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ALESSANDROCAPEZZUOLI

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La vera storia della Palerma.

Posted on 12 Dicembre 202013 Aprile 2021 by admin

Quand’è che ho iniziato a sentirmi geneticamente inadeguato alla vita? Dunque, vediamo… a pensarci bene, credo che la battaglia contro l’inadeguatezza sia iniziata da subito, nello stesso momento in cui la mia testolina si è palesata a quella grandissima testa di minchia del ginecologo di mia madre. Diciamo la verità, all’inizio di questa storia ho fatto un po’ lo sborone: ho parlato di carpiati e di uscite trionfali ed eleganti, ma in realtà avevo deciso in tempi non sospetti, più o meno da quando ero uno spermatozoo vagabondo, che non avrei abbandonato quella casa calda e accogliente, nella quale non pagavo le tasse, il vitto e l’alloggio erano gratis e, soprattutto, lo spazio era insufficiente per ospitare altre persone oltre al sottoscritto. Avrei lottato con ogni mezzo a mia disposizione, per rendere la vita difficile a qualsiasi figlio di puttana avesse avuto intenzione di sfrattarmi. Così, il giorno dello sfratto, mi sono ancorato con tutte le mie forze a qualsiasi organo trovassi lungo il periglioso viaggio verso l’uscita. Ho fatto un po’ come quei disgraziati che si legano a un termosifone pur di non abbandonare la casa occupata abusivamente. Non avendo termosifoni a disposizione, però, ho usato quello che ho potuto, fino all’ultimo penoso tentativo di legare il cordone ombelicale al rene di mia madre. Niente, quel grandissimo cornuto la sapeva lunga e, quando ha visto che opponevo resistenza, non ha esitato a infilare le mani dove nemmeno mio padre aveva osato, per cercare di tirarmi fuori. Non aveva previsto di trovarsi davanti a un osso duro, però, e non aveva nemmeno previsto il fallimento del ravanamento uterino. E allora cosa si è inventato? Ha preso una specie di ventosa e mi ha risucchiato fuori con la stessa grazia con cui un idraulico stura un cesso. Il risultato è stato una deformazione permanente del cranio ben visibile, che e mi fa rispondere con un bel “Fatti i cazzi tuoi” a chi mi chiede “Ma cos’hai sulla testa?”. Complimenti, professorone, bel lavoro! È chiaro che se uno nasce in questo modo non può essere ben disposto verso il prossimo. Oltretutto, quel genio di ginecologo, un po’ perché era incazzato, un po’ perché ero rimasto senza fiato all’idea di avere la scatola cranica deformata a vita, ha iniziato a darmi una raffica di schiaffi sul culo per sincerarsi che fossi vivo. Sia chiaro, non ho pianto come tutti i bambini, la mia era una contestazione anarchica vera e propria. Urlavo e mi dimenavo come per dire : “Lasciatemi libere le mani che a questo lo sfonno”. Rideva, il coglione, e non c’è niente che mi faccia imbestialire più di un coglione che ride quando sono incazzato nero. Soprattutto se sono nato da poco. Come dire… sto al mondo da dieci minuti e già l’umanità mi sta sul cazzo.

