Skip to content

ALESSANDROCAPEZZUOLI

Menu
  • Due parole su di me
  • I corsi
    • Impara l’arte e mettila da parte
  • I Libri
    • Dove stai guardando?
    • Arcadia, l’epilogo
    • Ridere e tacere, è questa la tua filosofia?
    • Arcadia, il ritorno
    • ARCADIA
    • Apologia di un servosterzo
    • Avrei potuto farcela
    • Sarò io che sono strano
    • Ci sono rimasto male
    • E’ andata com’è andata
    • Si è fatto tardi, devo andare
  • Racconti ironici
    • Whatsapp, storia di un errore di successo.
    • Anche questo Natale…
    • Avrei potuto farcela
    • Dentro ogni uomo innamorato si nasconde un coglione che prima o poi esce fuori
    • Certo, certo. È chiaro.
    • Io e te, aborigeno… I dati statistici e la narrativa
    • La vera storia della Palerma.
    • Le non regole funzionano meglio delle regole.
    • Natale come nessuno ha mai avuto il coraggio di raccontarlo
    • Pausa, caffè e sigaretta!
    • Uomo avirato mezzo salvato
    • Voli d’angelo e pelli di leone
  • Racconti meno ironici
    • Gli amori difficili si rimpiangono
    • Il biglietto
    • Il congresso
    • Il faro
    • Il parco
    • Il posto
    • Il treno
    • L’ombrello
    • La corsa
    • La dieta
    • La discesa
    • La pensione
    • La puttana
  • Poesie
    • Er Dirigente
    • Er Girasole
    • Me ne vado
  • Articoli e pubblicazioni
    • Migranti, formiamoli a casa loro!
    • Banalisi statistiche, la lenta agonia di un sistema in crisi
    • A.A.A Cercasi manager con le palle
    • Discrimino ergo sum
    • Dati e illusioni, il paradosso della conoscenza
    • Il Manifesto della digitalizzazione
    • Smart working, quale futuro?
    • Narrazione e falsificazione della realtà: la dura vita del social media manager
    • I dati bugiardi
    • Come difendersi dal relativismo scientifico e da un dio che gioca a dadi con l’universo.
    • Cervelli in fuga dalla caverna
    • Concorsi pubblici e competenze, tra inganno e opportunità
    • Concorsi pubblici, si cambia!
    • Cultura digitale, nuove competenze e vecchie incompetenze
    • DataSTAT Hub
    • Il dato statistico e la dinamica della pizza
    • Il mercato del lavoro e i big data
    • Io lavoro data driven, parola di Galileo Galilei
    • L’industria dei dati pubblici, il motore della riforma della PA
    • L’insostenibile leggerezza dei dati
    • La burocrazia digitale difensiva ti guarda
    • Le competenze digitali dei dipendenti pubblici
    • Le relazioni digitali (pericolose)
    • Lo Smart Working e il mito della Fata Morgana
    • Statview
    • Trasformazione Digitale, istruzioni per l’uso
    • Trasformazione digitale, trasformazione dirigenziale
Menu

Il Laboratorio

I MIEI LIBRI

GLI Articoli

Schiavi digitali

Posted on 23 Novembre 2021 by admin

I grandi cambiamenti, nella storia dell’umanità, hanno causato spesso enormi discriminazioni e hanno creato fratture profonde tra coloro i quali erano pro e colori i quali erano contro. Basti pensare all’invenzione della carta e agli innumerevoli detrattori a favore del papiro, che, pur di non cedere alla novità, hanno rallentato di molti anni il processo di trasformazione, paventando pericoli inesistenti e iatture di ogni tipo nei confronti degli utilizzatori del nuovo. In generale, il progresso tende a creare una divisione netta tra i beneficiari dei suoi lati positivi e chi ne subisce le conseguenze negative. Il benessere di una parte della popolazione è sempre compensato dallo sfruttamento di chi, per contribuire al suddetto benessere (altrui), è costretto a subire varie forme di schiavitù, diverse nella forma ma uguali nella sostanza. Poiché l’egoismo è tra gli sport sport preferiti dagli esseri umani, lo sfruttamento del lavoro altrui, la sottomissione e le vessazioni degli individui vengono spesso tollerati (anche se sarebbe più corretto scrivere “ignorati”), quando c’è di mezzo un certo status quo da mantenere. Al centro di numerosi egoismi ci sono loro, le cose. E le cose, oggi, sono legate indissolubilmente ai servizi, un po’ come è legato il WC allo sciacquone.

