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Mese: Novembre 2024

Sui dati di maggior valore e i dati di minor valore

Posted on 28 Novembre 2024 by admin

Se Protagora e Gorgia fossero vissuti in quest’epoca moderna, molto probabilmente sarebbero diventati degli ottimi sofisti dei dati. Il discorso privo di fondamento scientifico dei sofisti, affiancato alla fideistica verità proiettata nei dati, può sembrare un’associazione ossimorica (in effetti, in alcuni casi lo è), ma in realtà descrive molto bene il “non metodo” diffuso tra diverse comunità pseudoscientifiche per creare delle narrazioni convincenti basate sui dati e sulle loro interpretazioni. Il sofismo, oggi, viene immaginato come l’esercizio fine a sé stesso di un’arte oratoria da ciarlatani menzogneri (idea che avrebbe fatto imbestialire Gorgia) e in effetti la sua applicazione è stata travisata e distorta proprio in questi termini, con l’aggiunta di una componente apparentemente rigorosa: l’ inequivocabilità dei dari. Se Protagora era ben consapevole delle potenzialità e dei limiti del discorso, i sofisti moderni, inconsapevoli della loro triste condizione, confondono spesso il rigore scientifico con le interpretazioni. E questo, dopo più di duemilacinquecento anni di cammino verso la ricerca della verità, è francamente inaccettabile. Il sofismo moderno si pone a un livello diverso da quello dei greci, perché usa i dati per far sì che le opinioni sembrino verità incontrovertibili. L’obiettivo, però, è il medesimo: convincere la comunità che le cose vadano in un modo piuttosto che in un altro. Alla base di questo processo c’è sempre lei, la narrazione, quella che, nel caso specifico, prende il barbaro nome di data storytelling: è evidente che i dati, per essere raccontati, debbano parlare una lingua ed è proprio su questo punto che verte la mia riflessione. Sulla base delle mie conoscenze scientifiche, posso dire con una certa ragionevolezza, sofisticamente parlando, che tutti i dati hanno qualcosa da dire, ma esistono dati di maggior valore e dati di minor valore. A dispetto delle parole, i dati di minor valore sono quelli che generano profitto e quelli di maggior valore sono quelli che generano conoscenza. I dati di maggior valore hanno un legame profondo con il metodo scientifico, con i processi induttivi, con i processi deduttivi e sono liberi da interpretazioni, perché la loro stessa esistenza corrisponde all’interpretazione. In altre parole, sono di maggior valore quei dati che raccontano “la verità”, in quanto confermano o smentiscono un’ipotesi scientifica, derivante dal “metodo”, quindi generalizzabile e riproducibile, attraverso un processo deduttivo. Il caso inverso, ovvero la raccolta dei dati che consente di giungere all’astrazione, e quindi all’ipotesi, è ugualmente “di maggior valore”, perché rientra a pieno titolo all’interno del metodo. Sì potrebbe scrivere a lungo su quale tipo di verità descrivano questo dati, ma non è questa la sede: mi limito a dire che, seppur possibile in ambito relativistico e quantistico, è abbastanza difficile che qualcuno si sogni di interpretare a proprio piacimento, che so, la relatività galileiana o le equazioni di Maxwell. Se quel qualcuno lo facesse, come è accaduto per i controintuitivi fenomeni quantistici, dovrebbe costruire una teoria nuova, verificata sperimentalmente da altri dati, costruendo di fatto un nuovo paradigma, per dirlo con le parole di Kuhn. In tutti gli altri casi, i dati di cui si dispone sono di minor valore, ovvero interpretabili, ovvero soggetti a errori più o meno grossolani, a punti di vista, a inesattezze o a una certa incompletezza di cui bisogna essere consapevoli, prima di fondarci un discorso che abbia l’ambizione di raccontare la verità. Gli empiristi ci hanno insegnato che,  per “fondare un discorso scientifico”, occorrono un apparato logico-linguistico, un insieme di regole e un modello associato al suddetto apparato logico-linguistico: questi tre elementi, seppur con tutti caveat popperiani, distinguono ciò che è scienza da ciò che non lo è, e conseguentemente i dati di maggior valore dai i dati di minor valore. Un piccolo esempio può aiutare a capire meglio la differenza. Se io fossi un oculista e affermassi che, sulla base dei dati raccolti, gli interventi chirurgici alla cataratta sono sicuri, non mentirei, perché questa asserzione non è falsa ed è supportata dall’evidenza empirica. Tuttavia, nonostante la ragionevole “narrazione basata sui dati”, non è possibile sostenere che questa affermazione sia vera in assoluto, perché deve fare i conti con quel 3% di casi in cui, nonostante il rispetto dei protocolli, in modo del tutto inaspettato, si verifica il distacco della retina o la maculopatia. Un fisico liquiderebbe la questione dicendo che quell’esperimento “non è riproducibile”, quindi non rispetta il metodo scientifico. Di conseguenza, i dati su cui si basa rientrano nella categoria del minor valore. Al contrario, lasciando cadere un oggetto, non può accadere che nel 3% dei casi non valga la legge di gravitazione universale, come non può accadere che il calore passi spontaneamente da un corpo freddo a uno più caldo, perché, se così fosse, significherebbe che la natura abbia smesso di funzionare così come la conosciamo. Questo aspetto, non escludibile a priori, ricadrebbe in una di queste due condizioni:

