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Smart working, quale futuro?

Posted on 22 Ottobre 2021 by admin

L’opinione è uno dei mali peggiori che affligge la cultura moderna. Per costruire un’opinione, non serve nessun talento: basta leggere superficialmente qualche notizia e trarre conclusioni affrettate e imprecise. Per costruire una cultura, invece, è necessario studiare un argomento in profondità. Per costruire una cultura collettiva, oltre a una buona dose di pazienza e di utopia, occorrono tempo e condivisione. Il diritto all’opinione è diventato sacro, talmente sacro da lasciare poco spazio alla cultura. L’Italia ormai è un Paese basato sulle opinioni; ovunque è pieno di opinionisti da bar, esperti all’occorrenza di virus e di fisica nucleare, che tendono a ridicolizzare, o, peggio, a banalizzare qualsiasi concetto richieda un’analisi approfondita Si potrebbe dire che la professione attualmente più diffusa sia l’Esperto di opinioni. Recentemente, mi sono imbattuto in un articolo scritto da un sociologo, che rimproverava uno storico per aver fatto riferimento a dei “non meglio precisati fatti storici”. Lo storico in questione era Alessandro Barbero, uno che di storia… come dire… ha dimostrato di saperne qualcosina. Sicuramente ne sapeva più dell’opinionista in questione. Lo smart working, al pari di numerosi altri temi che ho trattato in passato, non fa eccezione: sono bastati pochi mesi per costruire milioni di esperti di lavoro agile e di organizzazione del lavoro, che in realtà ne sanno ben poco, ma dispensano consigli e pareri. Esperti che sono passati da anni e anni di lavoro dietro alla scrivania alla formulazione di teorie sullo smart working. L’emergenza sanitaria ha dato una forte spinta verso lo smart working, ma, paradossalmente, ha anche dato una forte spinta verso il ritorno in presenza. Semplicemente perché la tipologia di lavoro attuata in questi mesi non è stata affatto smart; si è trattato perlopiù di un telelavoro, spesso disorganizzato e attuato con mezzi di fortuna, attraverso il quale è stato possibile proseguire numerose attività, spostando di fatto la postazione lavorativa dall’ufficio alle case dei dipendenti. Eravamo pronti? Forse. Sicuramente non lo erano tutti i lavoratori e non con quel metodo. C’è da dire, però, che il lavoro pubblico è rimasto imbalsamato per decenni in un regime di telelavoro assistenziale, da cui avrebbe dovuto trarre insegnamento, dispensato sulla base delle graduatorie, delle disgrazie e dei favoritismi. Poi c’è stato (e c’è) il POLA, che avrebbe dovuto dare una spinta verso l’attuazione del lavoro agile. Insomma, sulla carta avremmo dovuto essere pronti da un pezzo, nei fatti, in molti casi, siamo stati colti di sorpresa e abbiamo improvvisato soluzioni di fortuna. Il Ministro per la Funzione Pubblica, in una recente intervista, ha definito il telelavoro emergenziale come “lavoro a domicilio all’italiana”: si tratta, a parer mio, di un’opinione spericolata simile a quella del sociologo citato all’inizio dell’articolo..Ci sono centinaia di  numerosi esempi virtuosi che hanno dimostrato palesemente l’efficacia di questo “prototipo” di lavoro agile, e che, seppur tra numerose contraddizioni, ha migliorato l’organizzazione del lavoro e la produttività in molte istituzioni. Uno  scenario simile, meriterebbe una forte accelerazione, perché è evidente che non cambiare adesso significherebbe non cambiare più. E a dover cambiare non è soltanto lo svolgimento della prestazione lavorativa; è il consumo delle risorse, è la spesa pubblica, è il modo di vivere le grandi città, è il modo di spendere il tempo e di spendere il denaro, è l’economia delle periferie e dei piccoli centri. Lo smart working porta con sé una serie di ricadute positive sulla collettività che non possono essere ignorate.

Prima di addentrarci nei nodi irrisolti, che giustamente devono essere affrontati e migliorati, è utile richiamare brevemente i pilastri fondanti della filosofia smart. Filosofia tutt’altro che attuale, dal momento che risale addirittura agli anni ‘70. Diciamo subito che lo smart working non è una modalità di erogazione della prestazione lavorativa, è un modello organizzativo della società in cui il benessere dell’individuo, inteso come parte integrante della collettività, prevale sulla sofferenza lavorativa, e conseguentemente esistenziale, del lavoratore. Proprio perché un lavoratore fa parte della collettività, il benessere dei singoli individui, attraverso lo smart working, diventa benessere collettivo. In altre parole, favorire il benessere dei lavoratori significa favorire il lavoro. Questo concetto semplice semplice è difficile da far digerire all’opinione pubblica, che, da sempre, preferisce sadicamente un lavoratore vessato e sofferente. Il bene più prezioso che hanno gli esseri umani, benché si cerchi continuamente di dimostrare il contrario, non è il denaro bensì il tempo. Lo smart working consente ai lavoratori di spendere il tempo nel modo migliore possibile (e di continuare a spendere il denaro nel modo peggiore possibile). Cosa è accaduto in questi mesi di emergenza? È accaduto un fenomeno che probabilmente, tra qualche anno, verrà studiato sui libri di storia: il malessere collettivo ha prevalso su qualsiasi forma di benessere individuale. Il tempo a disposizione è stato più che altro una collezione di minuti tutti uguali, di confinamenti, di momenti di paura e di interminabili comunicati televisivi in cui i temi principali erano la morte e il terrore. La collettività è stata disgregata e la diffidenza verso il prossimo ha prevalso sulla fiducia. Il prossimo è diventato potenzialmente pericoloso per la salute pubblica e i comportamenti altrui, anche i più innocui, sono diventati lesivi per la collettività. Questa evidenza è sempre stata sotto gli occhi di tutti: guidare in modo spericolato o sversare rifiuti tossici nelle falde acquifere è una colpa ben più grave rispetto a una corsetta senza mascherina. Eppure il sentimento di diffidenza verso il prossimo alimentato dalla pandemia ha prevalso sul buon senso ed è tuttora dilagante.Sfiducia, teniamo a mente questa parola. Venendo meno il tempo e il benessere, il lavoro agile ha perso la sua natura: più che lavoro a domicilio è diventato jail working, una specie di reclusione lavorativa che non c’entra nulla con l’idea originaria. E su questo il Ministro Brunetta non ha torto: il lavoro agile ha bisogno di un’organizzazione diversa. Ha torto quando sostiene (o fa finta di sostenere) che i lavoratori pubblici, tutti, indiscriminatamente, hanno goduto di un imprecisato lungo periodo di benessere e per questo devono tornare a soffrire in ufficio. Questo atteggiamento induce a sospettare che l’oggetto del contendere non sia la prestazione lavorativa ma una specie di questione personale tra il Ministro e i lavoratori pubblici. Certo, probabilmente ci saranno state minoranze di lavoratori che hanno approfittato del momento per tirare i remi in barca, ma a chi verrebbe in mente di incendiare una casa per togliere di mezzo un formicaio?  Ci sono degli aspetti da migliorare, è vero, ma bisogna ripartire proprio da queste evidenze, per gettare le basi di un’organizzazione del lavoro diversa. In primo luogo è necessario superare la sfiducia collettiva. Lo smart working si basa su un patto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore, decadendo la fiducia, decade anche il principio fondante dell’accordo. I cittadini sono sfiduciati, divisi, hanno rancori e malcontenti, spesso giustificati dalla perdita del lavoro, che riversano in modo indiscriminato su coloro i quali stanno meno peggio. Dar seguito a questo sentimento, accontentare l’opinione pubblica, sarebbe come incendiare la casa per accontentare gli inquilini con la fobia per le formiche. Il dipendente pubblico è da sempre un bersaglio privilegiato dell’opinione pubblica, per questo (sarà un caso?) il futuro dello smart working è destinato a seguire due strade diverse. Nell’ambito privato, le aziende hanno capito molto bene di trovarsi di fronte a una delle opportunità più ghiotte degli ultimi anni: il lavoro agile permette loro di ottimizzare i costi e di dismettere le costosissime sedi, mantenendo lo stesso livello di servizio e di produzione. Nell’ambito pubblico, l’esigenza di contenere i costi viene sentita molto meno, forse perché le risorse amministrate non appartengono agli amministratori ma ai cittadini. C’è poi un’evidenza innegabile: se in molte amministrazioni centrali lo smart working ha dato risultati che sono andati oltre le più rosee aspettative, nelle amministrazioni locali la qualità dei servizi ha subito un peggioramento. Il disservizio si è verificato perlopiù in quelle organizzazioni in cui la presenza dei lavoratori a contatto con il pubblico è ancora essenziale. Mi riferisco ai piccoli comuni, ai servizi anagrafici, ai servizi territoriali, insomma, a tutte quelle attività in cui la digitalizzazione è assente. Ed è assente non solo a causa di un ritardo clamoroso delle istituzioni, ma è assente anche per la riluttanza di una parte della popolazione a utilizzare strumenti digitali per usufruire dei servizi pubblici. Più che disinvestire nello smart working, occorrerà investire fortemente in diverse direzioni. In primo luogo nella cultura e nella condivisione dei suoi principi fondanti, ma su questo aspetto, a differenza del passato, una parte della classe dirigente ha preso coscienza delle potenzialità di questo modello lavorativo ed è passata dall’altra parte della barricata, sostenendo, e non più osteggiando, il lavoro agile come modalità di lavoro ordinaria. In secondo luogo, sarebbe opportuno rafforzare le dotazioni informatiche della PA e investire nella formazione digitale dei lavoratori: alcune amministrazioni lo hanno fatto e risultati sono stati sorprendenti. Esiste una questione di natura giuridico-contrattuale, che verrà affrontata nel corso dei prossimi giorni in un tavolo condiviso dal Dipartimento per la Funzione Pubblica e l’Aran: tuttavia, non è l’aspetto contrattuale a preoccupare i lavoratori, semmai è il contenuto del contratto.

Quali sono i punti su cui non si dovrebbe assolutamente tornare indietro? Occorre opporsi fermamente alla reintroduzione delle graduatorie e dei punteggi basati sulle invalidità e sulle esigenze famigliari. Sembra assurdo che si torni ancora a parlare di questa eventualità, nonostante sia stato ampiamente dimostrato che il lavoro agile non è una forma di assistenzialismo ma una forma di organizzazione del lavoro basata su criteri differenti. Poi, bisogna evitare i limiti predefiniti di posti, che generano soltanto malcontenti, una stupida competizione tra lavoratori e un’inutile spaccatura tra presunti privilegiati e discriminati. Occorre monitorare gli obiettivi e il loro raggiungimento e mettere da parte le assurde fasce orarie e i giorni predefiniti di rientro in ufficio. Un’organizzazione del lavoro che privilegi gli obiettivi non può prevedere le fasce di operatività, di contattabilità e di inoperabilità: sarebbe una vera e propria contraddizione. L’unica deroga ammessa potrebbe riguardare quei lavoratori che erogano dei servizi in orari prefissati. Infine, c’è una questione aperta che riguarda la domanda e l’offerta di servizi in relazione alle competenze digitali della popolazione: difficilmente si potrà attuare una diversa organizzazione del lavoro, se i cittadini continuano a considerare i servizi pubblici come “luoghi” fisici in cui recarsi e non come piattaforme digitali a cui far affidamento. La chiave di svolta dello smart working è la trasformazione digitale, che, di fatto, rende l’ufficio uno spazio inadeguato allo svolgimento di molti lavori.

Come difendersi dal relativismo scientifico e da un dio che gioca a dadi con l’universo.

