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Autore: admin

Il faro

Posted on 12 Maggio 201926 Dicembre 2019 by admin

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Ci sono giorni in cui i ricordi e la malinconia hanno la meglio sulla mia ostinata razionalità. Non so se dipenda da questioni genetiche, ovvero da un dna difettoso ereditato dai miei genitori, o dalle circostanze che si accaniscono contro di me. In effetti, mia madre è sempre stata una donna euforica e piena di vita, mentre mio padre un uomo triste e malinconico: il risultato non poteva che essere un figlio bipolare, che passa dall’allegria al pianto senza motivo. Basta un alito di vento o una scena già vissuta e il respiro comincia a mancarmi. In un attimo cambio umore e vengo sopraffatto da pensieri angoscianti, riflessioni, rimpianti, nostalgie, sensazioni di vuoto e chi più ne ha più ne metta. Quando accade, non riesco a stare chiuso in casa, devo uscire. Esco e cammino per ore. Oltrepasso il porto e arrivo fino alla darsena dei pescatori. La sorpasso e raggiungo il faro. Secondo me è stato messo là apposta. Mi aspetta. Sta lì per dirmi “Dove cazzo sei stato tutto questo tempo? Vieni da me solo quando stai male, eh? Ma io sto sempre qua. Ti aspetto. Non ti mando via. Dai, racconta, che t’è successo? Ti servono risposte o domande?”. Tutti i fari sono così. Per raggiungerli, devi camminare parecchio e quando sei arrivato hai di fronte solo il mare. E dietro la strada che hai percorso. I fari sono una metafora dell’esistenza. Quando un marinaio è in mezzo alla tempesta, cerca un porto in cui mettersi al sicuro. E dove c’è un porto c’è un faro. Chi non ha mai provato cosa significhi entrare in uno specchio d’acqua piatta, dopo aver navigato in mezzo a una burrasca, non può capire cosa si provi. Il sale addosso, i nervi tesi, la paura e improvvisamente la tregua. Ci vuole qualche giorno per riprendersi da quello stato. Poi, piano piano, la burrasca perde la sua forza emotiva e diventa una storia da raccontare agli amici. Esagerando, anche. Facendo finta che sia stato un gioco. Fingendosi coraggiosi e spavaldi. Sminuendo. E quasi sempre, dopo lo scampato pericolo, torna la voglia di ripartire. Quasi sempre. Il faro è sempre là, soltanto che quando parti non segnala il posto sicuro in cui andare, ma il posto sicuro che stai lasciando e quello ignoto verso il quale sei diretto. Guardi dietro e vedi la strada che hai fatto per raggiungerlo, guardi in avanti e vedi un mare immenso, pieno di opportunità. Di insidie. Di bellezza. Un mare che promette tutto e mantiene le promesse: quiete e tempesta. Tu lo sai. Lo sai e parti lo stesso. E ogni volta, quando non sai come metterti al sicuro, ti trovi a dire “perché cazzo non sono rimasto in porto?”. Oggi non so cosa sia successo. Ho pensato per un attimo a lei, a quello che ne è stato di noi, a come ci siamo persi senza fare niente per restare, e quel pensiero, come un gomitolo di lana che cade improvvisamente a terra, ha srotolato un chilometro di altri pensieri indesiderati, alcuni belli e alcuni orrendi. Amore sprecato. Buttato via. Non apprezzato. Non custodito. Perso. Pensieri che si incastrano tra loro sempre in modo differente, per suscitare ogni volta emozioni e sentimenti diversi. Oggi il cielo è anche nuvoloso. Promette compagnia alle lacrime di qualche sfigato depresso che non vuole piangere da solo. E che posso perdermi una buona compagnia? Che poi, a dire la verità, non sono né sfigato e né depresso. Direi più che altro malinconico. Le cose non vanno così male. Sono un po’ come quella barca a vela che sta rientrando lentamente in porto col motore acceso e le vele arrotolate. Procedo con cautela e tengo le vele chiuse per non prendere più nemmeno un soffio di vento. Così non rischio di rimanere come un coglione quando il vento sparisce. Il suono del motore diesel è monotono e rassicurante. Mi ricorda mio padre e il suo gozzo. E io bambino. Sento la stessa puzza dei fumi di scarico: scommetto che quella barca monta un Renault RC18D. Gran motore, quello. Non si fermava mai, nemmeno davanti al mare incazzato. Non come me, che mi sono fermato non so quante volte e sono stato sempre impreparato a tutto. Tipo adesso, che non so dove andare e sto fermo. Perché se mi muovo son cazzi. Ho un nodo in gola e non so nemmeno perché. Forse è colpa di Guccini e della sua Canzone delle domande consuete. Le playlists casuali hanno un potere straordinario: nella mischia, scelgono sempre il brano più indicato a descrivere il momento che stai vivendo.
Tu lo sai, io lo so, quanto vanno disperse
trascinate dai giorni come piena di fiume
tante cose sembrate e credute diverse
come un prato coperto a bitume.
Rimanere cosi’ annaspare nel niente
custodire i ricordi, carezzare le eta’
e’ uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente
del diritto alla felicità
Se ci sei, cosa sei? Cosa pensi e perché?
Non lo so, non lo sai; siamo qui o lontani?
Esser tutto, un momento, ma dentro di te.
Aver tutto, ma non il domani.
Non andare… vai. Non restare… stai.
Non parlare… parlami di te.