Dopo quell’esordio in grande stile, come ho accennato nelle pagine precedenti, le cose sono considerevolmente peggiorate: non poteva essere altrimenti. Anche perché ero ignaro dei genitori che la sorte aveva deciso di assegnarmi: i più poveri e mal assortiti che potessero esistere. Mio padre non era povero, era un aspirante ricco con ambizioni e manie di grandezza esagerate a cui dava seguito facendo ricorso a stravaganti bizzarrie. Che so, invece di comprare una villa sull’Appia antica, prendendo in subaffitto una stanza in un seminterrato delle case popolari di Piazza Capecelatro. Alfonso Capecelatro, per l’esattezza, un toponimo scelto appositamente per rappresentare degnamente un luogo di merda, che tuttora è composto nemmeno da una piazza vera e propria ma da una specie di slargo occupato in gran parte da una chiesa e contornato da casermoni popolari fascisticamente squadrati. Ora, capisco la voglia legittima di nascondere la ricchezza esagerata, che solo un lavoro umile, umiliante e malpagato può dare, capisco pure la stravaganza di preferire un seminterrato umido in una squallida periferia a un ambiente lussuoso e confortevole, ma, santo cielo, proprio la Palerma ci doveva capitare? La Palerma, per quei due o tre che non la conoscessero, è stata la donna più maliziosa e peccaminosa di sempre, colei che ha dato un senso alla teoria di Darwin e che, secondo gli esperti, rappresentava l’anello di congiunzione tra il mandrillo e il capitone. Non ho mai capito perché fosse soprannominata Palerma, dal momento che non era siciliana e aveva uno spiccato accento abruzzese; forse perché in quegli anni i viaggi erano considerati un evento eccezionale e i soprannomi venivano affibbiati sulla base dei luoghi visitati. Alla Palerma andò di lusso, nel palazzo c’era anche Furbara, che poi tanto furba non era, e Gnocca, colei che ebbe la disgrazia di visitare l’omonima città e di beccarsi questo soprannome in onore della sua cessitudine. Tornando alla Palerma, poiché condividevamo la stessa casa, non potevo fare a meno di assistere a scene che mi hanno causato enormi dubbi sull’identità sessuale. È mai possibile che una donna possa radersi tutte le mattine una barba folta che parte da sotto gli occhi e arriva fin dove non oserebbe battere il sole nemmeno se ne avesse la possibilità? Non sarebbe stato meglio soprannominarla, che so, Frate Indovino? A quanto pare no, e la barba non era nemmeno il suo peggior difetto. Di errori il creatore ne ha fatti parecchi, ma credo che la Palerma sia stato il suo sbaglio migliore, quello di cui andare fieri. Quell’errore che si ammette, dopo anni di negazionismo, una sera a cena con gli amici, tra un bicchiere di Amarone e una pinta di birra. Per fortuna, guardando oltre l’aspetto fisico, nel tempo ho scoperto anche lati peggiori: la capacità di litigare col marito, soprannominato la bestia, utilizzando un gergo da camionista indiavolato, peraltro molto educativo per un ragazzino di pochi anni. Le liti erano un crescendo di insulti, che abbracciavano tutte le sfumature di luoghi in cui andare a far visita e coprivano almeno tre archi generazionali con cui prendersela. Che soddisfazione, sentirli litigare con vernacolare passione: molto ma molto meglio dei film trash degli anni ‘80, ai quali sono approdato già svezzato, con un dizionario di idiomi ben nutrito. Comunque, la cosa che più mi stupiva di quelle liti non erano tanto i reciproci insulti, quanto il gesto finale della Palerma: messa in scena di suicidio a base di simulazione di avvelenamento da candeggina, che fingeva di bere da un fiasco di vino. La prima volta confesso di averci creduto. Si era accasciata per terra e si contorceva dai finti dolori come un tonnetto appena pescato. Venne addirittura la guardia medica, la quale, dopo essersi accertata che l’alito sapeva di carbonara e non di candeggina, andò via incazzata. La scena del finto suicidio si verificava con cadenza settimanale, ma una volta ci fu il colpo di scena: lei uscì di casa sbattendo la porta, senza fingere l’avvelenamento, e la bestia, deciso a ubriacarsi, scambiò il fiasco di vino Cacchione di Nettuno col fiaschetto in cui la Palerma conservava la candeggina. Ne bevve una sorsata a garganella e finì in ospedale. Se la Palerma fosse riuscita a far fuori il marito in questo modo, sarebbe stato un vero e proprio capolavoro da inserire nei manuali di criminologia. Invece, dopo l’incidente, si limitò a mettere in giro la storia che il marito aveva tentato il suicidio per amor suo. Storia che la bestia smentì ampiamente in diverse occasioni. Non vi nascondo che quel fatto turbò notevolmente l’armonia della convivenza forzata e diede a mio padre un forte impulso per cercare non tanto un alloggio popolare quanto una raccomandazione per ottenerlo. Aveva poche risorse per corrompere i funzionari dell’Istituto Case Popolari, ma le utilizzò tutte e alla fine riuscimmo a entrare in graduatoria. Non sto qui a raccontare i festeggiamenti conseguenti alla pubblicazione delle graduatorie, è più interessante soffermarsi sulle bestemmie che tirò giù mio padre, quando apprese l’esito della visita dell’ispettore incaricato di rilevare la nostra situazione patrimoniale. Mia madre, donna di una lungimiranza sconfinata, per intenerire l’ispettore, ostentò più povertà di quanto fossimo in grado di dimostrare. Disse di non avere nulla: niente istruzione, niente soldi, niente prospettive, niente speranze. Solo miseria. Triste, irrecuperabile e sconfinata miseria. Riuscì perfino a dichiarare il falso, giurando e spergiurando che mio padre fosse disoccupato e che per tirare avanti chiedeva aiuto al parroco della chiesa di Santa Maria della Salute. E quello, giustamente, dopo un primo momento di empatia, si infastidì al limite dell’incazzatura e fece una relazione in cui dettagliò l’inadeguatezza patrimoniale in cui versava la nostra famiglia e la conseguente impossibilità di onorare il pagamento del canone mensile. Devo ammettere che quel senso sopraffino per gli affari, che mi ha reso tristemente noto, non è merito del mio intuito, semmai è una preziosa eredità materna che custodisco gelosamente come la colatura di alici di Cetara. Al momento giusto… zac!, mi avvento come una iena sull’affare che ho fiutato e faccio puntualmente la minchiata. Sono un collezionista seriale di fallimenti.