Posted on 18 Settembre 2021 by admin

Dio non gioca a dadi con l’universo. Questa frase, scritta da Einstein  all’amico Niels Bohr, sintetizza molto bene la natura probabilistica  della meccanica quantistica, una teoria che mette in dubbio la natura  deterministica su cui si basa la fisica classica. La contrapposizione  tra le due teorie, nei primi anni del novecento, è stata molto forte.  Da una parte, a sostenere il principio della causa e dell’effetto,  c’erano nientepopodimeno che Galileo e Newton, dall’altra, a sostenere  il principio dell’azione e della “probabilità” che si verifichi una  certa conseguenza, c’erano dei giganti come Bohr, Schroedinger,  Heisenberg  e Dirac. Einstein dubitava. Dubitava che la natura fosse  descritta in termini probabilistici ed espresse il suo dubbio  attraverso quella frase divenuta celebre. Dal suo canto, Bohr gli  rispose con un altro dubbio “relativistico”: Piantala di dire a Dio  come deve giocare!
Il dubbio è una caratteristica essenziale del pensiero filosofico e  scientifico. Hanno dubitato Aristotele, Socrate, Cartesio, Galileo,  Newton e Einstein, solo per citarne alcuni… Il dubbio, però, deve  avere origine da basi solide e non sempre questo accade. Il  relativismo scientifico nasce proprio dalla mancanza di un pensiero  critico e di una conoscenza approfondita di un certo argomento. Pochi  avrebbero il coraggio di mettere in dubbio la teoria della relatività,  molti, invece, hanno la presunzione di mettere in dubbio  l’interpretazione dei dati statistici. La differenza tra i due  comportamenti è abbastanza legittima e deriva in parte dalla profonda  diversità tra le teorie basate sul metodo scientifico deduttivo e  l’adozione di modelli induttivi empirici attraverso i quali vengono  descritti dei fenomeni (naturali, sociali, medici) attraverso la  raccolta dei dati e la loro interpretazione. Anzi, “le” loro  interpretazioni. Da una parte ci sono le previsioni teoriche, che  vengono verificate sperimentalmente e hanno due caratteristiche  fondamentali: si basano sulla matematica, l’unica scienza esatta (o  quasi) a disposizione dell’uomo, e sono riproducibili  sperimentalmente. Dall’altra parte ci sono la raccolta dei dati,  organizzata in maniera più o meno rigorosa, l’analisi e le conclusioni  a cui si giunge applicando uno o più modelli. Il metodo deduttivo  contro il metodo induttivo. Si potrebbe semplificare  “informaticamente” la questione, facendo ricorso alla differenza tra  la logica  top-down e la logica bottom-up, ma è evidente che ci  troviamo di fronte a un problema ben più complesso. La logica  induttiva (bottom-up) alla base del processo di raccolta e di  produzione dei dati statistici, sebbene si basi su metodi scientifici,  ha delle fragilità intrinseche che nella logica deduttiva sono molto  meno accentuate. I dati statistici hanno bisogno di una chiave di  lettura, che spesso può essere diversa in base al modello adottato (e  spesso può essere sbagliata), la teoria scientifica, al contrario, “è”  una chiave di lettura che trova conferma nell’esperimento e nella  raccolta dei dati. È per questo che la lettura di un dato statistico  non è quasi mai univoca, ed è per questo che i dati e le statistiche  possono essere usati per mentire autorevolmente con (falso) rigore  scientifico. Difendersi dalle “statistiche taroccate” è molto  difficile, l’unico strumento efficace è rappresentato dal dubbio  cartesiano. Il dubbio insieme al razionalismo critico e alla capacità  di guardare un certo fenomeno da diverse prospettive rappresentano  degli ottimi strumenti per avvicinarsi alla verità. Queste due  caratteristiche, in un momento storico di profonda disgregazione  sociale e intellettuale, pieno di giornalisti saputelli e  pseudoscienziati televisivi che vendono facili certezze alla  popolazione (salvo poi smentirle a petto nudo sulle riviste di gossip,  sul red carpet o nei salotti dei talk show), sono, a volte a torto, a  volte a ragione, abbinate alla parola “complottismo” e a una tipologia  di persone ignoranti e inutilmente sospettose. Associare i ragionevoli  dubbi al complottismo è un’operazione distruttiva molto grave perché  permette di far passare una palese menzogna non contraddetta in una  rassicurante falsa verità. L’unica verità. Questa perdita totale di  razionalità è frutto di una decadente cultura scientifica collettiva,  ormai ridotta ai minimi termini, e di una diffusa “scienza delle  opinioni” attraverso la quale, chiunque, anche grazie a quei social  che “hanno dato voce agli imbecilli”, per dirlo con le parole di  Umberto Eco, può affermare qualsiasi teoria farlocca senza un vero e  proprio contraddittorio e senza il rischio di passare per una sana  gogna pubblica mediatica. La società del politicamente corretto vieta  categoricamente di dire apertamente a un idiota che è un idiota.  Galileo Galilei, Dante Alighieri e Magritte erano politicamente  scorretti. La scienza e l’arte sono politicamente scorrette. La vita è  politicamente scorretta. Bisognerebbe iniziare a farsene una ragione…
La domanda, a questo punto, potrebbe essere: “Quando un dubbio e  ragionevole?”.
La risposta si può trovare in un aneddoto scientifico di qualche anno fa.
Nel 1930, a Lipsia, di fronte alla Società tedesca di fisica, si  svolse una conferenza a cui partecipò Albert Einstein. Al termine del  suo intervento, “Albertone” si rivolse al pubblico per sollecitare  qualche domanda. Dall’ultima fila si alzò un ragazzo magrolino, con  due occhi vispi e un enorme ciuffo simile a quello di Cameron Diaz nel  film Tutti pazzi per Mary. Il ragazzo non conosceva bene la lingua  tedesca e con una certa aria di superiorità disse: “Quello che ha  detto il Professor Einstein non è stupido, ma la seconda equazione che  ha scritto non deriva dalla prima. Essa richiede, infatti, delle  ulteriori assunzioni che non sono state fatte e, inoltre, quel che è  peggio, non soddisfa un criterio di invarianza, come invece dovrebbe  essere”.
Ovviamente, l’atmosfera diventò subito gelida e surreale. C’era chi  sghignazzava, chi, indignato e incredulo, esprimeva il proprio  dissenso con cenni del capo e chi si chiedeva perché era stata data la  parola a uno studentello che puzzava ancora di latte e che aveva osato  mettere in dubbio le parole di Einstein. Per la maggioranza, quel  dubbio era illegittimo e non aveva senso. Einstein non faceva parte  della maggioranza. Cominciò ad accarezzare i suoi baffetti da  sparviero e ad osservare attentamente la lavagna. Dopo qualche minuto,  si rivolse alla platea e disse: “L’osservazione è perfettamente  corretta. Vi prego pertanto di dimenticare tutto quello che vi ho  detto quest’oggi”.
C’è da dire che il ragazzo disobbediente, in quel caso, non era  esattamente lo stereotipo dell’ignorante che “le scie chimiche…, il  5G…, il microchip…complotto!”, era Lev Davidovich Landau, quello  che, qualche anno più tardi, divenne il principale fisico teorico  dell’Unione Sovietica. In quel caso, il dubbio era più che legittimo e  il destinatario della critica era egli stesso un critico feroce nei  propri confronti, disponibile a prendere in considerazione  osservazioni che avrebbero potuto sia sostenere che confutare le sue  teorie. Si potrebbe dire che un dubbio diventa legittimo quando  dimostra l’errore e falsifica una teoria. L’atteggiamento di Einstein  nei confronti della scienza era basato su questa idea di dubbio e fu  alla base delle riflessioni che fece in seguito Karl Popper, il  filosofo del razionalismo critico, in merito alla critica e alla  falsificazione scientifica, ovvero all’atteggiamento antidogmatico che  non va alla ricerca di conferme ma di confutazioni. Popper criticò  ferocemente il metodo induttivo, obiettando che le leggi scientifiche  non vengono ricavate dall’osservazione ripetuta di puri fatti, ma sono  sempre precedute da un’intuizione sulla natura delle cose o da  un’ipotesi di lavoro palese o inconscia.In altre parole, Popper era un  ultrà del metodo deduttivo galileiano (sempre sia laudato), Einstein  era un po’ più equilibrato, ma pur sempre tifoso. Insomma, Popper era  un po’ come Tirzan in Eccezziunale veramente e Einstein come Oronzo  Canà nell’Allenatore nel pallone. Lo stesso Einstein scrisse queste  parole a proposito del metodo induttivo : L’immagine più semplice che  ci si può formare dell’origine di una scienza empirica è quella che si  basa sul metodo induttivo. Fatti singoli vengono scelti e raggruppati  in modo da lasciare emergere con chiarezza la relazione legiforme che  li connette. Tramite il raggruppamento di queste regolarità è  possibile conseguire ulteriormente regolarità più generali, fino a  configurare – in considerazione dell’insieme disponibile dei singoli  fatti – un sistema più o meno unitario, tale che la mente che guarda  le cose a partire dalle generalizzazioni raggiunte per ultimo  potrebbe, a ritroso, per via puramente logica, pervenire di nuovo a  singoli fatti particolari. Un pur rapido sguardo allo sviluppo  effettivo della scienza mostra che i grandi progressi della conoscenza  scientifica solo in piccola parte si sono avuti in questo modo.  Infatti, se il ricercatore si avvicinasse alle cose senza una qualche  idea (Meinung) preconcetta, come potrebbe egli mai afferrare, dal  mezzo di una enorme quantità della più complicata esperienza, fatti i  quali sono semplicemente sufficienti a rendere palesi relazioni  legiformi? Galilei non avrebbe mai potuto trovare la legge della  caduta libera dei gravi senza l’idea preconcetta stando alla quale,  sebbene i rapporti che noi di fatto troviamo, sono complicati  dall’azione della resistenza dell’aria, nondimeno noi consideriamo  cadute di gravi nelle quali tale resistenza gioca un ruolo  sostanzialmente nullo.
I progressi veramente grandi della conoscenza della natura si sono avuti seguendo una via quasi diametralmente opposta a quella dell’induzione. Una concezione intuitiva dell’essenziale di un grosso complesso di cose porta il ricercatore alla proposta di un principio ipotetico o di più principi di tal genere. Dal principio (sistema di assiomi) egli deduce per via puramente logico-deduttiva le conseguenze in maniera più completa possibile. Queste conseguenze estraibili dal principio, spesso attraverso sviluppi e calcoli noiosi, vengono poi messe a confronto con le esperienze e forniscono così un criterio per la giustificazione del principio basato. Il principio (assiomi) e le conseguenze si formeranno insieme quella che si dice una “teoria”. Ogni persona colta sa che i più grandi progressi della conoscenza della natura – per esempio, la teoria della gravitazione di Newton, la termodinamica, la teoria cinetica dei gas, l’elettrodinamica moderna, ecc. – hanno tutti avuto origine per questa via, e che il loro fondamento è di natura ipotetica.
A questo punto, è utile fermarsi con le noiose considerazioni di carattere scientifico e soffermarsi su quanto è accaduto negli ultimi due anni in merito alla gestione della pandemia. Con un’avvertenza: il mio punto di vista è senz’altro influenzato dal pensiero scientifico einsteiniano. In primo luogo, non c’è stato un dibattito scientifico qualitativamente accettabile. Anzi, non c’è stato nessun dibattito. I dubbi, anche i più legittimi, sono stati etichettati con due immagini dispregiative e stupidamente discriminatorie: da una parte ci sono gli intelligenti e dall’altra ci sono i cavernicoli “complottisti”. I dati, anche quelli più evidenti, sono stati travisati e usati ad arte per creare false narrazioni, spaccature e conflitti sociali. La scienza è diventata un circo che non procede né per induzione né tantomeno per deduzione: procede per contraddizioni, per fede e per opinioni da bar portate avanti dalle tifoserie. La scienza è diventata una nuova religione salvifica che vende l’immortalità e un nuovo dio in cui credere. Un dio che ha le sembianze dell’opinionista da copertina e che riesce a convincere i suoi discepoli senza grosse difficoltà, spesso mentendo palesemente (come del resto fanno tutte le religioni). Giocando a dadi, per l’appunto, ma non nel senso einsteiniano. Giocando a giocare sui numeri e sulle diverse rappresentazioni della realtà. Giocando con le paure, con le parole, con il pensiero unico e con dieci di narrazioni contraddittorie che non c’entrano nulla con la ragione e non c’entrano nulla nemmeno con la religione. Peccato che, per qualcuno, non sia affatto vero che la scienza, come la religione, non si possa discutere. La scienza si discute eccome, perché soltanto attraverso il confronto socratico è possibile arrivare a qualcosa che somigli alla verità. Si può arrivare perfino a sostenere che “Dio è morto” ea discuterne civilmente. La storia sarebbe stata diversa, se Einstein, quel giorno, avesse detto: “Signor Landau, lei è un “complottista” e la mia equazione non si discute”. Si potrebbe obiettare le mie riflessioni riguardare un ambito scientifico elitario che fanno una subdola e tra scienze maggiori e scienze minori. Sono fermamente sostenuto che non esisteno scie maggiori e scienze minori, esistenze maggiori e quello minori, ed esiste il “dosso del relativismo scientifico”, in cui gli maggiori sono al dialogo e gli minori sono vanitosi, irascibili , intolleranti alle critiche e ai confronti, con un ego spropositato e inclini all’autocelebrazione. La scienza è una cosa seria che merita di essere discussa e contraddetta, non merita certamente di essere umiliata.