man hands trapped and wrapped on wrists with mobile phone cable as handcuffs in smart phone networking and communication technology addiction concept

La domanda da porsi, per capire meglio il modello di società che stiamo costruendo, è: “A cosa servono le cose, oggi?”. Domanda insidiosa, che si presta a milioni di risposte diverse, a cui proverò a rispondere, tentando di superare i pregiudizi rispetto al consumismo, che mi porterebbero a scrivere di getto “per raggiungere, attraverso il consumo, una felicità illusoria che dura il tempo di un prelievo al bancomat”. Le cose, in una società globalizzata e capitalista, non sono più associate ai fini pratici, al loro utilizzo, ma servono a dare un senso all’esistenza, a colmare vuoti, a creare appartenenza a gruppi elitari, a riempire di superficialità le insoddisfazioni e, perché no, le profonde carenze culturali in cui siamo sprofondati. Siamo continuamente alle prese con una bulimia da acquisto compulsivo che serve evidentemente a colmare una qualche mancanza. Non importa quale sia l’oggetto, non importa se serva e a cosa serva: l’importante è averlo. L’idea di “nuovo”, secondo me, serve per dare una infinitesima spinta vitale a vite sempre più spente  Non è sempre stato così, ovviamente, e per accorgersene basta guardare la vita condotta negli anni ‘70, quando gli oggetti erano fatti per durare come i progetti di vita. Non c’è nessun richiamo nostalgico in questa osservazione, si tratta di una considerazione che induce a riflettere sul ruolo delle cose nel progetto di vita dell’uomo moderno, sul legame oggetto-progetto. Diciamo che, richiamando alla memoria il buon Heidegger, gli esseri umani si distinguono dagli animali per un aspetto essenziale: la consapevolezza dell’essere attraverso l’esistenza. E l’esistenza è costituita dalle infinite possibilità di esserci, a cui ognuno dà forma attraverso un progetto di sé stesso. Sì, lo so, il concetto è un po’ difficile e anch’io mi sono dovuto rileggere due volte per capirmi meglio… In ogni caso, le cose, gli oggetti, più che un valore intrinseco, hanno il valore che gli viene attribuito dagli individui rispetto al proprio progetto esistenziale. Così, per qualcuno l’auto può essere un semplice mezzo di trasporto, per qualcun altro un simbolo da esibire per dimostrare il proprio status e per altri, i piloti, una componente fondamentale dell’esistenza. La digitalizzazione, seppur in un primo momento, con l’avvento dei primi telefoni cellulari, è stata anche sinonimo di status, adesso è diventata qualcos’altro. La digitalizzazione è essenziale per i progetti esistenziali. Lo smartphone  è diventato una presenza imprescindibile, un  surrogato della vita, un oggetto che sta sostituendo il progetto individuale heideggeriano: l’esserci, l’esistenza. La vita di un numero consistente di persone viene scandita dai ritmi digitali, che hanno creato un precedente probabilmente unico nella storia: gli oppressori sono diventati anche schiavi di loro stessi.