  1. Esiste una spiegazione del perché un sasso vada verso l’alto e non verso il basso, spiegazione fornita dalla stessa teoria di gravitazione universale, e verificata attraverso i dati di maggior valore, che descrive l’anomalia del moto (per esempio l’assenza di gravità).
  2. Esiste una teoria più generale, verificata da altri dati di maggior valore, che, come accade per la relatività generale, spiega nel dettaglio le anomalie di un certo comportamento.

Ancora più catastrofica sarebbe la fallibilità del secondo principio della termodinamica, perché decreterebbe la fine del principio di conservazione dell’energia e di tutto ciò che ne consegue. Come lo sarebbe l’aleatorietà della rotazione terrestre… Cosa accadrebbe, se, anche solo per una volta, la terra decidesse di disobbedire a Keplero e di fermarsi arbitrariamente? Verrebbe immediatamente inghiottita dal sole e amen. Ciò non significa che la terra continuerà a orbitare in eterno intorno al sole: probabilmente, tra qualche milione di anni, collasserà con dinamiche ben note agli astrofisici. In definitiva, se i dati di minor valore possono permettersi il lusso di disattendere le promesse, i dati di maggior valore non possono farlo, perché sarebbe un vero e proprio dramma per la conoscenza e ancora di più per l’umanità. Questo non vuol dire che i dati di minor valore, e tutto il lavoro svolto su di essi, siano inutili, sarebbe sciocco affermarlo. Vuol dire che bisogna prestare molta attenzione, quando si esce dal contesto scientifico, per entrare in una dimensione molto più fragile e aleatoria. La tentazione di nobilitare qualsiasi tema con la parola scienza, in questi tempi, è fortissima: si parla di scienze economiche, scienze statistiche, scienze sociali e, per non farsi mancare nulla, addirittura di scienze giuridiche. Senza nulla togliere all’utilità di queste discipline, in esse non c’è nulla di scientifico, perché nessuna è basata sul metodo: non forniscono risultati riproducibili e sono fortemente aleatorie, perché dipendenti da fattori imprevedibili (basti pensare alle crisi economiche ricorrenti, agli eventi estremi che distruggono intere civiltà e all’impatto sociale di cambiamenti inaspettati, o indotti, come può essere l’avvento di internet, di una guerra o di un’epidemia). Conseguenza naturale di questa distorsione è che, in un mondo in cui tutto è scienza, nulla è scienza. In un mondo in cui i dati di maggior valore si confondono con i dati di minor valore, nulla ha più valore, al di fuori delle opinioni. Ed è proprio sui dati di minor valore che le masse di sofisti dilettanti si sentono libere di agire indisturbate, attraverso narrazioni basate su modelli interpretativi opinabili, per mezzo dei quali si giunge a conclusioni altrettanto opinabili e relativistiche. Perché quel 3%, che, in base ai casi, può essere 30% o 50%, rappresenta sempre un rifugio in cui è difficile sentirsi colpevoli ed essere incolpati. Ma se i dati di minor valore contengono intrinsecamente una certa ingannevolezza, come si fa, attraverso le loro interpretazioni, a distinguere il falso dal vero? Anche in questo caso, i sofisti darebbero una spiegazione convincente: ciò che la comunità assume come verità è vero, ciò che la comunità assume come menzogna è falso. Quindi, il fulcro attorno al quale ruota la verità dei dati di minor valore è la loro narrazione, affinché, non la più veritiera, ma la più convincente, venga accettata dalla comunità.