Concorsi pubblici e competenze, tra inganno e opportunità

Posted on 9 Luglio 202111 Luglio 2021 by admin

L’evidenza empirica dimostra che un cretino qualsiasi, col tempo, se addestrato a dovere, riesce a svolgere i lavori più disparati. Può imparare anche a uccidere, e a farsi uccidere, se viene convinto di essere dalla parte dei “buoni”, e che la guerra sia indispensabile per vivere in pace, e che la violenza, esercitata per difendere una patria esistente soltanto nella testa di chi l’ha creata, sia in qualche modo “a fin di bene”. Questo semplice parallelismo dovrebbe indurre a pensare che le politiche di reclutamento, attraverso le quali vengono privilegiate principalmente verifiche nozionistiche, hanno bisogno di un aggiornamento radicale. La pubblica amministrazione è composta da persone, non da nozioni, e il funzionamento della macchina pubblica dipende più che altro da quei lavoratori che possiedono un insieme di caratteristiche difficilmente rilevabili nel corso delle procedure selettive. È necessario, anzi, indispensabile, definire un sistema di misura in grado di rilevare anche caratteristiche diverse: il livello di consapevolezza, di maturità, di responsabilità, la capacità di autonomia e di adattamento dei candidati. E, ancora, il senso critico, la capacità di risolvere i problemi, l’autocontrollo, la capacità di usare la logica, l’intùito, l’intelligenza e la sicurezza emotiva… Questo tipo di valutazione, che riguarda le cosiddette competenze trasversali, è il centro del progetto attorno al quale un datore di lavoro dovrebbe costruire il percorso di scelta del lavoratore. Oggi più che mai nella PA serve una visione prospettica del lavoro attraverso la quale reclutare consapevolmente il personale. Personale che presumibilmente resterà all’interno dell’organizzazione per un arco temporale molto ampio, di cui ancora si ignorano gli sviluppi.Trovare un buon programmatore Java, non è poi così difficile; trovare un programmatore Java che sappia lavorare in autonomia, ridurre i conflitti, trovare nuove motivazioni, seguire le trasformazioni della società e adattarsi ai cambiamenti, mantenendo un buon livello di curiosità e di partecipazione alle attività istituzionali, è più complesso. Il relativismo illusorio delle competenze è molto pericoloso e rischia di generare false aspettative nella pubblica amministrazione, nei cittadini e nei candidati. Ormai è più o meno diffusa l’idea che la competenza corrisponda alla capacità, o meglio all’abilità, di svolgere un determinato compito; molto meno diffusa è la consapevolezza di quali siano gli elementi che concorrono a formare una certa competenza. Nel mercato del lavoro statunitense, la parola competenza è il tassello di un mosaico molto più esteso che prende il nome di skill. La skill, la cui traduzione letteraria è abilità, è formata da un insieme complesso di fattori: esperienza, training, conoscenza, capacità, crescita personale, apprendimento continuo, training ed esperienza. Per questo, non è mai opportuno confondere la parola skill con la parola competenza, la cui interpretazione italiana, ridotta ai minimi termini, è “saper fare qualcosa più o meno bene”.

Nel corso delle procedure selettive, poi, la competenza, già privata all’origine dei suoi veri significati, viene confusa col nozionismo. Il risultato di questa confusione si palesa in tutta la sua pericolosità nel momento in cui i lavoratori esauriscono la spinta produttiva dettata dall’entusiasmo iniziale e diventano un problema anziché una risorsa. Problema a carico della società per almeno quarant’anni. Il grande inganno delle competenze è frutto di un malcostume italico che ha radici molto lontane. Si può dire che l’annebbiamento del buon senso sia iniziato quando il titolo di studio, a cui è associata la certificazione formale di qualcosa che spesso non è neanche paragonabile ai reali bisogni della società, è stato valorizzato oltre il suo valore reale e privilegiato al punto da renderlo più rappresentativo degli individui che rappresenta. Le università, d’altronde, si sono trasformate in strutture autoreferenziali, lontane anni luce dal mondo reale, in cui l’insegnamento è una passerella su cui far sfilare personaggi di ogni tipo, a seguito di una qualche competizione grottesca, che ha come premio una cattedra da professore ordinario. Sono pochissimi i docenti che insegnano per vocazione e associano allo studio il significato etimologico della parola, studium, passione, amore, dedizione. Di conseguenza, il sistema che dovrebbe plasmare gli individui, modellare le coscienze, alimentare la consapevolezza e favorire il senso critico, si è trasformato in un sistema di pseudo formazione in cui le competenze sono un patetico esercizio di addestramento al nozionismo. Si potrebbe obiettare che l’istruzione italiana mira a fornire ai discenti le cosiddette hard skill, le competenze tecniche, mentre le soft skill vengono demandate ad altri canali. Quali, esattamente? La famiglia? Gli amici? L’ambiente di lavoro? Questa distinzione, considerato l’impoverimento culturale e l’analfabetismo di ritorno in cui siamo immersi, è pericolosissima. Piuttosto, ci sarebbe da mettere in discussioni l’intero sistema Paese e chiedersi se le modalità con le quali vengono accertate le “competenze” dei candidati, in un concorso o durante un esame universitario, siano realmente efficaci, considerando che esiste una valida teoria sull’oblio, formulata da Hermann Ebbinghaus, in cui vengono descritti scientificamente i meccanismi cerebrali attraverso i quali si dimenticano le informazioni apprese. Una prova selettiva, o un esame di fisica, o di chimica, o di ingegneria delle costruzioni, viene ancora svolta attraverso una prova scritta temporizzata (spesso sufficientemente difficile rispetto al tempo concesso e sufficientemente facile se si avessero a disposizione tempi più lunghi) e un colloquio orale. Siamo sicuri che questo sistema permetta di valutare e selezionare nel migliore dei modi? Francamente, io non lo credo. Il lavoro è un’entità complessa, che evolve, si trasforma, e obbliga i lavoratori ad adeguarsi. Molto spesso, ed è questo il vero nodo cruciale della PA, il lavoro viene adeguato ai lavoratori, ritoccato al ribasso, con tutto ciò che ne consegue…

Se prendessimo l’abitudine di sottoporre ai candidati prove molto complesse, nelle quali poter esercitare realmente le “skill” nella loro interezza, forse qualcosa cambierebbe. Un problema complesso che costringa i candidati a far ricorso a tutte le capacità che hanno, capacità relazionali, senso critico e autocontrollo inclusi. Coi tempi adeguati, s’intende.Senza far affidamento sulla memoria e senza l’ipocrisia del “vietato copiare”. Perché nella vita reale funziona esattamente così: non si risolvono i problemi “a tempo”. Ho un problema? Voglio risolverlo? Leggo, ragiono, chiedo, mi informo, provo, sbaglio, rifletto, provo di nuovo, sbaglio meglio, chiedo ancora, studio, mi fermo, faccio altro, faccio una battuta, sorrido, riprendo, discuto, mi confronto con gli altri, imparo, disimparo, miglioro, scrivo, risolvo. In queste poche righe credo ci sia l’essenza di ciò che dovrebbe “saper essere” il lavoratore pubblico. L’accertamento delle competenze, in fin dei conti, passa attraverso un cambio di paradigma: “saper fare” o “saper essere”? Questo è il problema.

Concorsi pubblici, si cambia!

Posted on 9 Luglio 202111 Luglio 2021 by admin

Non ci può essere una riforma della pubblica amministrazione senza un cambiamento profondo del sistema di reclutamento e dell’erogazione dei concorsi pubblici. Il modello di reclutamento adottato finora dalle PPAA era tutt’altro che vicino ai cittadini: non esisteva un sistema strutturato per favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro e i meccanismi per la pubblicazione dei bandi e per la partecipazione ai concorsi erano per lo più basati su processi cartacei digitalizzati maldestramente senza una vera e propria “ristrutturazione digitale”. Il problema che affligge da sempre il sistema pubblico è il “public divide”, una sorta di muro invisibile, costituito da regole, burocrazia e formalismi di diverso tipo, che crea una linea di confine tra la vita reale e la vita all’interno dell’apparato pubblico. Non ci sono vie di mezzo: chi sta da una parte non può stare dall’altra.

Questo divario, in un periodo in cui i cambiamenti si susseguono a ritmi sostenuti, si ripercuote inevitabilmente sul funzionamento della macchina statale. Così, se da una parte i cittadini hanno la vita facile e sono abituati ad acquistare un oggetto con un solo clic, dall’altra vengono sottoposti a vere e proprie prove di abilità (e di pazienza), anche per accedere a dei servizi semplici, che potrebbero essere digitalizzati efficacemente. Il sistema pubblico di reclutamento italiano è sicuramente un ambito in cui c’è molto da fare, per snellire le procedure e rendere i processi di selezione più accessibili. Cosa cambierà, esattamente, con la riforma della PA? Il Decreto reclutamento contiene molte novità, tra le quali il Portale del reclutamento, un progetto risalente a qualche anno fa, che verrà finalmente realizzato nei prossimi mesi.

“Il portale” – spiega il DIpartimento per la Funzione Pubblica – “rappresenterà la porta virtuale unica di accesso alla Pubblica amministrazione sia per i concorsi pubblici ordinari, sia per le procedure di reclutamento straordinarie legate all’attuazione del Pnrr. In un unico spazio, ogni cittadino potrà monitorare i bandi concorsuali delle amministrazioni su una mappa interattiva georeferenziata, registrarsi attraverso Spid, Cie e Carta nazionale dei servizi inserendo il proprio curriculum attraverso un form apposito, inviare la domanda di partecipazione, pagare la tassa attraverso PagoPa e seguire le procedure di selezione dall’avvio alla pubblicazione delle graduatorie finali”.

SI tratta di un progetto molto ambizioso che richiede uno sforzo notevole in termini di collaborazione tra istituzioni e di revisione dei flussi informativi attualmente utilizzati per la gestione dei concorsi e dei fabbisogni di personale. Sarà necessario creare nuovi standard per la raccolta dei dati riguardanti i concorsi pubblici, centralizzare la pianificazione dei fabbisogni triennali e collegare banche dati diverse attraverso un sistema complesso per la cooperazione applicativa. Questo per iniziare. La vera sfida, poi, sarà il coinvolgimento dei cittadini e delle istituzioni, che dovranno essere i protagonisti del cambiamento. I colossi del web hanno attuato nel tempo una strategia molto efficace, che ripaga, attraverso l’erogazione di servizi indispensabili, i fornitori dei dati: questa dovrà essere la filosofia trainante del Portale del reclutamento. I cittadini e le amministrazioni, in cambio dei dati, dovranno avere dei servizi efficienti. E i servizi che si possono erogare attraverso un portale così ricco e ambizioso sono molti: un sistema efficace di incontro tra domanda e offerta di lavoro, procedure fluide di pubblicazione e di iscrizione ai concorsi, sistemi efficaci di notifica, un sistema per la gestione delle prove preselettive, sistemi di monitoraggio per i candidati e per le amministrazioni e sistemi di ricerca semantica adeguati a una selezione moderna del personale, attraverso la definizione precipua del profilo e delle competenze richieste. Su quest’ultimo punto, in particolare, c’è molto da fare perché non si tratta “soltanto” di creare un fascicolo del candidato informatizzato e archiviato in una base dati.