Ma andiamo avanti per gradi…

Pur essendo un sostenitore della digitalizzazione, e conoscendone bene le potenzialità (che ho ampiamente descritto in altri articoli), credo di averne sottovalutato le insidie: conoscerle, può aiutare a fare scelte più consapevoli. In pochi anni siamo passati da una socialità reale a una socialità virtuale, da un consumo reale, caratterizzato da un rapporto “fisico” con gli oggetti, a un consumo virtuale dalle possibilità illimitate. Rapporti umani e consumo sono diventati forme di schiavitù che coinvolgono contemporaneamente gli sfruttatori e gli sfruttati. E i dispositivi. ovviamente. La colpa, se di colpa si può parlare, è da attribuire non alla digitalizzazione ma alla sua applicazione, che ha accentuato i lati peggiori degli esseri umani: il profitto incontrollato delle numerose industrie (tech, artistiche, farmaceutiche) e il bisogno del superfluo amplificato dalla velocità con cui si propagano le informazioni, i messaggi e le azioni incontrollate, che prevalgono spesso sulle facoltà cognitive e riflessive. Così, mentre alcune sparute minoranze fuggono dalle grandi città per scandire la propria vita al ritmo della lentezza, la vita digitale viene scandita dalla velocità e dal bisogno. Basta un clic per dar seguito a un acquisto, non serve più neanche inserire la carta di credito. E  la velocità con cui si acquista un prodotto, per i venditori e per gli acquirenti, deve trasformarsi automaticamente in una consegna immediata. La velocità “virtuale” con cui viaggiano le informazioni nella rete ha indotto nelle persone un inconscio desiderio di velocità “reale” insostenibile per chi si trova a dover soddisfare un delirio simile: i lavoratori. Fattorini, magazzinieri e spedizionieri sono diventati i nuovi schiavi, costretti a ritmi insostenibili, a pause programmate, anche per andare in bagno, a contratti precari, a rischi di ogni genere e a salari inadeguati. Se è vero che queste discriminazioni sono sempre avvenute è anche vero che, dal mio punto di vista, una golosa cena all you can eat può anche essere consumata al ristorante, evitando che il viziato digitale si avvalga del fattorino che effettua le consegne pedalando sotto la pioggia. Questo tipo di schiavitù, poco attinente alla digitalizzazione, può essere fronteggiato, ammesso che si possa ragionare con le “industrie” del consumo, garantendo e pretendendo maggiori diritti per i lavoratori e condizioni di lavoro umane, affinché gli sfruttati siano un po’ meno sfruttati. Sono cambiati i mezzi, ma le modalità di sfruttamento sono rimaste le stesse: il benessere acquisito da pochi viene difficilmente spartito con gli altri. La forma di schiavitù ben più pericolosa della precedente, però, riguarda le distorsioni indotte dall’abuso degli strumenti digitali. È più pericolosa perché è l’espressione di un bisogno patologico di “esserci”, nel senso heideggeriano, senza esserci. È l’espressione di un progetto di esistenza sbiadito, mascherato, nascosto dietro un filtro che può essere una piattaforma di e-commerce, un sito pornografico, un social network o un sistema di messaggistica. È l’espressione di una voglia di protagonismo lontano dal palcoscenico, dietro le quinte. Perché per essere protagonisti è necessario esporsi, e gli strumenti digitali virtualizzano la presenza, la fisicità, le possibilità. È l’espressione del desiderio di controllo sugli altri, dell’alienazione, dello svilimento del pensiero critico a favore del pensiero veloce, quello del relativismo che ha trasformato la cultura in opinioni. Questa forma di schiavitù merita una vera e propria rivoluzione perché ha trasformato le possibilità degli individui in qualcosa di estremamente fragile e superficiale. E rende tutti tremendamente soli.

Linkedin

Articoli recenti

  • Gli spot del Sistema Professioni
  • Comunicazione istituzionale, basta marchette!
  • L’arte e l’intelligenza artificiale
  • Verità e punti di vista sui dati statistici
  • Dove stai guardando?

Archivi

  • Marzo 2025
  • Gennaio 2025
  • Novembre 2024
  • Luglio 2024
  • Marzo 2024
  • Febbraio 2024
  • Novembre 2023
  • Settembre 2023
  • Agosto 2023
  • Luglio 2023
  • Giugno 2023
  • Aprile 2023
  • Febbraio 2023
  • Gennaio 2023
  • Ottobre 2022
  • Dicembre 2021
  • Novembre 2021
  • Ottobre 2021
  • Settembre 2021
  • Luglio 2021
  • Giugno 2021
  • Maggio 2021
  • Aprile 2021
  • Marzo 2021
  • Gennaio 2021
  • Dicembre 2020
  • Novembre 2020
  • Giugno 2020
  • Maggio 2020
  • Marzo 2020
  • Febbraio 2020
  • Dicembre 2019
  • Novembre 2019
  • Ottobre 2019
  • Settembre 2019
  • Agosto 2019
  • Luglio 2019
  • Maggio 2019
  • Aprile 2019
  • Marzo 2019
  • Gennaio 2019
  • Novembre 2017
  • Giugno 2017
  • Marzo 2017
  • Dicembre 2016
  • Novembre 2016
  • Giugno 2016
  • Aprile 2016
  • Ottobre 2014
  • Giugno 2014
  • Giugno 2013
  • Settembre 2012
  • Agosto 2012

CONTATTAMi

Email:
info@alessandrocapezzuoli.it
a.capezzuoli@gmail.com

Telefono: (+39) 3498601325

Il Laboratorio

© 2025 ALESSANDROCAPEZZUOLI | Powered by Minimalist Blog WordPress Theme