Faccio sempre così. Cammino, ascolto la musica fin quando non capita qualcosa che mi mette malinconia. Alla fine spengo la radio, mi incazzo con me stesso e mi dico che in certi posti bisogna stare in silenzio. Ma ormai il danno è fatto. Tanto vale ripensare alla canzone e riflettere un po’.
Sono impantanato tra un presente monotono e rassicurante, un passato deludente, che continua a influenzare le mie scelte e non la smette di violentare il mio desiderio di stare bene, e lei. Il soffio di vento. Quel tarlo che ha messo di nuovo tutto in discussione. Quella che vuole stare dentro a tutti i costi. Non importa come e nemmeno perché. Quella che si ostina a dire “issa queste cazzo di vele, che si parte insieme”. E io sto qua, fermo, senza sapere cosa fare. Come sempre. Senza sapere dove andare. Con la paura di sbagliare ancora. Prigioniero di una fine che non vuole finire e di un inizio che non so se e quando inizierà. Tristezza per ciò che è finito, perché lo so che non potrà essere più niente se non un ricordo dolce, ed emozione fuori controllo per qualcosa che sta nascendo, nonostante faccia di tutto per impedirlo. Sensazione di vita irrisolta e voglia di speranza soffocata dai rimpianti. Indeciso. In perenne equilibrio tra i voglio e i non voglio, tra i faccio e i non faccio.
Mi chiedo come ho fatto a ridurmi così, ad avere paura della bellezza.
Di due occhi disarmati più dei miei.
Non è giusto. Non è giusto.
Un lampo rosso. Un saluto.
Combinazioni a cui attribuisco dei significati completamente inventati. Coincidenze. Scommesse sceme tipo “se il faro si illumina quando quella barca passa vicino a quel pescatore faccio così, altrimenti faccio colà”. Tanto lo so che non faccio niente comunque. Mi fermo. Mi dico parole rassicuranti, rispondo alle mie domande, dopo aver valutato attentamente ogni singola possibilità. Risposte inutili a domande inutili. Dico qualcosa a voce alta, per rompere il silenzio. Il vento soffia forte e si porta via le parole sospese in aria, domande e risposte comprese. Respiro. Chiudo gli occhi. Ho così bisogno di una carezza, in questo momento. Ma non c’è nessuno. Come al solito. Lascio fare al vento e alla salsedine. Resto così, a occhi chiusi. E aspetto.
– Signore? Signore, si sente bene?
Un uomo sulla settantina mi si è avvicinato e non me ne sono nemmeno accorto.
Sì, sto bene, grazie.
Rispondo con tono cortese e distaccato, mentre penso “Questo è venuto a rompere il cazzo nel momento meno opportuno. Non ce l’ho scritto in faccia che voglio stare da solo?”.
Pausa.
Silenzio.
– Bello, vero?
– Sì, è molto bello.
Vengo qua spesso, specialmente col cattivo tempo. È una specie di droga…
Tra le infinite opportunità che potevano prospettarsi, si è verificata la peggiore: un vecchio nostalgico rompicoglioni che vuole avviare una conversazione sulle condizioni meteo marine e sulla faro dipendenza. Spero si tolga presto dalle palle e mi lasci da solo. Desiderio esaudito: si allontana di qualche metro, si siede su uno scoglio e inizia ad armeggiare col telefono. E ad ascoltare musica.
Un nonno tecnologico, penso.
Tendo l’orecchio per capire cosa stia ascoltando.
Lo faccio sempre. Desiderio irrefrenabile di non farmi gli affari miei.
Dimmi che musica ascolti e ti dirò chi sei.

Scinne cu ‘mme
nfonno o mare a truva’
chillo ca nun tenimmo acca’
vieni cu mme
e accumincia a capi’
comme e’ inutile sta’ a suffri’
guarda stu mare
ca ci infonne e paure
sta cercanne e ce mpara’

Murolo.
Roba retrò da nostalgici.

ah comme se fa’
a da’ turmiento all’anema
ca vo’ vula’

Mia Martini.
Lo vedo piangere coi singhiozzi. Senza ritegno. Come chi ha perso tutto e gli rimane solo un faro e una canzone. Lacrime che scendono da sole, senza nemmeno la compagnia di quella pioggia promessa qualche ora fa.
Mi sento una merda.
Io ho ancora tutte le opportunità, lui no.
Mi avvicino, timoroso.
Vinco la resistenza di interrompere la sua sofferenza.
Chi soffre vuole stare solo, penso.
– Andiamo via. Le offro un caffè. Con questo freddo, qualcosa di caldo ci vuole.

Il posto

Posted on 14 Aprile 201926 Dicembre 2019 by admin

tempesta

In una vita qualsiasi, anche nella peggiore e disgraziata, c’è sempre qualcosa da salvare. Luisa aveva salvato quel posto sulla banchina del porto. Quando aveva tempo, e se non ce l’aveva lo trovava, andava là, si sedeva con le gambe a penzoloni, e stava ore e ore a guardare. Cosa guardava? Guardava i ricordi, fissava lo sguardo verso punti lontani alla ricerca di qualche frammento del passato.
In tutti quegli anni, mentre la vita scorreva annoiata, la gente aveva continuato a passeggiare, i colori del cielo e del mare ad assumere milioni di tonalità diverse e i gozzi di legno a rientrare lentamente in porto, borbottando al ritmo dei pigri motori diesel. Ecco perché l’aveva salvato, quel posto, perché là si sentiva sicura. C’è da chiedersi cosa ci sia di rassicurante in una banchina con la vista su uno specchio d’acqua in cui i colori dell’arcobaleno si vedono soltanto grazie alle chiazze di nafta lasciate dai pescherecci e al posto dei pesci, a nuotare, ci sono solo rifiuti galleggianti che danzano rigurgitanti per via della risacca. Degli odori, poi, è meglio non parlarne: è la direzione del vento a decidere come profumare l’aria. Aria che a volte sa di frittura di pesce, a volte di piscio e alghe, altre volte di gasolio, e solo raramente, quando il mare è mosso, sa di sale. Eppure, in quel posto lei si sentiva protetta. Tutto era familiare e prevedibilmente rassicurante. Perfino le reti dei pescatori stese al sole, che si muovevano come le lenzuola colorate messe ad asciugare fuori dalle finestre.
– Tutti i ricordi sono malinconici – pensava – se sono belli perché sono belli, se sono brutti perché sono brutti.
E in quanto a orrori, Luisa non si era fatta mancare niente. Era stata violentata dal padre, quello stesso padre che amava come un dio, a 12 anni, in una sera come tante. Una di quelle sere in cui, rientrando ubriaco e imbottito di antidepressivi, aveva perso il controllo. Il mattino seguente, lui non ricordava niente e lei si era persa. Quella violenza senza senso, quale violenza ne ha?, era stata come un biglietto gratuito per un viaggio obbligatorio e non richiesto verso l’inferno. Aveva cominciato a drogarsi. Eroina, per l’esattezza, roba pesante, che una ragazza può comprare soltanto prostituendosi. Sono due cose che vanno a braccetto, la droga e la prostituzione. Sono in simbiosi. L’una serve all’altra, l’una si nutre dell’altra. Per chi si buca, non è vero che l’eroina fa male: anzi, serve a stare meno male. Perché non drogarsi significa pensare, e pensare significa soffrire. A morte. Una sofferenza talmente profonda e tagliente che gli altri non possono capire. E quando gli uomini non capiscono, non possono salvarsi e non possono salvare. Niente parole dolci, per lei. Niente amori sognati e principi azzurri. Luisa era una “drogata di merda”. Se l’era sentito dire decine di volte, dopo una scopata veloce in un vicolo buio, da uno dei tanti animali che andavano a cercarla soltanto per appagare una fame bestiale. Mai una carezza, mai un bacio vero. Però ne era uscita. Dopo tanti anni, era riuscita salvarsi. Da sola. E aveva perdonato. tutti, anche suo padre, che ormai era morto dopo una lunga e dolorosa malattia. Andava là anche per questo, per ritrovarlo e per ritrovarsi. Perché non voleva perdere gli unici ricordi belli della sua vita. Si riconosceva tra le bambine, che stringevano le mani ai loro papà. Vedeva nei loro occhi il suo stesso amore, e provava una piccola emozione al ricordo di quando lo aspettava la sera per andare a vedere “i navoni”, quei pescherecci che rientravano dalla pesca e le sembravano enormi.
Il cielo si era fatto nero, quel pomeriggio. C’erano delle nuvole minacciose, trafitte da.qualche raggio di sole che colorava il mare di verde e d’azzurro.
– Non voglio più sforzarmi a cercare un senso alla mia vita. E’ successo, questo è tutto.
Il vento aveva iniziato a soffiare più deciso, si incanalava tra due palazzi antichi, portando con sé il sapore del sale e il profumo del sapone di marsiglia dei panni stesi.
– Tra poco pioverà e io non potrò impedirlo, come non ho potuto impedire niente di tutto quello che mi è capitato.
All’improvviso, un grido. Una bambina aveva lasciato una mano sicura ed era corsa verso il mare.
– Aiuto! E’ caduta in acqua…
Urla disperate.
– Salvatela, vi prego.
Scene isteriche.
Curiosi.
– Non si vede più.
– E’ andata a fondo.
Luisa aveva visto. Se n’era accorta prima di tutti. Le sue braccia esili, che molti anni prima erano servite solo per iniettarsi l’eroina, la tenevano stretta. Ed entrambe risalivano dal buio.