È necessario definire degli standard per la descrizione dei profili e delle competenze che consentano l’armonizzazione del linguaggio e l’identificazione univoca delle professioni, anche allo scopo di raccordare i dati con altre informazioni riguardanti il mercato del lavoro. Se per risolvere il problema del profilo professionale potrebbe essere sufficiente affiancare al profilo contrattuale -e sarebbe una vera rivoluzione in termini di efficienza e di possibilità associate al data driven – la Classificazione delle Professioni ISTAT (peraltro in corso di una revisione migliorativa), per le competenze il grado di complessità aumenta notevolmente. Adottare un modello descrittivo di tutte le competenze esercitabili nella PA, che sia efficace e duraturo nel tempo e, soprattutto, che non sia vincolato a interventi di manutenzione evolutiva costante, è un’operazione rischiosa e complessa. Esistono degli standard internazionali, per esempio l’e-CF (European Competence Framework) per l’ICT, che potrebbero contribuire alla creazione di una banca dati delle competenze pubbliche, ma i ragionamenti da fare non possono esaurirsi in un articolo e meritano riflessioni tecniche molto sofisticate. Oltre queste criticità, nel Decreto reclutamento ci sono alcuni aspetti molto interessanti, che avvicineranno sicuramente la PA a un mercato del lavoro moderno, dinamico e in continua evoluzione. È il caso del protocollo d’intesa tra il Dipartimento per la Funzione Pubblica e la Rete delle professioni tecniche al fine di creare banche dati specifiche dei professionisti iscritti agli Albi o della possibile partnership con Linkedin per dare maggior risalto alle vacancies nella Pubblica amministrazione. Per una volta, c’è da sperare che venga sovvertita la logica del Gattopardo e che cambierà tutto affinché cambi tutto.

Whatsapp, storia di un errore di successo.

Posted on 11 Giugno 2021 by admin

I sistemi di messaggistica istantanea sono sempre esistiti: in principio era il Verbo vi dice niente? Certo, soltanto col verbo si messaggiava male, per comporre una frase era necessario uno sforzo creativo notevole… Proprio per questo, poi, sono stati inventati il soggetto e il complemento. Dopo aver creato il linguaggio, però, è stato necessario creare anche i mezzi di comunicazione. Mezzi che, col tempo, si sono evoluti, passando dai graffiti ai segnali di fumo, fino ad arrivare a quei sistemi moderni e sofisticati, costituiti da gruppi di donnone rubiconde e ipertricotiche, munite di scialle e ciabatte di ordinanza, che si facevano carico del gravoso compito di diffondere istantaneamente qualsiasi notizia a chiunque incontrassero lungo il loro cammino.

Si trattava di sistemi molto affidabili, tecnologicamente avanzati e sufficientemente veloci, che scambiavano informazioni attraverso una raffinata rete di bocche e di orecchie collegate tra loro da complessi algoritmi di diffusione dati  “porta a porta” . A onor del vero, nonostante la tecnologia basata sull’intelligenza naturale sia sempre da preferire ad altri tipi di intelligenza, c’è da dire che la privacy, la riservatezza delle informazioni, e, soprattutto, la loro veridicità, non erano affatto garantite. Jan Koum, il papà di Whatsapp, mentre spazzava i pavimenti nei supermercati, potrebbe essere incappato in uno scambio di messaggi in codice tra due comari abruzzesi e averne tratto ispirazione, migliorando un’app in carne e ossa, peraltro già efficace di suo, attraverso una tecnologia diversa: si sa che molte nuove scoperte non sono nient’altro che una brutta copia di cose già inventate. Parafrasando Newton, potrebbe aver detto. “Se sono riuscito a guardare lontano è perché sono salito sulle spalle di donna Serafina Nardecchia da Capestrano”. È molto improbabile che l’idea l’abbia avuta ispirandosi a Talk, la prima chat della storia inventata negli anni ‘70 e basata sui sistemi UNIX, ma questa ipotesi non si può escludere a priori. Fatto sta che la parola Whatsapp deriva dalla crasi – crasi, non crisi… contrazione, sintesi – tra  l’espressione inglese “What’s up?” e “Application”.  “What’s up?” significa “Come va?” e avvalora la tesi dell’incontro nel supermercato tra Jan e le due comari abruzzesi. Una dice “Come va?” e l’altra risponde “Ti devo raccontare una cosa, ma non dirlo a nessuno: ho visto il figlio del fioraio uscire con la moglie dell’avvocato”. Fare una crasi tra queste due espressioni sarebbe stato troppo complesso, quindi ha optato per una soluzione più sobria, ha scelto Whatsapp, ma ha sintetizzato “Ti devo raccontare una cosa, ma non dirlo a nessuno” inserendo nell’applicazione un pratico tasto “inoltra”. La verità è che l’uomo, da quando ha messo piede sulla terra, ha avuto bisogno di comunicare con i suoi simili. Nel corso dei secoli è cambiato soltanto il mezzo, ma il bisogno è rimasto tale e quale. Comunicare, in qualche modo, equivale a esistere, e gli individui non possono fare a meno di esistere. Per questo, Jan Koum ha avuto la strada spianata, è andato sul sicuro, un po’ come Dio che ha scritto la Bibbia e, per essere sicuro del successo, ha creato anche i lettori. Si potrebbe obiettare che l’inventore di Whatsapp non abbia inventato anche gli utenti: questo è vero, non li ha inventati, ma certamente li conosceva molto bene. Forse, la parola invenzione non è la più adeguata per definire questa applicazione; le chat esistevano già, come del resto gli esseri umani. Cosa ha reso possibile, allora, questo successo straordinario? Il caso… si fa per dire…

I tempi erano maturi, questa è la verità.

Esistevano le chat, esistevano le persone con le loro dinamiche sociali, esistevano le emoticon ed esisteva lo smartphone, il dispositivo che ha cambiato totalmente il modo di relazionarsi tra le persone. Mancava un sistema di messaggistica intuitivo, facile da usare e alla portata di tutti, anche del donnone abruzzese. Così, lo scambio di informazioni “porta a porta” è diventato un velocissimo scambio “smartphone to smartphone” Istantaneo. Due dita che digitano parole all’impazzata su un touch screen vanno molto più veloci dei piedi rigonfi di acidi urici di un’ultraottantenne. E la velocità con cui viaggiano i bit è diventata la velocità con cui viaggiano le relazioni e i sentimenti. Non si discute più ad alta voce, SI SCRIVE IN MAIUSCOLO. Non si allontanano più fisicamente le persone, si bloccano. Basta un clic. Un clic è molto meno rischioso e coinvolgente di un confronto reale. Basta un clic e finisce tutto. Anche un’amicizia storica. Anche un amore. Non sarei onesto se non dicessi che, tra gli infiniti pregi dei social, qualche controindicazione io l’ho trovata. Sul bugiardino, perché ormai la dipendenza da questi strumenti è conclamata, scriverei “può causare incomprensioni e fraintendimenti” oppure “nuoce gravemente alle relazioni umane” o ancora “Riflettere a lungo prima di pensare”. E di digitare. In ogni caso, è fuor dubbio che l’intuizione di Jan Koum è stata eccezionale, anche se spesso l’intùito tecnologico non basta: serve anche una buona dose di capacità imprenditoriale. A dire la verità, Kim Jan Koum – ah, no, quello è un altro e sta in Corea del Nord – non è partito proprio col piede giusto: pensate che per costituire la sua prima società si è consultato con l’assicuratore. Con l’assicuratore, capito?, non col commercialista. Non mi stupirei se un giorno venisse fuori la notizia che, a seguito di un tamponamento, invece di fare il CID, si sia rivolto al parrucchiere, per sapere quale taglio di capelli fosse più adeguato agli insulti da indirizzare al perito.

  • Ti consiglio i capelli a caschetto, attutiscono il dolore in caso di testate.
  • No, meglio di no, il caschetto limita la visuale: preferisco una pettinatura a schiaffo.

In ogni caso, l’assicuratore ha avuto la fortuna del principiante, aiutato anche dal fatto che per costituire la società ci sono voluti soltanto 100$ e un’ora di tempo. In Italia, solo per portare a termine questo passaggio, sarebbero occorsi almeno 5000€ e l’intervento di un consulente plurilaureato, che, dopo sei mesi impiegati nella compilazione acrobatica di moduli cartacei, si sarebbe bloccato al rigo 7896 del modello B1589FX/38, a seguito di un cambio repentino della normativa. Che poi, lo spirito imprenditoriale forse nemmeno lo aveva. Insieme al suo socio, Brian Acton, aveva provato a essere assunto nientepopodimeno che da Facebook. Direte “Maddai!”, “Non ci posso credere…”. Ebbene sì, si sarebbe accontentato di un banale posto a tempo indeterminato, come il  protagonista di un film di Checco Zalone. Per fortuna, il lungimirante Zuckerberg non li volle assumere. D’altronde, perché pagare due miseri stipendi a degli squallidi dipendenti quando è possibile acquistare l’intera applicazione alla modica cifra di 19 milioni di dollari, firmando uno scenografico contratto davanti agli uffici della Food Stamps, gli stessi uffici in cui venivano stampati i buoni pasto utilizzati da Jan per sopravvivere alla sua triste condizione da povero immigrato ucraino? Insomma, Zuckerberg ha mostrato un senso per gli affari sopraffino e Jan Koum ha avuto una botta di culo o, forse, come avrebbe detto De Andrè, per una volta il Signore si è ricordato di un servo, disobbediente alle leggi del branco, che dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna lo aiuti.

Come una svista.

Come un’anomalia.

Come una distrazione.

Come un dovere.

Le competenze digitali dei dipendenti pubblici

Posted on 18 Maggio 202111 Giugno 2021 by admin

La parola competenza è ambigua e illusoria almeno quanto la parola innamoramento. Per entrambe è difficile dare una definizione, anche se, per la seconda parola, George Bernard Shaw in qualche modo l’ha fatto, definendo l’innamoramento un’esagerazione smisurata della differenza tra una persona e tutte le altre. Per le competenze, invece, la questione è più complicata. In primo luogo perché, a differenza dell’innamoramento, che proietta i fortunati in uno stato di grazia onirico totalmente estraneo al mondo reale, le competenze vengono esercitate in una cruda e superficiale realtà, oltre a essere valutate, misurate e giudicate da persone a volte assolutamente inadeguate. Inoltre, a differenza delle esagerazioni amorose, il divario di competenze può essere esageratamente smisurato tra una persona e tutte le altre. La misura, la valutazione e il giudizio, in realtà, vengono esercitati anche per i sentimenti, e questo la dice lunga sullo spessore culturale e morale di una società in cui ognuno si sente autorizzato a valutare, misurare e giudicare gli altri, rispetto a qualsiasi campo della conoscenza, con un rigore esagerato se confrontato con l’indulgenza che viene applicata verso sé stessi.