In questi ultimi anni si parla spesso di “data storytelling”, ovvero dell’ossimoro di cui parlavo all’inizio di questo articolo. Quando si trattano i dati di maggior valore, non c’è bisogno di costruire attorno a essi una storia: la legge di Gauss e i suoi dati parlano da sé, senza possibilità di scampo. Ma se, al posto della legge di Gauss, ci sono il PIL o le cause di morte, la narrazione è essenziale. In un paese di 500 abitanti, non basta dire che sono avvenuti 100 decessi in un anno, per liquidare la questione e stabilire una legge rispetto all’andamento della mortalità. Bisogna introdurre ulteriori elementi, che riguardano le cause, le modalità, le fasce d’età, i rischi, la serie storica, e applicare un modello interpretativo per trarre delle conclusioni che non saranno mai generalizzabili e riproducibili nel tempo. Nessuno è indenne dalla relatività delle interpretazioni e dalla pericolosità delle narrazioni. Le immagini che seguono descrivono la narrazione dei benefici ipotizzati dalla medicina, che da sempre fa riferimento alle scoperte delle scienze dure, rispetto alla radioattività, nei primi anni del ‘900. Per la contraccezione, erano stati inventati dei funzionalissimi profilattici radioattivi Radium Nutex, attraverso i quali, non è difficile crederlo, veniva quasi azzerato il rischio di gravidanze indesiderate.

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I problemi della pelle potevano essere risolti con la saponetta Radia, che, attraverso l’azione combinata del Torio e del Radio, rendevano il viso “molto” luminoso, quasi fosforescente, e uccidevano qualsiasi batterio.

Per i problemi di virilità, c’erano le supposte Vita Radium, che, abbinate ai profilattici Radium Nutex, crearono i presupposti per dar luogo al celebre duello luminoso nel film Skin deep – Il piacere è tutto mio.

Cosa dire, poi, dell’acqua frizzante Lurisia, la più radioattiva del mondo, come recitava lo slogan, o del dentifricio Doramad (io sono la sostanza radioattiva, i miei raggi massaggiano le gengive)?

Anche in quel caso, c’erano i dati di maggior valore, quelli a supporto delle scoperte di Marie Curie sulla radioattività, e i dati di minor valore, quelli che ne osservavano superficialmente alcuni effetti, trascurandone altri, e ne decantavano le lodi attraverso una narrazione ampiamente accettata dalla collettività, quindi sofisticamente vera. Pensare che quei tempi siano passati, e che nei primi del novecento fossero tutti sempliciotti, mentre nei giorni nostri, essendo tutti illuminati, non si potrebbe mai arrivare a dei paradossi simili, sarebbe un errore imperdonabile. Probabilmente, tra cinquant’anni, accadrà qualcosa di simile con alcuni farmaci attualmente in commercio, con delle creme di bellezza, con dei materiali usati nelle costruzioni, o, peggio, con uno dei tanti dispositivi elettronici che vengono usati con disinvoltura. Com’è possibile difendersi dai sofismi e dalle narrazioni scricchiolanti basate sui dati, quindi? In primo luogo, evitando di soffermarsi all’apparenza, indagando, approfondendo, domandando, esercitando il senso critico, cambiando i punti di vista preconfezionati, interrogandosi sulla validità delle tesi sostenute e sulle finalità della narrazione, senza conferire una verità incontrovertibile alla lettura di chi, seppur con una qualche professionalità, ha tratto delle conclusioni basate su presupposti potenzialmente distorti o errati. Perché potenzialmente i dati di minor valore, se liberati dalla pretesa di verità, possono essere di grande aiuto alla collettività. Dico potenzialmente perché, come dimostrano le multinazionali e gli spaventosi business basati sui dati personali, in potenza le informazioni potrebbero essere usate per il bene della collettività, in atto, invece, vengono usate per renderla schiava e indottrinarla. Se un atteggiamento esageratamente critico è spesso sconsigliabile in molti ambiti medici, perché, nonostante quel 3% di fallimenti, per fare il chirurgo e operare alla cataratta occorrono metodi, conoscenze e strumenti raffinati, in molti altri ambiti è utile porsi di fronte ai dati di minor valore con la giusta razionalità, facendo attenzione in primo luogo agli stratagemmi narrativi adottati. Chi ha avuto la fortuna di leggere il Proemio di Protagora e di confrontare quello stile narrativo coniI Principia Mathematica di Newton sa bene di cosa parlo. Spesso, un dato mal interpretato è nascosto dietro un’aura pomposa e artefatta, utilizzata appositamente per costruire una narrazione convincente, per illudere (e illudersi) di rendere vero ciò che, nella migliore delle ipotesi, è semplicemente non falso. È ovvio che, per convincere qualcuno delle proprie ragioni, e della validità delle conclusioni a cui si è giunti, è necessario far ricorso a una insana e fastidiosa retorica: i dati di maggior valore non hanno bisogno di retorica e, soprattutto, non hanno bisogno di un discorso interpretativo che faccia uso del linguaggio. Questa asserzione consente di distinguere con una certa sicurezza una pubblicazione scientifica da una pubblicazione non scientifica. Se, ad esempio, voglio descrivere il decadimento beta negativo del Torio 234, non ho bisogno di giri di parole: basta scrivere qualcosa del genere:

Parimenti, se voglio descrivere la reazione tra una molecola di metano e due molecole di ossigeno, scrivo:

Al contrario, per fornire un’interpretazione del tasso di occupazione, sono costretto a far uso della lingua e dei dati di minor valore.