 

 

 

Il congresso

Posted on 30 Marzo 201926 Dicembre 2019 by admin

congresso della famiglia

A quel congresso, a cui avrebbero partecipato tutti i suoi colleghi, Massimo non voleva andare. O quanto meno avrebbe voluto starsene nascosto tra gli invitati, invece di fare un discorso sui valori della famiglia tradizionale e di come quell’ipocrita normalità inventata fosse l’unica possibile. Non era la persona più indicata ad “affermare, celebrare e difendere la famiglia naturale come sola unità stabile e fondamentale della società”, come recitava il volantino del congresso. Proprio lui che si era sempre sentito sbagliato e inadeguato. Sempre in colpa, fin da bambino. Proprio a causa di una famiglia normale. Normale e ignorante. E bigotta. Sempre col dito puntato, sempre con quella strana vergogna che provano i cattolici quando entrano in chiesa, preoccupati più di non commettere quei peccati inventati da persone come loro che di non essere miseri. La differenza tra sembrare perfetti e mostrarsi veri, Massimo la conosceva bene. E preferiva essere vero. La sua normalità si chiamava Federico, il compagno con cui condivideva la vita da più di vent’anni. L’amore della sua vita. L’ omosessualità, dopo aver sperimentato sulla sua pelle la bestialità della cattiveria umana, se l’era tenuta per sé, insieme alla felicità di quella relazione. Nessuno avrebbe dovuto più entrare nella sua vita. Ne aveva subite troppe, di umiliazioni. Quelle rare volte in cui aveva provato a parlarne con qualcuno, genitori inclusi, si erano ripetute patetiche scene da film trash: risatine, compatimento, allontanamento, discriminazione… C’era stato un periodo in cui malediceva il giorno di essere nato. Non riusciva a convivere con la sua identità, a volte provava addirittura schifo per quello che era. Cercava di annientarsi, pur di non essere più lui. Pur di non essere. Aveva delle lunghe cicatrici sui polsi. Stavano là, da anni, a testimoniare una personale battaglia contro la vita. Battaglia vinta.

– Quanto potere di farmi del male ho dato alle persone… sono stato proprio uno scemo.

Un sorriso sulle labbra. Quelle parole che lo avevano ferito a morte, adesso lo facevano ridere. Per un lungo periodo, non era stato più Massimo. Era il gay, l’omosessuale, il malato. Questo agli occhi di quelli buoni. I cattivi, invece, lo chiamavano frocio, culattone, checca, depravato. E i pianti si sprecavano. E la voglia di morire pure. Poi era arrivato Federico, e la sua vita si era trasformata da condanna senza fine a un dono senza confine. Era riuscito a dare un senso anche al tempo perso a disperarsi.

– È stato un modo per ingannare l’attesa, ma ne è valsa la pena.

Poveracci, pensava adesso. Non capiranno mai cos’è l’amore. Sono tutti troppo impegnati a essere normali in una normalità che si sono creati da soli. E non vedono. Non vedono di essere imprigionati dentro a una gabbia che hanno costruito con le loro mani. Gli animali nati in gabbia non hanno idea di cosa sia libertà. Di quanto sia bello sentirsi liberi. Sentirsi liberi ed essere sé stessi. Ogni tanto qualcuno ci prova, a scappare, ma sono pochi. E, di quei pochi, la gente dice “È impazzito”, “È uscito di testa”. Sono quelli che restano là, a guardare la vita passargli davanti, aspettando che si consumi, convinti di essere al sicuro. Non avendo altro di meglio da fare che vivere attraverso le vite degli altri. O meglio, non proprio attraverso le vite, attraverso l’invidia e il giudizio nei confronti di quelle vite.

– Ci vado, al convegno. Ci vado.

Non sempre è possibile rifiutare di eseguire le disposizioni di un superiore, specialmente quando il lavoro è precario e traballante.

– Se non posso rifiutare, posso eseguire a modo mio…

E Massimo si era preparato un discorso a modo suo.

– Cos’è la famiglia?

Disse, quando venne il suo turno.

– Intendo la famiglia vera, quella cattolica, quella naturale di cui discutiamo in questo convegno. È amore o razionalità? È amore o convenienza? Da quando ho ricevuto l’invito a questo congresso, non smetto di domandarmelo. Che sia una conseguenza dell’amore, non c’è dubbio. Che sia l’unica conseguenza dell’amore, mi sembra una negazione della realtà. Tra gli invitati, ci sono molte persone che conosco da anni. Alcune hanno un’amante, altre l’hanno avuta. Alcuni consumano il tempo sui siti pornografici, altri sono iscritti ad associazioni di scambisti…

– Ma che cazzo dice?

– È impazzito?

– Questo coglione!, domani si becca una lettera di richiamo.