Che poi, se proprio devo essere sincero, un fondo di verità nelle parole di mia madre c’era eccome, perché il parroco spesso ci aiutava come poteva: a volte con qualche vestito usato, altre volte con qualche pacco di pasta,  E chi se lo scorda, padre Manganello… Sì, lo so, prima Don Prudenzio e adesso Padre Manganello: d’altronde non è colpa mia se ho avuto una madre chiesolica, aggettivo coniato dal sottoscritto per descrivere i fedeli scaramantici che credono contemporaneamente in Gesu Cristo, nei maghi e nella chiesa cattolica bigotta. Padre Manganello sembra un nome inventato di sana pianta, ma si chiamava proprio così: Alfio Manganello. Non ho mai capito se fosse il vero cognome o una specie di nome d’arte. I preti, si sa, sono un po’ come gli attori: si immedesimano nella parte, ci credono, recitano un copione collaudato e ogni messa è un successo assicurato come i cinepanettoni. Il pubblico, fortuna loro, è ammaestrato da secoli di lavaggi del cervello, quindi non rischiano nemmeno recensioni negative su Famiglia Cristiana. Fatto sta che quel nome, scelto dal destino o dall’interessato, era quanto di più azzeccato ci potesse essere. Almeno quanto Patty Pravo al posto di Nicoletta Strambelli.

Padre Manganello era palesemente fascista, ma talmente fascista che si faceva il segno della croce invocando il nome del Padre con un gesto… come dire… alla larga, tendendo la mano a mo’ di saluto romano, e ripetendo lo stesso gesto per scambiarsi la stretta di mano coi fedeli in segno di pace. Scambiarsi un segno di pace partendo dal saluto romano è come carezzare il prepuzio con la carta vetrata. Esiste poi un’altra versione sull’origine di quel soprannome, sulla quale però non ci sono fonti certe: i ben informati sostengono che ad averlo coniato sia stata proprio la Palerma, successivamente a una relazione sacrilega avuta con lui. Incautamente, si era lasciata sfuggire una confessione a una riservatissima fedele: “Ce l’ha come un manganello”. A parte la raffinatezza della metafora, supponendo che non si riferisse al naso e che la tesi fosse confermata da un rigoroso processo di revisionismo storico, ci sarebbe da intraprendere azioni energiche per estendere il segreto della confessione anche ai fedeli, non solo ai preti: i rischi a cui si va incontro durante una qualsiasi confessione possono essere elevatissimi…