Il tasso di disoccupazione in Italia è stato del 6,1% a settembre 2024, rimanendo invariato rispetto alla revisione al ribasso del mese precedente, ai minimi da 17 anni e al di sotto delle aspettative di mercato del 6,2%, prolungando il periodo di ristrettezza nel mercato del lavoro italiano. Il numero di disoccupati è diminuito di 14.000 unità a 1.552.000, anch’esso il più basso negli ultimi 17 anni, compensando il calo di 63.000 unità nell’occupazione netta a 23.983.000. Di conseguenza, il tasso di partecipazione alla forza lavoro è sceso al 66,3%, il più basso da 19 mesi.

Quanta aleatorietà si nasconde dietro questo testo? In primo luogo, per comprenderne a fondo il significato, bisognerebbe conoscere la definizione di “Tasso di occupazione” e i metodi con cui viene calcolato. Poi, bisognerebbe approfondire quali siano e come vengano stimate le “aspettative di mercato”, poi, per avere un dato più vicino alla realtà, bisognerebbe capire le dinamiche del lavoro nero e l’impatto sull’economia, poi bisognerebbe essere certi che il modello e i metodi utilizzati per ottenere quei dati sintetici siano i migliori o, quantomeno, i più adeguati. Insomma, anche i meno esperti, attraverso questi esempi, riescono a comprendere l’enorme differenza tra i dati di maggior valore e i dati di minor valore.

Una pubblicazione in cui vengano trattati dei dati di minor valore si riconosce subito dall’antilingua utilizzata per la loro interpretazione. Calvino chiamava “antilingua” quell’italiano surreale, che viene adottato trasversalmente in tutti gli ambiti, dalla politica all’economia, dalla statistica alla medicina, e che tende ad uccidere contemporaneamente la lingua italiana e la possibilità di comprendere pienamente un testo. L’esempio che fa Calvino è più esplicativo di mille spiegazioni e può essere riscontrato in numerosi aspetti della vita quotidiana.

Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata“. Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel ritrovamento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante“. 

Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. 

[…] come se “fiasco”, “stufa”, “carbone” fossero parole oscene, come se “andare”, “trovare” “sapere” indicassero azioni turpi. 

[…] Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: “io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso”. La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza di un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per sé stessi. 

[…] Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa.

Quello che accade, quando si prende troppo sul serio la narrazione dei dati di minor valore, attribuendogli pretese di verità, quando si cerca nei dati una ragione di vita artefatta e illusoria, quando si rinuncia a dire “andare”, “trovare”, “sapere”, quando si ricorre all’antilingua, per descrivere realtà subsicientifiche, è quanto di più dannoso si possa perpetrare ai danni della società. Per questo, i dati di minor valore sono considerati preziosi, perché la loro narrazione si insinua nelle cellule degli individui come un cancro, divorandone le facoltà mentali e annullando qualsiasi anelito di ragionamento. Ed è proprio ricorrendo all’antilingua che si favorisce questa decadenza cognitiva, mostrando in fondo la mancanza, da parte di chi scrive, di un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per sé stessi. E per gli altri.

Migranti, formiamoli a casa loro!