– … altre hanno una ex moglie, una ex famiglia, una nuova ex moglie e una nuova ex famiglia. Altre sono gay, ma si vergognano. Si vergognano di amare, capito? Si vergognano di provare dei sentimenti. Sono costrette a provare vergogna per una delle cose più belle che possa accadere nella vita. Eppure sono qua, a celebrare qualcosa in cui in fondo non credono, ad applaudire i loro carnefici, a esaltare una delle tante forme d’amore di cui l’uomo è capace, fingendo che sia l’unica possibile.  Quella che alcuni uomini hanno scelto come normalità. Quella che si può mostrare senza provare vergogna. Lo hanno deciso per tutti, anche per chi non lo pensa. E hanno chiamato “naturale” ciò che in natura non esiste, per dividere, per discriminare.Per farci sentire in colpa. Come se ci fosse un amore naturale e uno innaturale. Come se l’amore avesse delle regole da seguire. E le emozioni? E l’irrazionalità? E quello che scoppia dentro due persone che si amano? L’amore che non si vede, insomma. Quello vero. Facciamo finta che non esista? Ci fa comodo far finta che non esista? A me no. A me no.Oggi celebriamo ciò che si vede e che ci fa comodo: un funerale, più che una gioia. “L’unità stabile e fondamentale della società” è quella in cui le persone non siano costrette a vergognarsi di essere quello che sono. È quella in cui l’amore non è scritto su un contratto,ma può assumere tutte le sue sfumature in qualsiasi momento della vita. “L’unità stabile e fondamentale della società” è il rispetto della libertà altrui e io sono qui per celebrare la libertà.Come.Unità.Stabile.Della.Società.

 

 

 

 

 

 

 

Il biglietto

Posted on 28 Marzo 201926 Dicembre 2019 by admin

Non andare via, resta. Quel bigliettino, scritto da Flaminia molti anni prima, saltò fuori all’improvviso e lo trafisse senza pietà. Provò un senso di vuoto profondo che lasciò subito il posto alla malinconia. Com’era arrivato a quel punto? Non lo ricordava nemmeno più, i ricordi si erano sbiaditi come i sentimenti che aveva provato per la sua ex moglie. Si erano amati, ne era certo. Si erano anche odiati, umiliati e insultati, ma dopo tanto tempo aveva dimenticato il peggio di quella relazione e cominciava a rimpiangere il meglio. Come aveva potuto mandare a puttane il suo matrimonio per una ragazzina di vent’anni e per quell’illusione di sentirsi ancora giovane?
Quel biglietto, Flaminia l’aveva scritto, disperata, per trattenerlo. La sua ultima possibilità. Pensava che Marco, aprendo la valigia, avrebbe capito e sarebbe tornato da lei. E l’aveva aspettato, i primi giorni con speranza, i mesi successivi, smarrita, tra le lacrime e le sedute dall’analista. Aveva percorso tutte le tappe del dolore: la delusione, la disperazione, l’odio, il rancore, la voglia di fargliela pagare e di vederlo soffrire. Alla fine, aveva vinto la battaglia con quell’io irrazionale che ognuno si porta dentro: non l’amava più. Provava indifferenza. A volte anche pena per quell’uomo ormai invecchiato e lontano, che non faceva più male nemmeno ai suoi ricordi. Lui il biglietto l’aveva letto, ma non era tornato. Martina era la sua seconda occasione, un amore inaspettato che l’aveva risvegliato dalla noia del matrimonio. I giorni tutti uguali si erano trasformati in una nuova primavera, che voleva vivere fino in fondo. Le scenate, le parolacce e l’aggressività iniziale di Flaminia non avevano scalfito la sua voglia di vivere e la storia con Martina. Anzi, avevano rafforzato il desiderio di allontanarsi da quella prigione, un inferno che erano riusciti a creare giorno dopo giorno, maledicendo il giorno in cui si erano incontrati. A scalfire la voglia di vivere e la nuova storia d’amore erano stati, come accade spesso, i nuovi problemi e la nuova routine, che giorno dopo giorno avevano consumato tutto. In realtà, i problemi non erano nuovi, e lui avrebbe dovuto saperlo. Quando finisce la favola e si affievoliscono le illusioni, affiorano le insoddisfazioni e le incomprensioni.
– E adesso?
Si chiese, mentre preparava un’altra valigia, l’ultima, senza sapere cosa fare. L’amore con Martina era finito. Senza drammi e scenate, stavolta. Era finito e basta. Come tutti gli amori. Strade diverse. Lei verso le opportunità che si possono vedere solo attraverso la bellezza dei trent’anni, lui, con quei cinquant’anni suonati e alle spalle tanti fallimenti, verso una strada giorno dopo giorno sempre più corta. Il biglietto era comparso nel momento giusto.
– Sarà un segno del destino? Sì, lo è. È il mio biglietto di ritorno.
Una fiammella, una piccola speranza che gli si accendeva dentro mentre riempiva la valigia.
– Mi aspetterà ancora? E se avesse accanto un altro uomo? Non importa, non importa… C’ero prima io, ci sono sempre stato. Ci siamo amati, nessuno si è amato come noi, e abbiamo diritto a una seconda possibilità.
Passavano i minuti e quella fiammella cresceva dentro. Stava diventando un fuoco, che si alimentava a ogni pensiero.
– Aspetterò che esca dall’ufficio. E se non vorrà parlarmi, mi troverà tutti i giorni qui. Ho troppe cose da dirle. C’è voluto un po’ di tempo, ma alla fine ho capito…
Ho portato via le ultime cose, non tornerò più. Abbi cura di te. Un biglietto attaccato sul frigo e un’altra fine. Poi, di corsa in macchina, il traffico, i semafori, i passanti e la voglia di arrivare presto, di fermarsi ad aspettare sotto quel portone.
E lei da quel portone era uscita, alle 18.00 in punto. Come accadeva da anni, prima e dopo di lui. Batticuore. A Marco sembrò più bella di quando l’aveva conosciuta. Non gli sembrava possibile che si fossero persi.
– L’ho lasciata per rincorrere un’illusione, ma stavolta non ci lasceremo più.
Pensava all’eternità, mentre camminava verso di lei. Felice, si sentiva felice.
Si guardarono negli occhi. Un istante, un istante per dirsi tutto quello che c’era da dire. Vicinissimi, ma ormai distanti. Nessuno dei due si fermò. Entrambi proseguirono.
Ognuno col suo dolore.
Ognuno con la sua solitudine.