La PA, a differenza del settore privato, in cui gli addetti alla formazione e alla selezione del personale hanno un ruolo delicatissimo, utilizza dei meccanismi di selezione, di valutazione e di rilevazione dei fabbisogni formativi quantomeno bizzarri. Il titolo di studio, per esempio, l’antico italico pezzo di carta, quello che “un laureato conta più di un cantante”, per dirlo con le parole di Guccini, è considerato ancora il principale lasciapassare per l’accesso al concorso pubblico e alle carriere che “contano”. In più è, (o dovrebbe essere?) la prova provata delle competenze possedute dai candidati, che solleva le commissioni da qualsiasi responsabilità, liberandole dal gravoso compito di indagare sul percorso di vita che ciascun individuo ha intrapreso quando ha lasciato i banchi dell’università e che, probabilmente, lo ha arricchito almeno quanto il percorso di studi. Il ruolo di chi si occupa della formazione e della gestione delle risorse umane, quindi, è essenziale per l’adozione di percorsi mirati ad accrescere il set di competenze digitali dei lavoratori pubblici. È necessario conoscere a fondo i processi lavorativi, le tecnologie adottate e i singoli individui, per attuare misure realmente efficaci e spendibili dai lavoratori. C’è da dire che, molto frequentemente, le aree che si occupano di gestire le risorse umane di una pubblica amministrazione sono costituite da poche persone con le idee chiare, spesso arrese, sfiduciate e messe da parte, e da molte persone con le idee confuse, in cerca di visibilità, di gloria e di carriere, che probabilmente approdano all’ufficio del personale per sbaglio, per stanchezza o perché non hanno trovato una collocazione migliore. Questo aspetto, laddove scarseggino le competenze umane e relazionali, rende l’applicazione di qualsiasi provvedimento riguardante le competenze digitali molto complesso. I dipendenti pubblici che acquisiscono nuove competenze, di qualsiasi tipo, dovrebbero avere dei benefici che non sempre sono evidenti. Benefici in termini di possibilità di crescita all’interno dell’organizzazione e di migliorie tangibili nello svolgimento del lavoro. Tutto ciò, in molte PA, non è possibile. Non è possibile perché la visione prospettica di ogni amministrazione pubblica è limitata dal perimetro istituzionale nel quale ci si muove. Non è possibile perché il meccanismo perverso attraverso il quale si costruiscono le carriere, la gloria e la visibilità nella Pubblica Amministrazione non è affatto associato al merito e alle competenze possedute, piuttosto viene costruito partendo dalla formalizzazione, sotto forma di delibere spendibili nei concorsi, di un qualche tipo di incarico, anche il più insignificante, di una qualche pubblicazione, anche la più insignificante, e dalla partecipazione a commissioni e gruppi di lavoro, che adesso vengono chiamati più scenograficamente cabine di regia o task force. Insomma, fare carriera è un vero e proprio lavoro nel lavoro che assorbe quasi tutte le energie dei lavoratori. Le aspettative riposte nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), quindi, sono subordinate al (mal)funzionamento di una macchina con pochi ingranaggi giusti che vengono fatti funzionare nel modo sbagliato e molti ingranaggi sbagliati che funzionano in modo sbagliato. La mancanza di competenze digitali non è soltanto associata alla velocità con cui si muove la tecnologia e all’incapacità dei lavoratori pubblici di inseguirne i cambiamenti, ma è frutto di un sistema che negli anni ha disinvestito nella cultura e nella condivisione, favorendo l’individualismo e la competizione. In una recente intervista, il Ministro per l’innovazione e la transizione digitale Vittorio Colao ha rilasciato la seguente dichiarazione. “Sappiamo tutti che non c’è vera innovazione senza profonde competenze: mancando queste gli investimenti non possono decollare, la modernizzazione della PA rimarrà al palo, il sistema educativo non può diventare un motore di promozione sociale. Vogliamo innanzitutto colmare il gap digitale e competitivo tra Italia in Europa, grazie a un cambiamento culturale profondo di metodo. Occorrono investimenti, nuovi processi nella pubblica amministrazione, ma soprattutto competenze”.

Non è esatto. Dovremmo sapere tutti che non c’è vera innovazione se non c’è una profonda cultura condivisa. I cambiamenti di qualsiasi tipo, anche quelli peggiorativi, hanno sempre una solida base culturale. Le competenze sono una conseguenza di un percorso culturale che la formazione può soltanto perfezionare. Per cambiare realmente il lavoro pubblico è necessario cambiare la cultura del lavoro, valorizzando adeguatamente le risorse umane, a partire dalla dirigenza. La Pubblica Amministrazione è composta da diverse anime molto diverse tra loro. Ci sono alcune eccellenze, grandi e piccole, in cui il livello culturale è altissimo e molte amministrazioni paludose in cui rilevare i fabbisogni formativi è complesso a causa di processi organizzativi lacunosi, infrastrutture inadeguate e scarsa visione da parte dei vertici. Qualche anno fa, ingenuamente, avevo maturato la convinzione che per colmare i gap cognitivi digitali e rilevare i fabbisogni formativi nella PA fosse sufficiente applicare due modelli di rappresentazione delle competenze, Syllabus ed ECF 3.0, per misurare il livello e pianificare la formazione. Entrambi i modelli propongono un sistema di misura attraverso la rilevazione di alcune dimensioni che possono rappresentare il livello delle competenze digitali dei lavoratori pubblici. Le dimensioni possono far riferimento all’autonomia, alla complessità dei compiti svolti, ai comportamenti o al dominio cognitivo degli individui. Attraverso la combinazione di queste componenti, è possibile valutare il set di competenze digitali di base e specialistiche e attuare le politiche di formazione digitale più adeguate. Questo in teoria. In pratica, quando mi sono trovato a insegnare ai lavoratori delle amministrazioni pubbliche “come si fa”, ho capito meglio l’impossibilità di applicare metodi scientifici generalizzati. In primo luogo perché per effettuare una qualsiasi misura bisogna aver chiaro cosa si deve misurare e come. In un’istituzione di qualche centinaio di dipendenti, esistono:

  • aree diverse (amministrative, produttive e tecnologiche)
  • tecnologie diverse
  • processi diversi
  • organizzazioni del lavoro diverse
  • esperienze personali diverse
  • generazioni diverse
  • volontà diverse
  • motivazioni diverse
  • interessi diversi
  • culture (e subculture) diverse
  • punti di vista diversi
  • dirigenti diversi

Insomma, la parola più rappresentativa della pubblica amministrazione non è “digitale” ma “diversità”. Propagandare una qualche pozione magica che trasformi, seppur in un PNRR ben fatto, la parola diversità in digitale è pura demagogia. Per attuare un piano di formazione digitale nella PA è necessario procedere in una duplice direzione: da una parte ci sono le diversità e le necessità di competenze digitali specifiche per i singoli individui, dall’altra c’è la cultura digitale collettiva. E le due cose seguono canali totalmente distinti; :un conto è creare il tessuto di una nuova cultura, un altro conto è formare una risorsa all’uso di un foglio di calcolo o alla configurazione di un firewall. Ogniqualvolta ho indossato i panni da docente, queste due necessità sono emerse prepotentemente: i lavoratori vogliono conoscere il lessico, le tecnologie e le possibilità offerte dalla trasformazione digitale, ma per condurre con maggiore efficacia il lavoro quotidiano hanno bisogno di corsi specifici. Corsi che nella stragrande maggioranza dei casi si riferiscono non a un “digitale generico”, ma a temi specifici funzionali alle scelte tecnologiche e organizzative dell’amministrazione. Purtroppo, l’intreccio generazionale non aiuta molto a sciogliere questi nodi. La forza lavoro prossima alla pensione è spesso disinteressata alle opportunità di crescita, mentre le nuove generazioni hanno competenze digitali più legate all’uso dei dispositivi e delle applicazioni social che non ai prodotti, ai metodi e ai linguaggi del mondo digitale. I giovani, insieme alle fasce di lavoratori di mezza età, molto spesso apprendono sul campo le competenze necessarie allo svolgimento del lavoro, a volte vengono addirittura formate attraverso corsi che non hanno un’applicabilità alle attività quotidiane e che rappresentano più che altro una perdita di tempo e di energie. È proprio dalla diversità accennata nelle righe precedenti che bisogna partire per affrontare la sfida del digitale. In questo, possono essere d’aiuto le famose regole delle 5W, derivanti dal giornalismo anglosassone, quantomeno per suddividere una pubblica amministrazione in sottoinsiemi omogenei e pianificare una formazione mirata. Chi sono i dipendenti pubblici? Che tipo di attività svolgono? Dove lavorano principalmente? Quando svolgono la loro attività lavorativa? Perché hanno bisogno di acquisire competenze digitali? Rispondere a queste domande significa conoscere a fondo il capitale umano e la collocazione dei lavoratori all’interno della PA. E la conoscenza è la base di qualsiasi tipo di competenza, anche di quella dei decisori.

Le relazioni digitali (pericolose)

Posted on 10 Maggio 202110 Maggio 2021 by admin

La trasformazione digitale delle relazioni umane è iniziata molti anni fa, e non è nata con i sistemi di messaggistica istantanea. È figlia di un insospettabile colpevole che si chiama link. O, meglio, hyperlink. Ritengo da sempre che l’hyperlink sia tra le invenzioni più importanti del secolo scorso e, tutto sommato, ha origine da un’idea semplice: io sono qua e con un clic vado là. Leggerezza calviniana. Velocità. All’inizio, il link collegava dei documenti ipertestuali, ma ben presto ha iniziato a collegare persone, sentimenti ed emozioni. Basta aprire un qualsiasi social network per (ri)scoprire quanto sia ancora attuale e rivoluzionario il link. Gli amici sono dei link, il curriculum è un link, sono link le foto postate su instagram e le ricerche che si fanno per capire, sempre restando confinati alle relazioni umane, le caratteristiche di persona, chi è, cosa fa, di cosa si occupa. La reputazione e la vita privata  di una persona sono di fatto affidate ai link, che hanno soppiantato totalmente il ruolo millenario delle comari di paese. Io sono qua e vado là, a vedere, senza che si sappia, chi è quella persona che ha suscitato il mio interesse. Vale per una selezione lavorativa o per una selezione sentimentale. Senza guardare negli occhi per vedere dentro. Senza ascoltare come cambiano la voce e l’espressione del viso al suono secco di una domanda. Senza possibilità di capire, dalla gestualità del corpo, le reazioni involontarie, quelle che non si possono nascondere dietro alle parole. Datemi un link e vi sovvertirò il mondo, avrebbe affermato Archimede, se ne fosse stato lui l’inventore. E le informazioni superficiali che si possono avere dai link sono molte: gli interessi, gli hobby, il lavoro, la partecipazione alla vita sociale, la situazione sentimentale… perfino le opinioni sui valori e sulla morale. Tutto tranne i sentimenti, quelli dai link non si vedono. Le prime avvisaglie che qualcosa stava cambiando si sono avute verso la fine degli anni ‘90, con l’utilizzo di massa della posta elettronica nei luoghi di lavoro. I nostalgici ricorderanno senz’altro quelle inutili e infinite discussioni, consumate a colpi di centinaia di email ricche di insulti e di provocazioni, in cui chiunque si sentiva legittimato a scrivere qualsiasi cosa. L’Italia si è trasformata ben presto in un Paese di rissosi da tastiera, capaci di dar luogo a vere e proprie sfide all’O.K. Corral, che tentavano goffamente, con fiumi di parole e frasi spesso sgrammaticate, di rivendicare una qualche ragione, di scaricare responsabilità o di affibbiare una qualche colpa. Parallelamente alle liti a distanza, però, fiorivano anche le prime relazioni clandestine virtuali. Poi c’è stata un’ulteriore evoluzione: i social e le chat hanno velocizzato gli scambi e le relazioni si sono velocizzate. Sono diventate prodotti da consumare in fretta, laddove, da sempre,