Posted on 23 Novembre 2024 by admin

Negli ultimi tempi, mi capita spesso di incontrare decisori politici nazionali e locali, per discutere di dati. O, meglio, per discutere di politiche guidate dai dati (data-driven, per chi non abbia familiarità con la propria lingua e, probabilmente, nemmeno con l’inglese). Da questi confronti ne esco sempre più arreso e disilluso, perché non posso fare a meno di prendere atto del decadimento culturale collettivo in cui sono costretto ad annaspare. Mi chiedo se nelle istituzioni si abbia contezza dell’uso imbarazzante, ma sarebbe meglio dire disuso, dei dati che viene fatto dalla politica. Guardando oltre l’utilizzo propagandistico o fraudolento, perpetrato barbaramente sui diversi media, si può ragionevolmente affermare che il senso comune, l’intuito, le convenienze e la malafede guidano le scelte politiche molto più dei dati: in poche parole, a dispetto dei proclami pomposi che si ascoltano nei convegni, non c’è speranza di farcela. Posso fare esempi illustri su questo tema. Supponiamo per assurdo che esista qualcuno talmente folle da essere votato alla demografia e da dedicare la vita allo studio delle minoranze berbere o all’invecchiamento della popolazione. Quali delusioni, quali angosce, quale presa di consapevolezza, nel momento della resa dei conti, rispetto al tempo e alla vita sprecata in cose inutili di cui non importa niente a nessuno, avrebbe quello sventurato, quando si renderebbe conto che, nonostante i suoi anatemi, l’Italia tutto sembra tranne un paese adatto agli anziani? La sanità è inadeguata come e più delle pensioni, il medico di famiglia ormai riceve su prenotazione ed è sempre più lontano dai bisogni di quei pazienti che a volte si recavano dal medico soltanto per sentirsi meno soli, i servizi sono a portata di SPID ma non di ultraottantenne… La verità è che gli anziani vanno piano e la classe dirigente è troppo impegnata ad andare di corsa verso il baratro, per orientare le politiche come “dato comanda”. I vecchi, per il sistema, rappresentano un problema riconducibile quasi esclusivamente alla dimensione economica dell’aspetto pensionistico: poco importa se dietro quel dato sull’invecchiamento si celano vite, solitudini, difficoltà, disperazione e passi stanchi. Quindi, a cosa serve sapere che la popolazione invecchia, se nella pratica non interessa a nessuno creare un Paese a misura di anziano? Un lettore arguto potrebbe osservare che a decidere delle politiche sugli anziani sono quasi sempre quelle persone che vedono la vecchiaia da punti di vista (o età) privilegiati, senza avere la minima consapevolezza di cosa significhi rallentare senza volerlo, avere obiettivi a breve termine, che non c’entrano nulla con la corsa folle del liberismo e dei mercati, diventare fragili, o restare soli, o avere paura per una morte imminente o per la decadenza incombente. Posta in questi termini, la questione delle politiche guidate dai dati potrebbe sembrare rivolta soltanto a una massa di politici insensibili, ignoranti e incoscienti, che non hanno nulla in comune con i dirigenti e gli specialisti illuminati: niente di più falso. Quando si tratta di fare delle scelte, sono proprio quei dirigenti e quegli specialisti a non credere nei dati che producono e per i quali impegnano una vita intera. Ne è un esempio lampante l’attuazione della trasformazione digitale, o dello smartworking, nella PA. Pur avendo a disposizione informazioni di ogni tipo, che vanno dai profili del personale alle indagini sul benessere, dai dati sugli spostamenti a quelli sull’inquinamento, dai processi produttivi alle spese di gestione, non ho ancora incontrato un decisore o uno specialista che abbia seriamente preso in considerazione l’idea di pianificare il lavoro consapevolmente, attraverso un’analisi seria delle informazioni: lo smartworking viene ancora applicato sulla base di quelle stolte linee guida, scritte nel consueto delirio di onnipotenza punitiva dall’ex Ministro Brunetta, e la trasformazione digitale viene applicata “a sentimento”, sulla base di convinzioni e investiture di onniscienza egoriferite. Il risultato è palese: se negli anni ‘80, per rinnovare un documento d’identità, bastava recarsi nell’anagrafe di zona, adesso bisogna avere il dito più veloce del west, per prenotare un appuntamento in date imprecisate, dopo aver effettuato l’autenticazione a due fattori con SPID (specialità in cui gli anziani primeggiano da sempre). L’ultimo confronto esilarante a cui ho partecipato ha riguardato proprio l’oggetto di questo articolo: la questione migranti. Su questo tema, l’atteggiamento della politica è da sempre ben peggiore di quello riservato all’invecchiamento, forse perché la diversità continua ingiustificatamente a impaurire le persone molto più della vecchiaia. Il nodo cruciale della discussione riguardava gli sbarchi e quel mezzo miliardo di euro da investire nei prossimi cinque anni, in quell’impresa folle dei centri di accoglienza albanesi. 