d'amore, di rabbia e altri racconti
d’amore, di rabbia e altri racconti

L’ombrello

Posted on 24 Marzo 201911 Luglio 2021 by admin

racconti, narrativa, calvino, camilleri, carver

Uno spritz, il computer acceso e la sua solitudine. Da anni, Marta consumava le sere e la vita così, senza aspettarsi più nulla, senza aspettare più nessuno. Aveva imparato a convivere con sé stessa, accettando la solitudine di quei quarant’anni arrivati troppo presto e controllando insicurezze e fragilità, quintali di fragilità, grazie all’aiuto di un analista. A Riccardo, nonostante fosse in terapia da anni, mostrava sempre il suo lato ironico; non voleva fare la parte della femminuccia piagnucolosa. E lui stava al gioco, ma ogni tanto affondava il coltello in quelle ferite che ormai non facevano più nemmeno tanto male. In fin dei conti, non aveva niente di diverso rispetto a quei milioni di persone, che vanno avanti senza fare troppe storie: qualche amore finito tra urla e pianti, un lavoro poco soddisfacente, il fisico che cominciava a modificarsi, ma, soprattutto, l’incapacità di vivere pienamente la quotidianità e di apprezzare i brevi istanti di felicità. Quando capitano, non dopo. Il presente di Marta si era trasformato nel rimpianto continuo del passato. La felicità, diceva a Riccardo, non è qualcosa che accade, è il rimpianto di qualcosa accaduto che non si può più avere indietro.
– La felicità è una gran fregatura, te ne accorgi solo dopo che l’hai vissuta, e non puoi far altro che rimpiangerla. Per conoscerla, devi perderla, e non si può dire che il ricordo di essere stati felici sia una cosa allegra.
Lui articolava grandi teorie, citava Jung e la fioritura dell’anima come l’unica strada possibile per raggiungere la felicità. Lo faceva con distaccata professionalità, mentendo anche a sé stesso perché, in fondo, quella strada non l’aveva mai trovata nemmeno lui, nonostante avesse indicazioni precise. Le sedute ormai erano diventate un appuntamento fisso, un caffè con un amico, che spesso non chiedeva nemmeno la parcella. Marta era stata per lui contemporaneamente un successo e un fallimento professionale. Da una parte era riuscito a salvarla dal baratro della depressione, dall’altro non era riuscito a evitare che si ritrovasse spesso a camminare ancora sul bordo del baratro. Sei il perno e la buccia di banana della tua esistenza, gli diceva spesso.
E lei sorrideva, dissimulava, faceva qualche battuta fino a quando non riusciva a strappare una risata anche a lui.
– Dovrei farti pagare io, le sedute, con tutte le risate che ti faccio fare…
Alcune sere, sentiva un dolore sottile, famigliare, che l’accompagnava senza fare troppo male, come il mal di schiena che si prova a una certa età, ormai conosciuto e accettato con rassegnazione. Altre volte il dolore era lancinante, gli mancava l’aria, si sentiva oppressa, insoddisfatta, fallita. Le sembrava tutto inutile; mangiare, dormire, respirare, anche parlare e sfogarsi con le amiche, persone ormai distanti anni luce, che vivevano nella mediocrità rassicurante delle loro famiglie. Quella sera si era sentita così, perduta. Lo spritz era rimasto intatto nel bicchiere, il computer fisso su una pagina piena di numeri e lei era uscita.
Senza meta.
Vagabonda e disperata.
Faceva i conti, piangeva e rimpiangeva quella felicità che aveva toccato per pochi istanti. Un bacio, il sole primaverile, il profumo di caffè nella nuova casa, le carezze di un papà che non c’era più e a cui non aveva fatto in tempo a dire ti voglio bene. Perché se l’era tenuto dentro fino alla fine. Perché non voleva fargli vedere che insieme a lui stava morendo anche lei. Tutto era ormai lontano e irraggiungibile. Il mondo intorno era cambiato, lei era cambiata, anche se il caffè continuava ad avere sempre lo stesso profumo e il sole continuava a splendere. Marta non splendeva più, marciava a fari spenti.
Pioveva, quella sera.
Pioveva forte.
Scrosci d’acqua.
Diluvio di pensieri.
Niente ombrello, andava troppo di fretta.
Doveva uscire da quella prigione, sapendo bene che la vera prigione, quella da cui non sarebbe mai uscita, era dentro di lei.
Non mi abituerò mai alla pioggia, mi coglie sempre di sorpresa. So che pioverà, ma mi stupisco che venga a piovere. Come quando succede qualcosa di brutto che avevo previsto, ma che non riesco a evitare. E non ho mai l’ombrello.
Vuoto. Anima gelata.
Le strade deserte erano riempite soltanto dal rumore di qualche auto o da un televisore col volume troppo alto. Una sagoma in lontananza e un attimo di paura. A chi verrebbe in mente di uscire a far del male a qualcuno, con questo tempo?, pensò.
– Riccardo, che ci fai qui?
– Ti ho chiamato e non hai risposto…
– …
– Sei senza ombrello, e quando piove un ombrello ci vuole.

Il parco

Posted on 19 Marzo 201926 Dicembre 2019 by admin

racconti, racconti brevi, narrativa, libri, alessandro capezzuoli

Il parco è un posto in cui non aspettarsi nulla, a parte lo scorrere del tempo. Per chi, come Fulvio, provava quel dolore intenso e profondo che solo il male di vivere sa infliggere, il parco era una specie di rifugio. I piccoli gesti, le mamme che spingono le carrozzine, la gente che fa sport e i bambini che gridano e giocano a calcio, lo rassicuravano. Una vita tranquilla è possibile, pensava.
Contro il dolore fisico c’è sempre una soluzione, contro il mio dolore no.
A volte capita, nella vita, di sentirsi inadeguati all’esistenza, e Fulvio si sentiva profondamente inadeguato. Inadeguato a confrontarsi con gli altri, inadeguato alla superficialità, inadeguato al divertimento e alla morale del suo tempo e del suo paese. Inadeguato perfino all’amore. La sua situazione si era irrimediabilmente complicata a causa di Paola. Si erano conosciuti casualmente durante un viaggio di lavoro, avevano scambiato qualche messaggio, poi lunghe chiacchierate in un piccolo bar di provincia. Le chiacchiere, inizialmente professionali e distanti, erano diventate sempre più intime e confidenziali, e alla fine si erano innamorati. Tra loro funzionava tutto alla perfezione, una specie di armonia perfetta delle anime e dei corpi. Piccolo particolare: erano entrambi sposati. Lui con un’altra, lei con un altro. Avevano entrambi dei figli e non erano nemmeno più tanto giovani. Come fare? C’era una soluzione? Le avevano analizzate tutte, una per una, valutando le possibili conseguenze di questa o di quell’altra scelta. Compreso l’eventuale dolore dei rispettivi compagni a cui erano affezionati. L’amore no, avevano capito che amarsi significava altro. Ogni soluzione, ogni ragionamento, era una specie di partita a ping pong, una sfida, in cui la pallina rimbalzava tra l’amore e la morale. Non era possibile che le due cose stessero dalla stessa parte. E la morale, si sa, vince spesso sull’amore. Nella morale ci sono le responsabilità, i cosa dirà la gente, le sofferenze dei figli, i se e i ma delle famiglie, i sensi di colpa e tutte quelle cose che sono state create dall’uomo per rendersi infelice.Sentirsi in colpa per amore è la condanna peggiore che si possa infliggere a un uomo. Nella morale non c’è mai niente di vero e, soprattutto, non c’è mai niente di morale. È una strada senza uscita, è routine da dare in pasto ai robot. È la giustificazione degli inetti, di chi non pensa, di chi giustifica anche i peggiori fallimenti con quelle frasi rassegnate tipo “è sempre stato così”.
– Non capisco perché devo scegliere. Perché?, cazzo! Perché devo scegliere tra l’amore che provo per Paola, l’amore per i miei figli e l’affetto nei confronti di Laura? Perché a Laura voglio bene, questo è certo. Non l’amo, forse non l’ho mai amata, ma le voglio un gran bene e vederla soffrire mi fa stare male. Chi ha deciso che deve andare così? Io no di certo, semmai questa società di merda in cui sono costretto a vivere. Vorrei stare lontano, in un posto dove gli esseri umani non siano costretti ad amarsi uno per volta. Come se l’amore si potesse applicare alle persone, seguendo una regola precisa. Il teorema di pitagora. Due cateti e come risultato sempre la stessa ipotenusa. Soltanto che qua a 90° sono piegato solo io, con tutto ciò che ne consegue…