necessitano di tempo e di lentezza. Il linguaggio si è dovuto adeguare ad assumere un ruolo per il quale non era stato pensato: esprimere in pochi tic tac sul touch screen, e bip delle notifiche, le emozioni, le reazioni e i sentimenti. Per chi come me è attento alle parole, ne subisce il fascino, la bellezza, e le considera il dono che il grande padre Giove ha fatto agli uomini per comunicare efficacemente, è facile accorgersi di tante piccole sfumature che denotano la pericolosità delle relazioni digitali. Per esempio, quando si chatta (ops, stavo per scrivere parla, un lapsus…) con qualcuno con cui si ha un rapporto libero e leale, si fa poca attenzione alla punteggiatura, diventa quasi superflua. Si lasciano le domande e le risposte aperte. Si danno tutte le possibilità. È un po’ come stare rilassati al pub a bere un boccale di birra. Ma quando si sta sulla difensiva, o si vuole esprimere disappunto, la punteggiatura diventa un requisito comunicativo essenziale. Scrivere No potrebbe bastare, ma No., oppure No!, è molto più efficace. Evidenzia la  chiusura, rende il rifiuto definitivo.Toglie il diritto di replica. Francamente, il punto aggiunto alle parole durante uno scambio di messaggi mi lascia sempre un po’ interdetto. Provo una sorta di tenerezza nei confronti di chi pensa che le questioni si possano realmente chiudere così. Che quel punto riesca realmente a creare dei muri e a considerare chiusa la questione. La punteggiatura nella narrativa ha un ruolo essenziale essenziale, ma mentre si parla, anche laddove si facciano delle pause alla Celentano, difficilmente si percepisce dove inizia il punto è quando si va realmente a capo. E il punto esclamativo? Lo trovo ambiguo, può mettere in difficoltà. Se qualcuno risponde Sì!, qual è il corretto significato da attribuire alla risposta? In termini di emozioni, intendo. Quel punto esclamativo significa “sì, sì, sì”? È un’esortazione, tipo, “sì, muoviti”? È voglia di chiudere in fretta la conversazione e passare ad altro, senza soffermarsi troppo? Beh, può significare qualunque cosa, dipende dallo stato d’animo di chi lo scrive e di chi lo interpreta. Guccini, nel Cyrano scritto con Dati, utilizzava un’espressione evocativa : “Infilerò la penna ben dentro il vostro orgoglio perché con questa spada vi uccido quando voglio”. Forse non è proprio così, forse le parole non uccidono, ma sicuramente possono fare molto male e ferire profondamente. Se non fosse una triste realtà, ci sarebbe da ridere di fronte a una situazione grottesca in cui qualcuno prova dolore, piange, soffre e si emoziona non davanti a una persona ma davanti a uno schermo che non ha nemmeno le sembianze umane. Eppure, con questo tipo di schiavitù bisogna farci i conti. C’è chi calcola i tempi di risposta, o di visualizzazione, di un messaggio perché anche i silenzi, le pause e i ritardi digitali hanno assunto un significato diverso e sono portatori di un notevole carico d’ansia. Se non risponde, ci sarà un motivo, significa che mi ignora o “chissà cosa stia facendo”. L’ipotesi che possa aver lasciato da parte il telefono non viene presa in considerazione. Alzi la mano chi almeno una volta non è stato assalito da un’angoscia incontrollabile mentre, durante una discussione (si fa per dire) accesa, magari in un momento topico in cui si stava consumando la fine di una storia d’amore, il messaggio “Sta scrivendo…” si è interrotto di colpo. Per poi riprendere. In quei frammenti di tempo si concentra tutta la relazione: i pensieri si affastellano, sono fiumi in piena, si susseguono velocemente emozioni e stati d’animo come non era mai successo nella storia dell’uomo. Dall’altra parte c’è qualcuno che ha cambiato idea. E quella pausa rende evidente una reazione comunissima, ma che di solito non viene percepita nella vita reale, a meno che non venga inventato un display da applicare sulla fronte che segnali “sta cambiando idea” durante una conversazione. Nelle relazioni digitali ci sono un uomo, una donna e due schermi che li separano. Che fanno da filtro. Che nascondono e ingannano. Parole virtuali e sofferenze reali. Tutto. Rigorosamente. Davanti. A. Uno. Schermo. Velocemente. Qua i punti ci stavano bene…

Il problema è che ci siamo abituati troppo alla velocità della vita. Non riusciamo più a trattenere nulla, ad assaporare. Sintetizziamo. A volte si sente il bisogno di  “chiudere gli occhi per fermare qualcosa che è dentro te ma nella mente tua non c’è”. E respirare. E dargli tempo. Dargli spazio. Invece, le relazioni digitali vanno di corsa, richiedono velocità, Non c’è tempo per ragionare, per rallentare, per riflettere, per spiegare, per chiedere scusa, per esprimere un concetto che riguardi gli infiniti ambiti della vita quotidiana. Figuriamoci se c’è tempo per stringersi la mano, baciarsi, abbracciarsi, camminare fianco a fianco. A che scopo, se ci sono decine di emoticon pronte all’uso che sintetizzano benissimo altrettanti gesti? In passato, per curiosità, ho letto la corrispondenza tra i fisici e i matematici dell’800. Si trattava di lettere lunghissime e rispettose in cui venivano dibattute questioni complesse per arrivare a una qualche conclusione. Non c’era un vincitore. Le conversazioni digitali vogliono che spesso ci sia un vincitore e un vinto. E, nella competizione, le emoticons hanno un ruolo centrale. La dinamica è spesso la seguente: si inizia a scambiare messaggi in modo soft e, per un motivo o per un altro, si arriva al climax, a un punto di rottura in cui la rabbia è esplosa, il viso diventa rosso come il succo di melograno e il cuore galoppa come Furia cavallo del west. Ma non si può reagire, c’è lo schermo, bisogna usare un’emoticon. Ma per rappresentare bene quello stato d’animo, servirebbe una gif animata che raffiguri Mario Merola in modalità “piazzata” che spara minacce casuali del calibro di “T’accid ‘a madre”. Invece no, qual è l’emoticon che si usa per rappresentare quello stato di agitazione e tagliare corto? Il pollice alzato di Fonzie, usato non per dire “tutto ok” ma per un più provocatorio “stai bene così”. E chi lo usa conosce benissimo la reazione violenta che suscita nell’avversario e che va ben oltre le minacce di Mario Merola: roba tipo “te lo spezzerei, quel pollice, se fossi lì”. Ma per fortuna c’è  sempre uno schermo. Il pollice non è vero, è un fake pollice, che conduce a una verità incontrovertibile: se Leibniz avesse risposto all’epistola prior e all’epistola posterior di Newton con un pollice alzato, probabilmente non avremmo mai conosciuto Le monadi e la gravitazione universale…

Paradossalmente, però, e questo è veramente un mistero comunicativo, l’immagine che rappresenta l’incazzatura (passatemi il termine) esiste, si tratta di una faccetta rossa e arrabbiata che non assume mai il reale significato a cui è deputata. Non viene presa sul serio, perché, diciamo la verità, quando parte l’embolo della rissa, a nessuno verrebbe in mente di assumere l’espressione di una faccetta rossa simpaticamente imbronciata.

Ben più pericolose sono le emoticon che rappresentano le diverse sfumature d’amore. E le diverse sfumature di ipocrisia e di falsità. C’è un abuso di simboli mielosi che nella realtà non si trasformerebbero mai in azioni concrete. Baci e bacetti inviati a persone che dal vivo non vorresti toccare nemmeno con la canna da pesca. Invece la rete prolifera di bit che trasportano cuori e baci “cuorosi” a chiunque, anche a perfetti sconosciuti, per fingere empatia o per esprimere un qualche sentimento. Tanto c’è lo schermo del telefono a fare da filtro. Dall’altra parte, però, c’è sempre qualcuno che interpreta, fraintende, spera, soffre… e spesso l’altra parte non si capisce bene quale sia, se quella del mittente o del destinatario.

Se gli scambi virtuali tra due persone stanno dimostrando ampiamente le difficoltà relazionali di questa e delle future generazioni, gli scambi di gruppo denotano dei disagi ben più importanti, che rafforzano l’impressione espressa da Umberto Eco qualche anno fa, ovvero che “internet ha dato diritto di parola a legioni di imbecilli”. Per esempio, se In un gruppo c’è qualcuno che scrive, che so, Qualcuno sa dirmi la vera ricetta della coda alla vaccinara?, la risposta non proviene soltanto da chi ha qualcosa da dire. Ci mancherebbe altro. Ognuno deve dire la sua. E quando ricapita un momento di visibilità? No. Io no. NO! Io no, mi dispiace. Io ce l’avevo, ma l’ho persa. Provo a chiedere a mia nonna e ti faccio sapere. Io no, ma ho quella degli strozzapreti alla romana, va bene lo stesso? Te la darei volentieri, ma sono fuori casa. Decine di messaggi per non ottenere nulla, a parte un aumento non richiesto del traffico di rete. Poi ci sono le comunicazioni di servizio, quelle che bisognerebbe leggere senza replicare e che invece danno luogo alle 50 sfumature di “grazie”. Grazie. Grazie! Grazie mille. Grazie davvero. Grazie (cuoricino). Grazie (emoticon circondata da cuoricini).Ma grazie! Di nulla. Grazie a te. E infine ci sono gli auguri, quelli che nella realtà nessuno ricorda, a parte quelle poche persone che ci tengono sul serio. In ogni caso, al segnale di auguri si scatena ogni volta l’inferno. Un trionfo di faccette festanti, bicchieri brindanti e coriandoli di ogni tipo. Forse dipende dall’età, forse dipende dalla stanchezza, forse dipende dalla scarsa capacità di comprendere dei valori diversi perché sono troppo ancorato ai miei, ma queste relazioni non riesco proprio a viverle con partecipazione. Dignitoso distacco. Eppure sostengo la trasformazione digitale da sempre e in quasi tutti gli innumerevoli aspetti positivi di cui è portatrice. Tranne questo. Non lo comprendo. Ho bisogno di tutte quelle manifestazioni di cui l’uomo è capace di esprimere solo dal vivo. Insomma di quella vita che la virtualizzazione dei sentimenti in qualche modo ha offuscato. Ad maiora 👍

I dati bugiardi

Posted on 6 Aprile 202125 Dicembre 2022 by admin

I dati statistici permettono di descrivere un certo tipo di fenomeno (naturale, sociale, etc.)  e di rappresentare la realtà con una buona approssimazione: questa è la buona notizia. La brutta notizia è che, laddove nel processo di produzione e di diffusione non sia applicato un metodo scientifico rigoroso, i dati statistici possono prestarsi a interpretazioni fantasiose e possono dar luogo a una conseguente distorsione della verità. La storia, anche la più recente, ha ampiamente dimostrato che una bugia “certificata” attraverso i dati può essere trasformata in una falsa verità supportata da numeri e opinioni, diffuse in contesti social-televisivi, che non provengono quasi mai da analisi scientifiche approfondite, ma da sensazioni o interessi personali. Questi ultimi, in particolare, inducono l’interessato a narrare capziosamente i dati, aggiungendo al racconto una buona dose di pathos e di trasporto emotivo che non hanno nulla in comune con la rigorosità scientifica. Umberto Eco ha insegnato che in qualsiasi narrazione esiste un patto narrativo tra l’autore e il lettore. Nel caso dei dati, affinché la narrazione sia quanto più possibile vicina alla verità, è necessario che il produttore conosca a fondo il fenomeno che sta descrivendo e i metodi per rappresentarlo con il massimo rigore scientifico possibile. Il lettore, invece, dovrebbe avere un insieme minimo di conoscenze per capire il significato di ciò che sta leggendo e metterlo in dubbio, se necessario. Questa condizione è molto infrequente poiché, spesso, anche gli addetti ai lavori sottovalutano le insidie del mestiere e, soprattutto, sottovalutano il nesso che c’è tra il dato statistico e le finalità di chi lo produce o lo diffonde.