Mezzo miliardo di euro… il tipico esempio di come si possa sperperare del denaro pubblico, in azioni inutili e inefficaci, quando le decisioni non sono guidate dai dati ma dalla pancia e dall’ultimo tratto dell’intestino crasso. Quel mezzo miliardo, ho pensato, sarebbe stata la cifra giusta per dar seguito a un progetto di qualche anno fa, di cui discutemmo durante un convegno riguardante il Sistema Informativo sulle Professioni e che aveva una diapositiva con sopra scritto “Formiamoli a casa loro”. Prima di descriverlo, però, ci tengo a fare una piccola precisazione sul mio modo di intendere gli esseri umani. Confesso di avere una particolare avversione rispetto ai “metodi tradizionali” con cui si affrontano i fenomeni migratori, non fosse altro perché ho ben chiaro che le origini delle migrazioni risalgono alle popolazioni di cacciatori-raccoglitori, e al consumo di territorio necessario alla sopravvivenza, per i quali l’ultimo dei pensieri era sapere quanti egiziani ci fossero a Brembate di Sopra (anche perché gli egiziani ancora non erano stati inventati). In generale, la conta degli esseri umani mi è sempre sembrata una pratica al limite del disumano, che ricorda la gestione dei pollai e gli allevamenti intensivi. L’unica differenza tra gli animali e gli esseri umani è che a nessun pollo verrebbe mai in mente di contare quanti altri polli ci sono in un pollaio, suddividendoli per razze e provenienze, con il solo scopo di decidere chi abbia il diritto accoppiarsi con le galline più belle, chi debba cibarsi col granturco migliore e chi debba finire in un forno o in un tegame, per essere cucinato arrosto, alla diavola o alla cacciatora. Tuttavia, non posso non prendere atto che, in quest’epoca di pazzi, non mancano gli idioti dell’orrore e che, per vivere in armonia nei paesi civili, è vitale sapere quanti siamo “noi” e quanti sono “loro”. Se, nonostante il censimento, le rilevazioni socioeconomiche e l’anagrafe centralizzata, i dati continuano a essere totalmente ignorati e le politiche data-driven continuano a essere pressoché inesistenti – i giovani si ostinano a voler emigrare ancorché i dati si ostinino a dire che i giovani si ostinano a emigrare-, nei confronti dei flussi migratori la situazione è ancor più grottesca.

Faccio un esempio pratico, così mi spiego meglio, e poi prometto di arrivare al nocciolo della questione. Sappiamo che i bangladesi in Italia sono circa 150.000 (frutteria in più, frutteria in meno) e che a Roma, dove vengono chiamati affettuosamente “bangla”, ne risiedono circa 33.000 (minimarket in più, minimarket in meno). Questo numero solitario dice poco o niente; al limite, viene usato nei talk show per far dire a qualcuno che Roma è invasa dai bangla. Per farlo parlare, bisognerebbe far ricorso a quella dote rara e preziosa che si chiama senso critico e contestualizzarlo rispetto a numerose altre variabili, ma non è questa la sede per farlo. Qui possiamo limitarci a connotare superficialmente la dimensione del fenomeno e a dire che a Caserta, una città di circa 70000 abitanti, un numero di bangladesi così alto cambierebbe completamente il tessuto sociale: significherebbe che quasi un abitante su 3 sarebbe bangladese.

E a Roma? 

Lo stesso, perché, come dimostrano i dati, le modalità con cui, dal pleistocene in poi, i migranti occupano i territori sono ben precise e non prevedono una distribuzione uniforme nello spazio e nel tempo. Nel caso dei bangladesi, complici i prezzi degli immobili più contenuti, è accaduto che una percentuale importante si sia insediata nel quadrante Prenestino-Centocelle, in un’area che conta circa cinquantamila abitanti. Chi risiede in quella periferia ha vissuto e subito una trasformazione totale del quartiere: la maggior parte delle attività commerciali è cambiata (come è accaduto con la comunità cinese all’Esquilino), il mercato rionale ha chiuso, sono cambiati i riti collettivi, le usanze e le abitudini. Sono cambiate le relazioni, i culti religiosi, il modo di fare la spesa e di educare i figli. Di conseguenza, servirebbero dei servizi differenti, delle scuole adeguate, una politica di integrazione e non di ghettizzazione, insomma, servirebbero delle scelte guidate dai dati, affinché la presenza dei bangladesi non venga percepita come un’invasione o, peggio, come il furto dell’identità collettiva (che non si sa bene cosa sia, dal momento che la collettività cambia continuamente e non ha un’identità stabile). A questo punto, una domanda sorge spontanea: “A cosa è servito quel numero, quel 33000, alle amministrazioni locali che si sono succedute?”. Assolutamente a nulla, esattamente come i dati sull’invecchiamento. Le cose sono andate come dovevano andare, cioè governate dal caso e dalla necessità, senza uno straccio di programmazione, Più che dai dati, le scelte sono state guidate da Tyche e Ananke, come avrebbero spiegato efficacemente i greci.. Anche in questo caso, se dietro quel numero ci fosse stato lo spreco del mio tempo di vita, avrei provato un senso assoluto di disagio e di inutilità, misto a rabbia e frustrazione. Forse, qualunque sia il lavoro da svolgere, sarebbe il caso di tornare a porsi le tre famose domande esistenziali tanto care ad Heidegger: 

Che cosa sto facendo? 