Un sorriso gli spuntò sulle labbra: magra consolazione di un’ironia che ormai aveva perso. Continuò il suo pensiero.

– Una regola, una stupida regola. Come se esistesse una sola forma d’amore e non miliardi di sfumature.
Basta!, ho deciso: stasera parlo con Laura.
Però, i bambini… che pena! E lei? Soffrirà, lo so…
Domani dico a Paola che è finita, che non possiamo andare avanti così. Lo faccio anche per lei, per non vederla più piangere. O forse è meglio aspettare, col tempo le cose cambieranno, ci saranno le i condizioni per…
Certo, aspettare, aspettare che I figli crescano, ma noi saremo più vecchi e stanchi. Lo siamo già adesso, figuriamoci tra vent’anni.

Il sole era tramontato da un po’.
Fulvio aveva passato l’intero pomeriggio immerso nei suoi pensieri.
Senza una soluzione.
Senza una speranza.
Si alzò e andò via.

La puttana

Posted on 16 Marzo 201926 Dicembre 2019 by admin

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Puttana è stata la prima parola che Amina ha imparato appena arrivata in Italia. All’inizio pensava fosse un complimento. Forse perché il suono somigliava a putera, che in Sudan significa principessa. Ciao principessa, così l’aveva salutata suo padre, prima che partisse per sempre dal suo paese. Aveva venduto i suoi terreni, e avrebbe venduto anche i suoi organi, per dare alla figlia la vita che lui non aveva avuto. In Italia starai al sicuro, le diceva. Là non c’è la guerra, potrai trovare un lavoro e avere una vita normale. Aveva sentito parlare di un paese in cui c’era posto. Il paese degli ultimi. Un posto in cui vivere senza rinunciare alla propria cultura, anzi, vivendo grazie a quella. Gli abitanti, povera gente del Sud, anziani che ormai avevano perso le speranze, li accoglievano. Si sentivano più giovani. Migliori. Il paese era tornato a vivere, era diventato di nuovo bello. Un posto in cui restare, non da cui partire. In ogni vicolo si sentiva una musica diversa, lontana, suoni nuovi che non erano italiani, ma erano belli, vivi. Ricordavano il mare e il deserto. Le donne indossavano vestiti colorati, forse per nascondere gli orrori vissuti; una pennellata di felicità sulla porta di un armadio pieno di dolori. Perché quella era la loro nuova vita e nessuno poteva più sporcarla. Per le strade si ballava. E si rideva.
Senza barriere.
Senza confini.
Senza paura.
Tutti insieme.
Ognuno aiutava come poteva. C’era chi sistemava le case abbandonate dai migranti calabresi affinché potessero accogliere altri disperati, più disperati di quelli che erano partiti, e chi aveva imparato a fare il caciocavallo. Chi raccoglieva i rifiuti, facendosi aiutare da un mulo, perché i i mezzi di raccolta erano troppo grandi per passare in quei vicoli stretti, e chi accudiva gli anziani abbandonati dai figli, ma non dai migranti. C’erano uomini, giovani e vecchi, che giocavano a carte nei bar e bevevano vino, e donne che si confidavano segreti come bambine. C’erano storie d’amore e di morte, ricordi lontani e qualcuno da rimpiangere. Era lì che Amina voleva andare. Era quella l’Italia che immaginava. Dolce e accogliente. E lei, con i suoi sedici anni, aveva avuto una fiducia infinita nei racconti del padre. Nella valigia aveva messo la pagella, perché non si sa mai, può sempre servire per dimostrare chi sei e quanto puoi essere utile agli altri, il libro Piccole donne e qualche vestito. Tranne quello buono, che aveva indossato prima di partire per fare bella figura e per nascondere la sua povertà. La prima violenza, cruda, bestiale, l’aveva subita prima di imbarcarsi. Era stata violentata da tre animali che avevano già incassato i soldi del viaggio, ma volevano prendersi gli interessi senza chiedere il permesso. Era rimasta a terra sanguinante e se non si fosse alzata per raggiungere il barcone sarebbe rimasta là. Nessuno si era intromesso, nessuno l’aveva aiutata. Erano tutti troppo impauriti, ognuno col suo carico di dolore a cui pensare, e non volevano avere altri problemi. Che l’indifferenza al dolore e la paura degli altri fossero un problema, invece, l’avrebbero imparato nel peggiore dei modi: subendo lo stesso trattamento da parte degli italiani. Indifferenza al loro dolore e paura della diversità. Da anni, le falsità raccontate dal Ministro dell’interno e dell’odio avevano dato i loro frutti malati: le persone si erano lasciata riempire di paure e di menzogne con la stessa inerzia di un tacchino a cui viene tagliata la testa per farlo ripieno. Ormai erano convinte che la causa della loro povertà fossero i più poveri e non i più ricchi. E che la soluzione alla povertà fosse una questione di egoismo e non di condivisione.Brutta cosa, la politica. D’altronde, ogni notiziario era diventato un manifesto della paura, venivano sbandierate invasioni inesistenti, numeri inventati di sana pianta, pericoli di ogni genere, furti di soldi e di identità nazionali: cos’altro può fare una persona, in preda al terrore e incapace a guardare la realtà, se non odiare con tutto il marcio che ha dentro chi in realtà sta peggio? Il prezzo di quella politica scellerata, che aveva distrutto la parte migliore degli italiani, il ministro l’avrebbe pagato caro qualche tempo dopo. Perché c’è sempre un preciso momento, nella storia, in cui l’odio avvelena chi l’ha seminato. Amina in quel paese non c’è mai arrivata: è stata comprata, venduta, stuprata, umiliata, rivenduta e ricomprata. Tante, troppe volte. Puttana, le diceva la gente. Puttana, le urlavano e quei clienti violenti che a volte la picchiavano; belve assetate di quell’amore che non sarà mai amore. E lei, tra le lacrime, pensava al suo paese e a suo padre, che da bambina le diceva che l’amore avrebbe salvato gli uomini. E pensava a quell’ultimo saluto: ciao putera, ciao principessa.