Il metodo utilizzato per trarre in inganno i fruitori dei dati è collaudato e funziona molto bene: si sceglie la verità (o la bugia) che fa comodo e si supporta con una certa interpretazione dei dati, omettendo volutamente informazioni metodologiche o altre interpretazioni più veritiere. Accade spesso che, tra le tante interpretazioni associate ai dati, non prevalga mai quella più vicina alla verità ma quella più verosimile: e questo, laddove ci siano intenzioni dolose, o semplicemente superficialità, è molto pericoloso.

La credulità nei numeri, che deriva dalla scarsa conoscenza della matematica e della statistica, dà la possibilità ai malintenzionati di trasformare le falsità in verità e viceversa. La comunicazione, i notiziari e gli articoli sono pieni di esempi di questo tipo. L’interpretazione di qualsiasi fenomeno attraverso i dati dovrebbe essere introdotta da una frase di pericolo, come avviene per i pacchetti di sigarette, qualcosa del tipo “Con i dati si può mentire: leggere con cautela, pensare, ragionare e dubitare. Sempre”.

“Siamo invasi dai migranti” è una notizia che viene utilizzata frequentemente allo scopo di far leva sulle paure di chi vede nella diversità un pericolo e nella povertà una minaccia: questo per raccogliere consensi elettorali o per altri motivi poco nobili. Ci sarebbe da chiedersi come sarebbe una società in cui questa stessa informazione fosse divulgata in modo martellante sotto un’altra forma, descrivendo la diversità come un’opportunità e la povertà come un’occasione per abbattere le barriere piuttosto che alzarle. Di certo c’è che, a fronte di un titolo simile, un’esigua minoranza di persone consulta i dati prodotti dalla statistica ufficiale. Una minoranza ancora più ristretta riesce a contestualizzarli e a rendersi conto autonomamente che non c’è nessuna “operazione invasione” in corso. Uno dei peccati capitali delle informazioni statistiche riguarda la diffusione dei valori assoluti senza le adeguate descrizioni e contestualizzazioni. E anche dei valori relativi (percentuali) senza le dovute precisazioni. Quel numero, 700 migranti, significa tanto o poco? Diciamo che tanto e poco non hanno mai un significato vero e proprio, se non viene specificato “rispetto a cosa”. Effettivamente, in un villaggio di 10 abitanti, 700 può essere “tanto”, ma in una metropoli di 5 milioni di abitanti è relativamente “poco”. Se però, all’interno della stessa metropoli, i 700 migranti vengono fatti alloggiare in un comprensorio, ecco che per la percezione “locale” il numero significa di nuovo “tanti”. Se poi si considerano i dettagli temporali, ovvero il  periodo in cui si analizzano i dati complessivi (generalmente lo stock riferito all’anno solare), e lo status (rifugiati, richiedenti asilo politico,  minori non accompagnati o persone che si ricongiungono con un famigliare) ecco che la descrizione del fenomeno cambia ulteriormente in maniera radicale.

C’è poi un’altra questione, sempre riferita alla contestualizzazione dei dati,  che non deve essere trascurata: la definizione delle variabili analizzate.

Un articolo di questo tipo, per esempio, prima di suscitare indignazione per la situazione occupazionale del Paese, dovrebbe indurre il lettore a porsi parecchie domande: Chi sono gli occupati a cui fa riferimento la notizia?, Quali metodologie sono state utilizzate per ricavare quel numero? Che cosa rappresenta quel dato? Qual è l’errore statistico considerato?

I non addetti ai lavori probabilmente non sanno che esiste una definizione, condivisa dopo molti anni dall’Istat, dall’Inps e dal Ministero del lavoro, che identifica gli occupati nelle persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento (a cui sono riferite le informazioni):presentano una delle seguenti caratteristiche:

  • hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura;
  • hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente;
  • sono assenti dal lavoro (ad esempio, per ferie, malattia o Cassa integrazione).

Se questa definizione (peraltro incompleta per motivi editoriali) potrebbe essere lontana dall’idea comune di occupato, le interpretazioni dei dati diffusi dalle principali istituzioni prima di giungere all’accordo sono ancora più complesse e articolate da comprendere. Questa definizione, oltretutto, è integrata da altre definizioni specifiche (disoccupato, occupato a tempo indeterminato, etc), che permettono di fornire descrizioni più dettagliate riguardo alle diverse forme di occupazione. È sufficiente questa osservazione per fornire una chiave di lettura migliore? Ovviamente no. La definizione deve essere riferita a una metodologia di calcolo scientificamente valida, altrimenti resta priva di senso. I dati riguardanti gli occupati possono essere elaborati attraverso diverse fonti, integrate o meno tra loro, attraverso le quali descrivere la situazione occupazionale da diversi punti di vista. In generale, per rispondere alla domanda “quanti sono i/gli… ?”, si ricorre a due metodi, ciascuno dei quali può introdurre degli errori: o si contano tutti gli oggetti di analisi, o si stima il numero attraverso un campione. Tempo fa, mi sono imbattuto in un articolo in cui si affermava che, secondo uno studio non meglio specificato, i topi presenti a Roma fossero circa 6 milioni.

Che metodologia ha adottato chi ha condotto lo studio? Escludendo a priori che possa aver contato i topi uno a uno, e in quel caso si sarebbe trattato di un censimento, che avrebbe dato luogo a un “archivio amministrativo dei topi” con tanto di nome, cognome e indirizzo, l’ipotesi più sensata è che abbia stimato la popolazione totale di ratti attraverso un campione rappresentativo. Le parole stima e campione rappresentativo dovrebbero essere introdotte per legge a corredo delle informazioni diffuse dai media, per evitare ogni tipo di misunderstanding. Nella quasi totalità dei casi, infatti, i dati statistici rappresentano la stima di un certo fenomeno, non la misura di una verità assoluta e incontrovertibile, derivante dall’analisi di dati raccolti attraverso metodi censuari o campionari. Le stime, per definizione, sono corredate dall’errore statistico campionario e non campionario: il primo deriva dalle tecniche di campionamento, il secondo dagli strumenti e dai metodi di rilevazione. Questa affermazione, che potrebbe sembrare ovvia, non lo è affatto quando si tratta di comunicare un dato alla popolazione. Dichiarare apertamente che un dato è associato a un certo margine di errore, possibilmente descritto accuratamente in tutti i suoi aspetti, induce il lettore a dubitare e a interrogarsi sulla possibile falsificazione popperiana dei modelli applicati. Un campione statistico, per quanto accurato e rappresentativo possa essere, introduce sempre una qualche distorsione e un errore che può essere più o meno accentuato laddove si stimi la misura di fenomeni oggettivi (ad esempio il numero di biglie bianche e rosse presenti in un contenitore) o di “opinioni” derivanti da questionari sociali e indagini di mercato. Analogamente, un archivio amministrativo è affetto da altri tipi di criticità, ugualmente complesse, che necessitano di “aggiustamenti” spesso molto complessi per poter essere utilizzati a scopi statistici. In entrambi i casi, è vero che uno studio condotto su un campione o su un archivio amministrativo non può essere migliore del campione o dell’archivio su cui si basa. È altrettanto vero che da un campione (di)storto non può nascere un dato dritto. Tra le ulteriori tecniche di distorsione della realtà c’è sicuramente l’utilizzo fraudolento e spericolato di quello che nella statistica prende il nome di ’”indice di posizione”, ovvero di quel “numero” attraverso il quale si sintetizzano i risultati di un’elaborazione statistica. Gli indici di posizione più utilizzati per sintetizzare le analisi statistiche sono la media, la moda e la mediana. Anche in questo caso, è utile far riferimento a una notizia vera (o verosimile?) diffusa dai media senza le giuste avvertenze, per mettere in risalto alcuni aspetti interessanti.

Indicare il salario medio dei lavoratori di un’azienda potrebbe avere un senso laddove si abbia un certo interesse a livellare verso l’alto la rappresentazione delle retribuzioni: in un’azienda in cui ci sono tre lavoratori, uno che percepisce un salario da 5000 euro e due che ne percepiscono 500, il salario medio aziendale è 2000 euro. Lo stesso fenomeno, descritto attraverso l’uso della moda,  dà una lettura diversa:  il salario più diffuso nella stessa azienda ammonta 500 euro. La mediana, invece, suggerisce che circa la metà dei dipendenti percepisce meno di 500 euro e l’altra metà di più. Le tre affermazioni sono vere, ma ognuna descrive un aspetto diverso della stessa verità. Il problema, in questo caso, non è l’indicatore statistico, ma è l’uso che se ne fa a fare la differenza…

Potrei continuare per pagine a elencare le possibili insidie dei dati statistici, ma diventerebbe estremamente noioso e poco utile. È utile, invece, riflettere su una domanda: “Quali e quante notizie e report relativi alla pandemia hanno rispettato i requisiti minimi richiesti per la produzione e la diffusione di un dato statistico di qualità?”.

L’industria dei dati pubblici, il motore della riforma della PA

Posted on 29 Marzo 202111 Giugno 2021 by admin
alessandro capezzuoli

Aperti, aggiornati, strutturati, machine readable e corredati dai metadati: i dati prodotti dalle Pubbliche Amministrazioni, per essere realmente utilizzabili, dovrebbero avere almeno queste caratteristiche. Sono decenni, ormai, che si sente parlare delle numerose possibilità offerte dai dati e delle ricadute, in termini di conoscenza e di benessere collettivo, conseguenti alla loro condivisione. Eppure, nonostante nel settore privato sia evidente il valore attribuito ai dati, talmente elevato da essere “pagato” con un corrispettivo in servizi gratuiti di ogni tipo, il settore pubblico sembra ancora troppo inconsapevole delle potenzialità informative di cui dispone e impreparato rispetto alle politiche da attuare. In realtà, l’impreparazione è più che altro dovuta a una specie di ostruzionismo burocratico e formale che impedisce di definire degli accordi snelli e veloci tra le amministrazioni. Per questo, la condivisione dei dati, prima di arrivare alle questioni tecnologiche riguardanti la cooperazione applicativa, viene ostacolata da protocolli d’intesa manzoniani firmati e controfirmati da dirigenti, direttori e presidenti, che, nel migliore dei casi, richiedono mesi di tempo per essere formalizzati. Nel peggiore, le trattative terminano con un nulla di fatto. C’è stato un periodo, circa quindici anni fa, in cui parlare di condivisione e open data andava di moda: chiunque si lanciava in riflessioni fantasiose e proiezioni spericolate di ogni tipo, a volte veniva perfino interpellato chi ne sapeva realmente qualcosa e che, proprio per questo motivo, è stato escluso dai consessi importanti. Poi, la moda è passata e la questione open data è stata considerata più o meno risolta. Anche perché si è palesata una parola sicuramente più comunicativa, misteriosa e affascinante, il termine “big”, che ha avuto il potere di arrestare il processo di diffusione e di condivisione dei dati: tutto si è fermato ad alcune esperienze virtuose e a qualche file di testo che ancora resiste, eroicamente appeso alle pagine di un sito dimenticato, come una vecchia canottiera a costine stesa sui fili arrugginiti di una casa abbandonata. Come spesso accade, la normativa esiste ed è chiara: l’articolo I del CAD prevede che i dati aperti debbano essere:

  • disponibili con una licenza o una previsione normativa che ne permetta l’utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali, in formato disaggregato;
  • accessibili attraverso le tecnologie digitali, comprese le reti telematiche pubbliche e private, in formati aperti e provvisti dei relativi metadati;
  • resi disponibili gratuitamente attraverso le tecnologie digitali, oppure resi disponibili ai costi marginali sostenuti per la loro riproduzione e divulgazione (salvo quanto previsto dall’articolo 7 del decreto legislativo 24 gennaio 2006, n. 36).