Perché lo sto facendo? 

Per chi lo sto facendo?

Anch’io, ormai molto tempo fa, mi sono illuso di avere una risposta rassicurante a questi quesiti, che giustificasse il mio sforzo sovrumano, per guardare laddove non era facile vedere: poi sono guarito… 

Ma andiamo con ordine.

Mezzo miliardo di euro è un bel gruzzolo con cui si potrebbero attuare delle politiche sulle migrazioni efficaci e misurabili, perché basate sui dati. 

Su quali dati? Sui dati del Sistema Informativo delle Professioni.

Continuo a sostenere che, nonostante sia diventato maggiorenne, è ancora l’unica esperienza di cooperazione (umana e applicativa) tra istituzioni che prosegue proficuamente da oltre vent’anni senza attriti e conflitti. Già questo – unito alla professionalità, alla passione di chi ci lavora, alla collaborazione, al rispetto, alla qualità dei dati, alla raffinatezza tecnologica – sarebbe sufficiente a far prendere in seria considerazione una gestione razionale delle politiche attive sul lavoro basata su questo strumento. 

Basterebbe organizzare alcune azioni scomposte in un flusso organizzato e consapevole, partendo dal nodo centrale: i fabbisogni di personale.Ebbene sì, il “nostro” mercato del lavoro ha bisogno del “loro” aiuto per continuare a essere sostenibile. Unioncamere, partner storico del Sistema Informativo sulle Professioni, ha rilevato che nel 2022 le entrate di personale immigrato previste dalle imprese sono state 922 mila (nel 2021 erano state 671mila), si evidenzia quindi un incremento notevole rispetto all’anno precedente in cui la richiesta di personale immigrato si era già riportata al di sopra dei livelli pre-covid. 

Le entrate di personale immigrato sono aumentate del 47% (+295 mila unità in valori assoluti) sul 2019. La domanda di lavoratori immigrati registra inoltre un ritmo di crescita più elevato rispetto a quello che ha interessato il totale dei contratti di assunzioni programmati (pari a +12% tra il 2019 e il 2022).

Oltre a questa osservazione, all’interno delle schede provenienti dall’indagine Excelsior, e collegate al Sistema Informativo sulle Professioni, viene misurata la difficoltà di reperimento delle singole professioni (Categorie della Classificazione CP2021). Questo significa che, per ogni Categoria, è possibile conoscere non solo il fabbisogno espresso da parte delle imprese e la relativa difficoltà di reperimento, ma anche i dati ISTAT sull’occupazione provenienti dall’indagine sulle Forze Lavoro, i dati INPS sulle retribuzioni di ingresso e i dati INAIL sulle malattie professionali e sugli infortuni (dati peraltro essenziali anche per pianificare le politiche riguiardanti la sicurezza sul lavoro). L’INAPP, inoltre, fornisce una descrizione dettagliata della professione, elencandone i compiti e le caratteristiche, che, nel caso di professioni tecniche o a elevata specializzazione, può essere integrata dai dati Almalaurea provenienti dall’indagine sulla condizione occupazionale dei laureati.

Si tratta di un ricco patrimonio pubblico,  una vera rete Linked Open Data, che non ha eguali nel resto del mondo. Per fare un esempio pratico, possiamo prendere come riferimento i falegnami. Unioncamere ci dice che c’è un’alta difficoltà di reperimento di questa professione (64%), causata per il 57,2% dalla mancanza di personale, dal 34,1% da una preparazione inadeguata e per la restante parte da altre cause. Ci dice inoltre che il numero di migranti necessari al fabbisogno, rispetto al totale delle entrate (20500), è pari al 16,8%.

L’INAPP ci dice quali compiti sarà chiamato a svolgere il lavoratore, misurandone l’importanza e la complessità.

mentre l’Istat rileva l’andamento dell’occupazione e le sue caratteristiche.

L’INPS ne  misura la retribuzione d’ingresso

e l’INAIL dettaglia approfonditamente la natura e le caratteristiche degli infortuni e della malattie professionali.

Insomma, senza dilungarmi in ulteriori descrizioni, allo stato attuale, un politico volenteroso potrebbe avere la piena consapevolezza dei fabbisogni lavorativi, complessivi e in funzione dei migranti, di quali professioni “andare a cercare”, del loro costo, dei loro rischi e dei compiti che dovrebbero svolgere i lavoratori. Inutile dire che, trattandosi di istituzioni facenti parte del Sistema Statistico Nazionale, tutti i dati garantiscono livelli di qualità elevata, rappresentatività, raccordabilità nel tempo e con le statistiche internazionali.