La pensione

Posted on 16 Marzo 201926 Dicembre 2019 by admin

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Ama il potere come te stesso, questo è stato per quarant’anni l’unico comandamento della religione di Fabio Duranti. Una religione che, a dire la verità, trova da sempre un ampio numero di fedeli. Il potere, non il lavoro: la differenza è sostanziale. Se si fosse dedicato anima e corpo a un lavoro appassionante, forse sarebbe riuscito a dare un senso alla sua vita. Invece, in quell’ultimo giorno di lavoro, non riusciva a vedersi in un altro posto che non fosse il suo ufficio all’ultimo piano del Ministero dell’Economia. Temporeggiava, metteva negli scatoloni ricordi inutili, che sarebbero rimasti chiusi là dentro per l’eternità e non avrebbero alleviato quell’angoscia che si impossessa immediatamente dei pensionati appena mettono il naso fuori dall’ufficio. L’attimo prima e quello dopo il pensionamento spezzano l’uomo in due. Dividono il suo senso di utilità dal disagio dell’inutilità, la partecipazione dall’isolamento, le aspettative dalla rassegnazione. Fino al momento dei saluti ti senti parte di un mondo, dopo diventi un estraneo. Ti ritrovi solo, con troppo tempo disponibile e pochi modi per riempirlo. Smarrito come Pollicino nel bosco, con una sensazione di vuoto simile a quella che si prova dopo aver scartato i regali di Natale, a causa della consapevolezza di aver consumato non la festa ma la sua attesa. Le parole di Fabio, che risuonavano come ordini perentori per i corridoi del ministero, sì erano sgonfiate negli ultimi mesi: ormai non incuteva più timore quasi a nessuno. Non pensava che sarebbe toccato anche a lui, rifiutava l’idea. Il potere è per sempre, pensava. Dare ordini, questa era la sua fissazione. Giusti o sbagliati che fossero. Anzi, più le sue decisioni erano ingiuste, più umilianti erano le conseguenze, e più si sentiva onnipotente. Come quella volta in cui riuscì a obbligare i dipendenti a prendere dei giorni di ferie forzate in prossimità delle feste comandate, facendo credere ai superiori che si trattasse di una misura necessaria per risparmiare. Il risparmio era quasi pari a zero, ma il piacere che provava in quell’esercizio di prepotenza era immenso. Il risultato fu duplice: da una parte la rivolta dei dipendenti e dall’altra le lodi dei superiori. Che tradotto nel suo linguaggio significava colmare i sensi di inferiorità di cui soffriva da sempre e mettere un altro mattoncino per arrivare a far parte della schiera dei superiori. Quel ricordo, per un momento, lo fece sentire soddisfatto di sé: lui era diventato un “superiore”. Di cosa e di chi non aveva importanza, la cosa importante era avercela fatta, aver scalato tutti i gradini della carriera. La ragione della sua esistenza era tutta in quel ruolo: direttore generale. Il senso del dovere l’aveva sostituito da subito col senso del potere e nessuno si era potuto sottrarre alla realtà che lui aveva deciso di raccontare agli altri. Rispetto di regole assurde, colpi bassi e meschinità varie erano entrate anche nelle vene anche dell’ultimo usciere. Costruendo una realtà distorta, aveva intossicato l’ambiente giorno dopo giorno, subdolamente, come chi avvelena l’acqua con l’obiettivo di avvelenare le persone. L’ultimo provvedimento che aveva firmato avrebbe preso forma l’indomani, attraverso la nomina del successore: l’unico che era rimasto fedele. Si sentiva orgoglioso di essere stato duro e spietato fino alla fine.
– È stato stronzo fino alla fine.
– La nomina di Marchetti se la poteva risparmiare. D’altronde, dopo anni di scelte a cazzo, non poteva che terminare in bellezza.
– Poi, proprio Marchetti, che ne ha dette sempre peste e corna. È arrivato perfino a dire che si scopava la moglie… lo chiamava l’impotente prepotente.
– Fatti loro, io so solo che non sono riuscito nemmeno a fare un misero passaggio di fascia e lui avrà una pensione coi fiocchi.
– Ci mancava pure la pagliacciata della festa di pensionamento: me la risparmierei volentieri.
– Dai, scendiamo, ci sarà anche Marchetti, che è più stronzo di lui: se non vede che ci siamo anche noi chissà che pensa.
In una sala enorme, tristemente addobbata con qualche decorazione, si era creato un viavai di persone che mangiavano un tramezzino, scambiavano qualche parola e salutavano, alcune timidamente, altre con rancore, il direttore uscente e, soprattutto, quello entrante.
Poi fu il momento del discorso.
– È con immenso dispiacere che…
Il dispiacere è solo suo, pensava la platea annoiata.
In meno di un’ora era tutto finito: il personale era tornato ad occupare le stanze e lui era uscito per sempre da quell’edificio, portando via due scatole di cartone e un senso di sconfitta che non aveva mai provato prima. Non aveva più nessuna scadenza, niente di urgente da firmare e nessuna questione essenziale da risolvere: tutto ciò che riteneva l’essenziale era alle sue spalle, nelle stanze anonime dell’edificio che, dopo aver girato l’angolo, non vedeva già più.
Non c’erano più scuse.
Non poteva più rimandare.
Non poteva più raccontare e raccontarsi false verità, come aveva fatto per anni, avvelenando gli altri e sé stesso, in cerca di una ragione o di una scusa che desse senso alla sua esistenza. Le scuse erano tutte in quelle scatole piene di vuoti. Doveva fare i conti con quello che non era mai stato e cominciare a essere. Ed era difficilissimo.

Alessandro Capezzuoli

La corsa

Posted on 16 Marzo 201926 Dicembre 2019 by admin

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Corri, corri come se non dovessi fermarti mai. Corri, corri come se non ci fosse un domani. Corri, qualsiasi cosa accada. E non rallentare, nemmeno se senti che ti scoppia il cuore. Un decimo di secondo perso è una gara persa, e tu non devi perdere. Tu sei nata per correre, ragazza. E per vincere.