A dispetto delle norme, però, la situazione reale è ben diversa. In primo luogo perché all’interno delle PPAA non sembrano esserci molte persone che conoscano approfonditamente i dati e il loro ciclo di vita e siano in grado di attuare strategie di condivisione stabili e di lungo periodo. I dati prodotti e condivisi dalle istituzioni, almeno di quelle che fanno parte del Sistema Statistico Nazionale, dovrebbero garantire la qualità, la completezza dei metadati e il rispetto degli standard internazionali di diffusione. Per produrre dei dati con queste caratteristiche, occorre industrializzare il processo di produzione e fare in modo che la diffusione non sia il compito di qualche volenteroso che inserisca manualmente un file di testo su uno dei tanti portali, ma la conclusione di un flusso informativo che passi per la raccolta, la validazione, l’archiviazione, la pubblicazione e, possibilmente, la visualizzazione. Costruire “l’industria dei dati pubblici” è molto oneroso e impegnativo: la pandemia ha dimostrato ampiamente l’impreparazione del sistema Paese, soprattutto in una situazione di emergenza, nella costruzione di una metodologia di raccolta rigorosa e affidabile e di un sistema di validazione e di condivisione trasparente e strutturato. Questi limiti, in una condizione di normalità, devono spesso fare i conti anche con la duplice anima delle istituzioni, che producono contemporaneamente dati di flusso e dati di stock. I due processi produttivi, pur avendo degli elementi comuni, sono governati da logiche molto diverse e richiedono l’impiego di metodologie e di tecnologie differenti per quanto riguarda le fasi di validazione, di diffusione e di visualizzazione. I dati di stock sono trattati attraverso l’impiego di tecniche consolidate e vengono aggregati con lo scopo di descrivere un certo fenomeno nella sua interezza, i dati di flusso descrivono l’evoluzione temporale di un fenomeno e, oltre a essere numericamente più consistenti, hanno delle specificità che richiedono trattamenti e tecniche di validazione e di diffusione diverse dai dati di stock, anche in relazione al GDPR. La validazione dei dati di stock, generalmente riferiti a un intero anno, richiede molto tempo in quanto gli archivi si devono consolidare e il processo scientifico per garantirne la qualità è molto oneroso: questo vincolo non consente di avere dati aggiornati in tempo reale, ma permette di descrivere i fenomeni con molta precisione. La validazione dei dati di flusso segue un iter molto diverso, attraverso il quale non è al momento possibile garantire la stessa qualità dei dati di stock, ma in compenso risponde al bisogno crescente di numerosi ambiti di ricerca.

C’è poi una questione delicata che riguarda la distinzione tra i dati di sintesi e i dati puntuali: i primi possono essere trattati e condivisi senza vincoli particolari, i secondi, nella maggior parte dei casi, sono soggetti alla regolamentazione sul trattamento dei dati e impongono numerosi limiti non solo alla diffusione ma anche al trattamento e all’analisi da parte dei ricercatori.

Superato lo scoglio organizzativo e metodologico, che già di per sé rappresenta un limite notevole, c’è da affrontare la questione politica. Nonostante i proclami e le linee guida (molto spesso ignorate) dell’AGID, le pubbliche amministrazioni sono ancora dei feudi nei quali regnano le regulae societatis dei gesuiti, ovvero l’obbedienza incondizionata alle volontà dei superiori gerarchici e la negazione dell’evidenza, attraverso l’omissione della diffusione della conoscenza, per indirizzare il pensiero per mezzo di ordini precisi dettati dalla Divina Provvidenza, che, chissà perché, ha sempre sembianze molto umane. Questo aspetto rende gli archivi delle istituzioni assimilabili a dei fortini inespugnabili, protetti da un recinto chiamato “privacy”, che ne legittima di fatto l’isolamento. Se è vero che negli ultimi anni la collaborazione tra istituzioni è stata rafforzata, e alcuni archivi, soprattutto stock, sono stati condivisi, è altresì vero che le metodologie adottate per la condivisione dei dati sono assolutamente inadeguate rispetto ai mezzi disponibili e fanno ricorso ancora a vecchi e insicuri metodi di trasferimento manuali (upload o FTP). In altre parole, non esiste una governance nazionale che definisca strategie, metodi e infrastrutture di condivisione, esistono più che altro prassi sedimentate che non tengono conto delle evoluzioni del mondo e della tecnologia e, soprattutto, della necessità di creare un’industria dei dati pubblici. Eppure, le pubbliche amministrazioni dispongono di patrimoni informativi ricchissimi, che vanno dalle caratteristiche dei singoli individui ai dati economici, dai fabbisogni di personale ai bilanci, dalle competenze alle professioni svolte, attraverso i quali sarebbe possibile attuare consapevolmente tutte le riforme di cui il Paese ha bisogno. Il rinnovamento della PA passa attraverso un reclutamento del personale più efficace e consapevole, un’erogazione dei concorsi pubblici fluida e trasparente,  una valorizzazione del merito, della conoscenza e dell’esperienza dei lavoratori, un’ottimizzazione delle spese e degli assetti organizzativi attraverso l’attuazione di politiche sul lavoro sostenibili in termini economici, produttivi e ambientali. È difficile, se non impossibile, immaginare una riforma che, ancora una volta, ignori il valore dei dati e faccia ricorso alla volontà della Divina Provvidenza. Se è proprio necessario arrendersi all’idea che la salvezza degli uomini non sia frutto del contributo di ciascun individuo al benessere della collettività, ma una specie di miracolo compiuto da uno dei tanti salvatori della Patria, molto cari alle masse, tanto vale identificare il salvatore nei dati e non in un santone improvvisato che dispensi l’elisir delle riforme perfette.

La burocrazia digitale difensiva ti guarda

Posted on 29 Gennaio 202111 Luglio 2021 by admin
alessandro capezzuoli

La digitalizzazione, grazie agli ingenti finanziamenti europei destinati alla trasformazione digitale, diventerà presto un tormentone e occuperà gli spazi dei media lasciati inevitabilmente vuoti dalla pandemia. Le parole “contagi”, “assembramenti” e “distanziamento sociale” saranno sostituite dalla parola “digitale”, che accompagnerà qualsiasi altra parola, fosse anche pastiera o ragù. La burocrazia difensiva digitale (BDD) non appartiene al profluvio di termini e acronimi usati per parlare di digitalizzazione, forse perché non sarebbe un vanto ammettere che, in Italia, una delle poche cose che è stata trasformata digitalmente con successo è proprio lei, la burocrazia difensiva, quella specie di malcostume diffuso e conosciuto dai tempi manzoniani di Don Abbondio. La BDD, acronimo di cui rivendico la paternità, è una strategia che si mette in atto senza regole vere e proprie, ma attraverso una serie di comportamenti, di procedure e di pratiche studiati appositamente per proteggere un’istituzione e i suoi rappresentanti attraverso un insieme di meccanismi lenti contorti e inefficaci, ma formalmente perfetti, che permettono, in caso di necessità, di scaricare le responsabilità su qualcun altro fino a confondere la acque al punto tale da non poter individuare più chi sia responsabile di cosa.  È diffusa ovunque e viene applicata a qualsiasi contesto: dalle politiche di diffusione dei dati pubblici all’erogazione dei servizi ai cittadini. Chiunque “pratichi”  la burocrazia difensiva contribuisce a trasformare un flusso logico qualsiasi in una specie di percorso tortuoso e illogico che complica i processi, anche i più semplici, alla radice.

La burocrazia difensiva prevale sulla tecnologia e rende di fatto arduo parlare di una digitalizzazione vera e propria del Paese, perché non esiste una tecnologia che possa modificare il malcostume collettivo. Un malvivente con l’obiettivo di truffare il prossimo può raggirare gli altri attraverso il web o attraverso una divisa falsa: cambia il mezzo, ma il fine resta lo stesso. Per capire bene come si attui la BDD, vale la pena leggere un libro scritto da Andrea Camilleri e intitolato “La concessione del telefono”, Si tratta di un romanzo in cui è narrata la storia di un commerciante alle prese con una richiesta innocente: ottenere la concessione di una linea telefonica per mettere in comunicazione il magazzino della sua attività con l’abitazione del suocero. Nel romanzo, quella che sembrava una semplice formalità, grazie a una serie di equivoci, di collusioni mafiose, di cavilli burocratici, di imprecisioni nei documenti scambiati tra il protagonista e numerosi personaggi ambigui, impreparati e corrotti, si trasforma in una farsa grottesca. Alla fine, l’unico innocente, colui che aveva chiesto la concessione del telefono, viene accusato di essere un sovversivo e di avere una relazione clandestina con la moglie del suocero (cosa peraltro vera), il quale, avendo scoperto per caso la tresca e il motivo reale della richiesta di installazione della linea telefonica, lo uccide. In tutto ciò, i carabinieri, puniti in precedenza per aver perseguitato il malcapitato, omettendo alcuni fatti e inventandone altri, ricostruiscono l’uccisione a loro piacimento, per dimostrare che la morte del protagonista fosse dovuta a un goffo tentativo di costruire una bomba da utilizzare in un attentato, avvalorando l’accusa di sovversione. Questa storia, ambientata alla fine dell’ottocento, è più che mai attuale e non si discosta molto dalla realtà. Per di più, permette di immaginare cosa accadrebbe nel caso in cui si sostituisse ai documenti cartacei  un insieme di strumenti tecnologici, quali possono essere lo SPID, la PEC o un’applicazione per l’archiviazione e la conservazione digitale dei documenti elettronici. Non accadrebbe niente di diverso: l’epilogo sarebbe esattamente lo stesso perché la tecnologia diventa inefficace laddove venga inserita in un processo lacunoso, torbido e ingovernabile. Adeguando la tematica romanzesca ai tempi moderni, la concessione del telefono potrebbe essere assimilata alla richiesta del reddito di cittadinanza, alla richiesta di un trasferimento di residenza o dell’erogazione di un qualsiasi servizio, per esempio nella sanità pubblica. Una visita specialistica si può richiedere attraverso il CUP, ma in alcuni casi, per velocizzare l’iter, si può chiedere contemporaneamente anche al figlio di un’amica, che conosce una scappatoia e suggerisce di compilare un modulo a parte, da firmare digitalmente e inviare tramite la pec a un certo indirizzo, ma per sicurezza anche da stampare e consegnare a mano, dopo averlo debitamente sottoscritto. Se la copia cartacea del documento è accompagnata da un bel cesto natalizio, tanto meglio, l’importante è che formalmente tutto sia regolare.

Uno dei migliori risultati ottenuti dalla digitalizzazione della burocrazia difensiva è proprio questo: la possibilità di dimostrare a un giudice o a un superiore gerarchico la regolarità formale delle procedure adottate, attraverso delle prove da esibire, per scaricare la colpa su qualcun altro. Nella maggior parte dei casi, l’unico strumento che hanno i cittadini per sopravvivere alla BDD è la connivenza abbinata a qualche scappatoia. Il paradosso è che i responsabili di questa situazione non esistono. Per trasformare digitalmente l’Italia bisognerebbe prima di tutto eliminare la burocrazia. Per eliminare la burocrazia è necessario dare fiducia ai cittadini. Per dare fiducia ai cittadini è necessario renderli responsabili e consapevoli attraverso degli investimenti culturali efficaci e di lungo periodo. Per fare degli investimenti culturali è necessario che i rappresentanti dello Stato abbiano una cultura diversa da quella dei cittadini. Ma i cittadini sono lo Stato…

Insomma, per vedere compiuta una vera e propria digitalizzazione, bisogna armarsi di pazienza e ironia, e, soprattutto, non bisogna mai perdere di vista quell’aspetto culturale che ci contraddistingue e che Pirandello aveva descritto magistralmente nel libro “I vecchi e i giovani”.

“Ed eran calati i Continentali a incivilirli: calate le soldatesche nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato, l’ungherese colonnello Eberhardt, venuto per la prima volta in Sicilia con Garibaldi e poi tra i fucilatori di Lui ad Aspromonte, e quell’altro tenentino savojardo Dupuy, l’incendiatore; calati tutti gli scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anch’essa con provvedimenti eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi a servizio dei deputati ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali; spese pazze, cortigianerie degradanti; l’oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta dalla legge, e assicurata l’impunità agli oppressori…”.

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