazione lavorativa, è un modello organizzativo della società in cui il benessere dell’individuo, inteso come parte integrante della collettività, prevale sulla sofferenza lavorativa, e conseguentemente esistenziale, del lavoratore. Proprio perché un lavoratore fa parte della collettività, il benessere dei singoli individui, attraverso lo smart working, diventa benessere collettivo. In altre parole, favorire il benessere dei lavoratori significa favorire il lavoro. Questo concetto semplice semplice è difficile da far digerire all’opinione pubblica, che, da sempre, preferisce sadicamente un lavoratore vessato e sofferente. Il bene più prezioso che hanno gli esseri umani, benché si cerchi continuamente di dimostrare il contrario, non è il denaro bensì il tempo. Lo smart working consente ai lavoratori di spendere il tempo nel modo migliore possibile (e di continuare a spendere il denaro nel modo peggiore possibile). Cosa è accaduto in questi mesi di emergenza? È accaduto un fenomeno che probabilmente, tra qualche anno, verrà studiato sui libri di storia: il malessere collettivo ha prevalso su qualsiasi forma di benessere individuale. Il tempo a disposizione è stato più che altro una collezione di minuti tutti uguali, di confinamenti, di momenti di paura e di interminabili comunicati televisivi in cui i temi principali erano la morte e il terrore. La collettività è stata disgregata e la diffidenza verso il prossimo ha prevalso sulla fiducia. Il prossimo è diventato potenzialmente pericoloso per la salute pubblica e i comportamenti altrui, anche i più innocui, sono diventati lesivi per la collettività. Questa evidenza è sempre stata sotto gli occhi di tutti: guidare in modo spericolato o sversare rifiuti tossici nelle falde acquifere è una colpa ben più grave rispetto a una corsetta senza mascherina. Eppure il sentimento di diffidenza verso il prossimo alimentato dalla pandemia ha prevalso sul buon senso ed è tuttora dilagante.Sfiducia, teniamo a mente questa parola. Venendo meno il tempo e il benessere, il lavoro agile ha perso la sua natura: più che lavoro a domicilio è diventato jail working, una specie di reclusione lavorativa che non c’entra nulla con l’idea originaria. E su questo il Ministro Brunetta non ha torto: il lavoro agile ha bisogno di un’organizzazione diversa. Ha torto quando sostiene (o fa finta di sostenere) che i lavoratori pubblici, tutti, indiscriminatamente, hanno goduto di un imprecisato lungo periodo di benessere e per questo devono tornare a soffrire in ufficio. Questo atteggiamento induce a sospettare che l’oggetto del contendere non sia la prestazione lavorativa ma una specie di questione personale tra il Ministro e i lavoratori pubblici. Certo, probabilmente ci saranno state minoranze di lavoratori che hanno approfittato del momento per tirare i remi in barca, ma a chi verrebbe in mente di incendiare una casa per togliere di mezzo un formicaio?  Ci sono degli aspetti da migliorare, è vero, ma bisogna ripartire proprio da queste evidenze, per gettare le basi di un’organizzazione del lavoro diversa. In primo luogo è necessario superare la sfiducia collettiva. Lo smart working si basa su un patto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore, decadendo la fiducia, decade anche il principio fondante dell’accordo. I cittadini sono sfiduciati, divisi, hanno rancori e malcontenti, spesso giustificati dalla perdita del lavoro, che riversano in modo indiscriminato su coloro i quali stanno meno peggio. Dar seguito a questo sentimento, accontentare l’opinione pubblica, sarebbe come incendiare la casa per accontentare gli inquilini con la fobia per le formiche. Il dipendente pubblico è da sempre un bersaglio privilegiato dell’opinione pubblica, per questo (sarà un caso?) il futuro dello smart working è destinato a seguire due strade diverse. Nell’ambito privato, le aziende hanno capito molto bene di trovarsi di fronte a una delle opportunità più ghiotte degli ultimi anni: il lavoro agile permette loro di ottimizzare i costi e di dismettere le costosissime sedi, mantenendo lo stesso livello di servizio e di produzione. Nell’ambito pubblico, l’esigenza di contenere i costi viene sentita molto meno, forse perché le risorse amministrate non appartengono agli amministratori ma ai cittadini. C’è poi un’evidenza innegabile: se in molte amministrazioni centrali lo smart working ha dato risultati che sono andati oltre le più rosee aspettative, nelle amministrazioni locali la qualità dei servizi ha subito un peggioramento. Il disservizio si è verificato perlopiù in quelle organizzazioni in cui la presenza dei lavoratori a contatto con il pubblico è ancora essenziale. Mi riferisco ai piccoli comuni, ai servizi anagrafici, ai servizi territoriali, insomma, a tutte quelle attività in cui la digitalizzazione è assente. Ed è assente non solo a causa di un ritardo clamoroso delle istituzioni, ma è assente anche per la riluttanza di una parte della popolazione a utilizzare strumenti digitali per usufruire dei servizi pubblici. Più che disinvestire nello smart working, occorrerà investire fortemente in diverse direzioni. In primo luogo nella cultura e nella condivisione dei suoi principi fondanti, ma su questo aspetto, a differenza del passato, una parte della classe dirigente ha preso coscienza delle potenzialità di questo modello lavorativo ed è passata dall’altra parte della barricata, sostenendo, e non più osteggiando, il lavoro agile come modalità di lavoro ordinaria. In secondo luogo, sarebbe opportuno rafforzare le dotazioni informatiche della PA e investire nella formazione digitale dei lavoratori: alcune amministrazioni lo hanno fatto e risultati sono stati sorprendenti. Esiste una questione di natura giuridico-contrattuale, che verrà affrontata nel corso dei prossimi giorni in un tavolo condiviso dal Dipartimento per la Funzione Pubblica e l’Aran: tuttavia, non è l’aspetto contrattuale a preoccupare i lavoratori, semmai è il contenuto del contratto.

Quali sono i punti su cui non si dovrebbe assolutamente tornare indietro? Occorre opporsi fermamente alla reintroduzione delle graduatorie e dei punteggi basati sulle invalidità e sulle esigenze famigliari. Sembra assurdo che si torni ancora a parlare di questa eventualità, nonostante sia stato ampiamente dimostrato che il lavoro agile non è una forma di assistenzialismo ma una forma di organizzazione del lavoro basata su criteri differenti. Poi, bisogna evitare i limiti predefiniti di posti, che generano soltanto malcontenti, una stupida competizione tra lavoratori e un’inutile spaccatura tra presunti privilegiati e discriminati. Occorre monitorare gli obiettivi e il loro raggiungimento e mettere da parte le assurde fasce orarie e i giorni predefiniti di rientro in ufficio. Un’organizzazione del lavoro che privilegi gli obiettivi non può prevedere le fasce di operatività, di contattabilità e di inoperabilità: sarebbe una vera e propria contraddizione. L’unica deroga ammessa potrebbe riguardare quei lavoratori che erogano dei servizi in orari prefissati. Infine, c’è una questione aperta che riguarda la domanda e l’offerta di servizi in relazione alle competenze digitali della popolazione: difficilmente si potrà attuare una diversa organizzazione del lavoro, se i cittadini continuano a considerare i servizi pubblici come “luoghi” fisici in cui recarsi e non come piattaforme digitali a cui far affidamento. La chiave di svolta dello smart working è la trasformazione digitale, che, di fatto, rende l’ufficio uno spazio inadeguato allo svolgimento di molti lavori.

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