Ogni volta che si fermava a guardare quei trofei, Emma pensava alle parole del suo allenatore. Aveva iniziato l’atletica leggera per dispetto, perché le sorelle erano iscritte entrambe a un corso di danza classica e a lei quei balletti sembravano ridicoli. Roba da femminucce, pensava. Gli allenamenti, invece, erano durissimi. Correva col sole e con la pioggia; quando i suoi compagni uscivano da scuola per consumare il pomeriggio davanti alla televisione, lei andava ad allenarsi. E le parole del suo allenatore, giorno dopo giorno, le erano entrate dentro. Le soddisfazioni se le era tolte a colpi di vittorie, complimenti e articoli di giornale. Nel frattempo, però, la vita le era corsa accanto. Quanto e più di lei. Senza che se ne accorgesse. Emma era nata per correre, o l’avevano convinta che fosse così. Le gare, quelle maledette gare, che un bambino dovrebbe vivere come un gioco, per lei erano diventate un’ossessione. La competizione con gli altri l’aveva estesa non solo all’atletica, ma a ogni aspetto della vita. I rapporti umani, i sentimenti, i piccoli traguardi di tutti i giorni: in ogni cosa c’era un obiettivo da raggiungere, un avversario da sconfiggere e una medaglia da vincere. Senza fermarsi. Corri, corri come se non dovessi fermarti mai. Corri sotto al diluvio e sotto al sole cocente. Era diventata forte, Emma. Forse troppo. Il suo carattere si era indurito come la pianta dei suoi piedi. Sacrificio. Impegno. Rabbia. Vittoria. E poi di nuovo a correre e ad allenarsi, per aggiungere una medaglia e un articolo di giornale alla carriera. Bulimica di successi. Ogni vittoria le creava un senso di vuoto profondo, un’insoddisfazione che riusciva a colmare soltanto correndo. Fame, nausea. E poi ancora fame e ancora nausea. Vomito.

Gli obiettivi, i grandi obiettivi che vedeva in lontananza, il matrimonio, la casa, la famiglia, li aveva rincorsi con la stessa rabbia e lo stesso spirito di sacrificio. Li aveva raggiunti, quegli obiettivi, ma aveva un marito che non amava, una casa acquistata per avere un posto qualsiasi in cui stare e una profonda insoddisfazione, che a sessant’anni non avrebbe più potuto colmare. Avrebbe dovuto fermarsi, altro che correre. La vita aveva regalato anche a lei attimi di felicità, attimi che non era riuscita ad assaporare e che non sarebbero più tornati. Aveva avuto carezze dolci da un uomo che ormai non c’era più. C’erano stati raggi di sole, panini in riva al mare e accenni di batticuore messi a tacere dalla razionalità. Nei ricordi, un diluvio di vita non vissuta. Persa. Lasciata scorrere in attesa di qualcosa che non sarebbe arrivato mai. Gli obiettivi, quei maledetti obiettivi da raggiungere, le avevano rovinato degli istanti di bellezza, che avrebbe dovuto sorseggiare lentamente come un cioccolato caldo durante un inverno gelido. Il viaggio, conta il viaggio, non la meta. Adesso l’aveva capito. Adesso era tardi. La gara più importante, quella che ognuno fa con sé stesso, l’aveva persa.

 

Il treno

Posted on 16 Marzo 201911 Luglio 2021 by admin

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Il treno delle 7,27 arriva sempre in orario. È così preciso che potrebbe essere preso come riferimento per regolare gli orologi. Gli orari dei treni della tratta Roma- Orte ormai li conosco a memoria. Anche i volti dei passeggeri sono diventati familiari. Con qualcuno, a volte, scambio un cenno di saluto. Non un saluto vero e proprio, più una smorfia, un movimento del viso, che sta a significare “ciao, sono qua anche stamattina, buona giornata”. Dopo tanti anni, riesco a prevedere pure  i ritardi. L’unico treno che non ritarda mai è quello delle 7,27, quello che prende Elena per andare all’università. Se per qualche motivo non riesce a prenderlo, è la fine. Gli altri non rispettano la precisione che promettono negli opuscoli. D’altronde, chi è che rispetta quello che promette? In pochi. In pochi…
Oggi sono in anticipo di venti minuti. Pazienza, mi siedo qui e l’aspetto, tanto non ho fretta. Aspettare non costa niente. Certo, vedendo tutta questa gente che va di corsa, qualche dubbio mi viene… oggi avere tempo per aspettare qualcuno è un lusso. Chissà dove vanno, tutti. E perché corrono. Se avere tempo per aspettare è un lusso, non averlo cos’è? E’ la miseria, secondo me. La mancanza di tempo l’ho sempre associata alla mancanza di libertà. Se non posso decidere come spendere il mio tempo, non sono libero. E’ una ricchezza, il tempo. Forse per questo si dice “spendere il tempo”, perché averlo a disposizione è difficile e prezioso.
Io il tempo ce l’ho.
Sono ricco.
E aspetto.
E spendo il mio tempo qua, su una panchina fredda, solo per vederla scendere da quel treno. Quanto è bella. La riconosco subito, in mezzo alla folla. Ieri indossava un vestito a fiori che mi piace da morire. Ha detto che lo mette soltanto per me. Mentre camminava tra la gente, avevo paura che qualcuno vedesse la stessa bellezza che vedevo io e me la portasse via.
È stata il mio primo amore, Elena.
L’unico.
Oggi voglio portarla a pranzo fuori: al diavolo gli impegni.
Appena la vedo glielo dico: oggi ci prendiamo una giornata tutta per noi!
Dal treno delle 7,27 non è scesa.
Avrà fatto tardi.
Ma io aspetto. Sono un po’ stanco, ma l’aspetto.
Il tempo per aspettare io ce l’ho.
Ho dormito poco, mi sa che chiudo gli occhi per riposare dieci minuti.

– Amerigo! Amerigo, mi senti? Amerigo, rispondi! Rispondi, cazzo!

– Che è successo?

– Si è sentito male?

– Aria, fate aria. Chiamate un’ambulanza e lasciatelo respirare.

– Chi si è sentito male?

– Boh, forse un passeggero.

– Ma no, è Amerigo, un barbone.

– Non è un barbone, è il poeta della stazione Termini: da quarant’anni viene qua tutte le mattine e aspetta.

– Aspetta sempre lo stesso  treno e qualcuno che non è mai arrivato.

– Fate silenzio! Zitti! Amerigo sta morendo…

– Ma chi è quello che sbraita tanto?

– Forse è un amico.

– No, è il giornalaio.

– Si vede che lo conosceva…

– Perché i soccorsi non arrivano?

– Capirai, nell’ora di punta, arrivare qua è un’impresa…

– Largo, fate largo…

– È grave?

– Respira?

– Shhh, gli stanno facendo il massaggio cardiaco.

– Non si muove.

– È morto.

– I medici sono arrivati troppo tardi.

– In certi casi il tempo è fondamentale.

– Era malato di cuore e nessuno lo sapeva.

 Alessandro Capezzuoli

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