A questo punto, avendo scelto lo strumento da utilizzare, l’unico veramente efficace per l’attuazione di politiche serie sul lavoro, sarebbe necessario individuare le misure attraverso la quale reclutare i lavoratori nei loro paesi di origine, per “formarli a casa loro”, come sostenevo nella mia diapositiva. Queste misure si chiamano “Centri per l’impiego” e “Certificazione delle competenze”, con un’accezione più ampia rispetto a quella attuale. Per il momento, terrei da parte il mercato del lavoro riguardante le professioni – tecnicamente Unità Professionali – di livello medio-alto (contenute nei Grandi Gruppi I-II e III della CP2021), perché bisognerebbe introdurre un ulteriore livello di complicazione che riguarderebbe i percorsi di formazione e il riconoscimento dei titoli di studio, che andrebbe approfondito in una pubblicazione specialistica. Mi soffermerei quindi sulle professioni meno qualificate, riferite ai gruppi IV-V-VI-VII e VIII della CP2021.Il Sistema Nazionale di Certificazione delle Competenze, con il suo Atlante delle Professioni, seppur a mio parere scientificamente inadeguato a descrivere e regolamentare il mercato del lavoro nella sua interezza, può essere particolarmente utile ed efficace in casi circoscritti, specialmente se abbinato a interventi di formazione volti a garantire uno sbocco occupazionale concreto e a misure politiche di sostegno. Certo, un’operazione di questo tipo comporterebbe l’istituzione di Centri per l’impiego nei Paesi esteri e un lavoro diplomatico consistente per definire gli accordi e le modalità di attuazione.Poi, servirebbe una certa concretezza nella qualità delle qualificazioni certificate e dei percorsi di formazione, affinché le imprese si “fidino” di un’attestazione rilasciata dai diversi enti titolari e non subiscano l’imposizione di lavoratori inadeguati. Ci sarebbero sicuramente difficoltà burocratiche da superare, contratti e tutele da garantire e questioni logistiche da affrontare, che richiederebbero un investimento cospicuo di risorse.

Mezzo miliardo in cinque anni, per l’appunto.

Utopia? 

Certo, perché nell’epoca dei pazzi non mancano gli idioti dell’orrore.

Arcadia, l’epilogo

Posted on 18 Novembre 202418 Novembre 2024 by admin

Chi scrive sa bene quanto sia difficile dire addio a un personaggio. Un lettore quasi sempre distingue la realtà dalla fantasia, uno scrittore non può permetterselo: deve per forza confondere i due piani, se vuole essere credibile. Per questo, non basta restare in superficie a fantasticare, bisogna essere ossessionati fino alla paranoia dai propri personaggi e dalle loro storie, fondersi e confondersi con loro, fino a diventare tutt’uno. Ecco perché Frenc mi mancherà, perché con la sua storia finisce anche un pezzo della mia. Sono stato per mesi in sua compagnia, mi sono lasciato guidare dai suoi occhi, attraverso cui ho potuto narrare il mio punto di vista nei confronti dell’intelligenza artificiale. L’ ho fatto narrando ironicamente le sue vicenda, ma chi ha letto i miei libri ha trovato molti spunti di riflessione sulle questioni etiche, filosofiche e sociali che bisognerebbe porsi, prima di lanciarsi come esaltati nel vuoto della tecnica. Adesso è  arrivato il momento di dedicarsi ad altro: la storia del mio personaggio non ha più nulla da raccontare. Bisogna capire in tempo quando fermarsi, per non cadere nella tentazione di diventare stucchevoli e scontati.Mi mancherai, Frenc, mi mancheranno le tue visioni strampalate del mondo, il tuo senso di inadeguatezza, la tua autoironia, il tuo sassofono e le tue battaglie anarchiche per la libertà. Non potrò mai perderti del tutto, perché ci siamo scambiati la pelle, ci siamo intuati, come avrebbe detto Dante. Chi fosse stufo di regalare a Natale i soliti oggetti inutili, scontati o, peggio, indesiderati, quest’anno può fare un regalo che accomuni tutt’ e tre le cose contemporaneamente: la trilogia di Arcadia. Per il momento è solo su Amazon, ma chissà… forse, nel 2025 sarà possibile trovarlo in qualche libreria di periferia, perché Frenc si sarebbe tenuto alla larga da tutti i posti borghesi e altolocati. A Feltrinelli avrebbe detto άντε γαμήσου, che in greco significa… Vabbè, non lo dico perché io sono un signore e lui no.

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