Tuttavia, la supposta deviazione reazionaria è confermata anche da un’altra evidenza: la  fondazione dell’ordine dei crociatini di Padre Manganello, un gruppo di ragazzini dell’oratorio, esaltati come gli Harlem Globetrotters, che, a differenza di questi ultimi, erano bassi, non giocavano a pallacanestro e avevano una divisa imbarazzante composta da una calzamaglia bianca e da un mantello azzurro. Durante le celebrazioni liturgiche, sfilavano con il piglio dei supereroi tra i banchi della chiesa, e io morivo dalla voglia di far parte del loro gruppo. Prima di considerare l’appartenenza a qualcosa o a qualcuno un disvalore, c’è voluto parecchio tempo: da ragazzo avevo un bisogno disperato di essere notato, di esistere in funzione dell’esistenza degli altri. L’appartenenza ai crociatini di Padre Manganello sarebbe stata la mia grande occasione, per mostrare a tutti che esistevo: per fortuna le mie richieste vennero rifiutate più volte con sdegno. La verità è che ho speso una buona parte della vita per appartenere a un gruppo, a un’ideale o a una donna e poi, quando ho capito quali e quante prigioni si nascondono nelle appartenenze, ho faticato tantissimo per diventare un uomo libero. Detta così, può sembrare che abbia buttato la mia vita nel cesso, e in effetti non si tratta di un’impressione, è proprio così: appena mi sono liberato dalle prigioni che mi sono costruito con le mie mani, son stato emarginato ed escluso dalla società che conta, quella che ha bisogno di schiavi servili, fedeli e obbedienti. Il mio disagio, però, non è stato dettato dall’esclusione e dall’emarginazione perpetrate da persone che contavano poco meno della laniccia dell’ombelico, a quello ci si abitua facilmente. Essere straniero in qualsiasi posto, essere diverso e dover scontare i pregiudizi: questo è il fastidio che mi accompagna da sempre. Comunque, quella storia dell’esclusione dai crociatini ancora mi fa rodere il culo, non fosse altro perché, facendone parte, avrei potuto approfondire la questione dell’origine del soprannome “Manganello” e dare informazioni più precise. Poiché il mio senso di inadeguatezza alla vita era opprimente, e non sapevo con chi prendermela se non con me stesso, avevo trovato un modo per sfogare la mia rabbia: camminavo per ore nei prati e arrivavo fino alla ferrovia, un posto lontanissimo da casa e, soprattutto, lontanissimo da tutti. Se ci penso, sento ancora il profumo delle margherite a primavera e l’odore della pioggia sulle foglie secche in autunno. Per non parlare del rosso dei papaveri o dei tramonti dietro ai fili dell’alta tensione, che mi sembravano bellissimi: i più belli che avessi mai visto. Poi c’erano i treni, quei treni che non finivano mai. Mi passavano davanti agli occhi a tutta velocità, per andare chissà dove, e io stavo là, seduto in mezzo all’erba, a fantasticare sulle vite di persone immaginarie. Inventavo storie assurde, le scrivevo e arrivavo sempre a una conclusione: la mia infelicità aveva una causa. I responsabili erano quei personaggi di fantasia, che avevano vite bellissime a mio discapito. E io li odiavo. Su quei treni viaggiavano, insieme alla gente, tutte le opportunità a cui ambivo, se ne andavano lontano e io ero seduto in quel prato e non sarei mai riuscito a raggiungerle. Cosa poteva aspettarsi, d’altronde, un ragazzino di periferia a cui il destino aveva riservato un’esistenza triste dentro a un seminterrato buio nelle case popolari di Piazza Capecelatro? Non lo sapevo, ma in quei lunghi giorni, in cui ero solo con le mie paure, stavo costruendo l’uomo che sarei diventato. La mia inadeguatezza, diciamolo, spesso era dovuta anche un po’ all’ingenuità che mi portavo dentro e che mi faceva passare per il coglioncello del gruppo. Hai dato fuoco alla fontana con un cerino spento, adesso chiamiamo la polizia e ti facciamo arrestare, mi dicevano i crociatini di Padre Manganello. No, non sono stato io, lo giuro, non chiamate la polizia, vi prego. E giù risate. E giù pianti. Più piangevo impaurito e più ridevano. E correvo via con tutto il fiato che avevo in corpo. Fuggire, quella era la soluzione. Le fughe solitarie, a cui mi abbandono anche adesso per salvaguardare quel poco che è rimasto del bambino che ero, mi hanno insegnato ad ascoltare il silenzio e a cercare di capirne i mille significati. I silenzi non sono tutti uguali, c’è voluto un po’, ma alla fine l’ho capito. E io, modestamente, ho sperimentato tutti ti tipi di silenzio. Ho cominciato coi silenzi semplici, quelli dettati dall’imbarazzo: sto zitto perché non trovo le parole. O le ho finite. Poi sono passato ai silenzi dignitosi, quelli in cui semplicemente non avevo nulla da dire. Ho perso il conto degli esami a cui mi sono sottoposto, avendo a disposizione soltanto il silenzio come arma. Da una parte c’ero io, dall’altra il carnefice pronto a pontificare un qualche tipo di giudizio. E io spesso questa soddisfazione al carnefice non gliel’ho data. Ho taciuto. L’ho lasciato a bocca asciutta e col suo bel giudizio appeso. E i silenzi saggi? Ah, che bellezza! Quei bei silenzi in cui avrei voluto vomitare fuoco e fiamme, dire con furore “Non capisci proprio un cazzo, è giusto che qualcuno te lo dica!”, ma poi mi sono reso conto che non ne valeva la pena e ho fatto la cosa migliore: sono stato zitto. Poi ho sperimentato anche il silenzio protettivo, se ci penso mi faccio tenerezza da solo. Scegliere con cura le parole che possono ferire e non dirle. Cancellarle. Ometterle e sostituirle con altre più dolci, più rassicuranti, più curative. E accorgersi che la cura fa effetto, che il viso di chi ascolta si illumina e non si spegne. Mi vergogno un po’, ma spesso sono ricorso anche al silenzio cattivo, quello indifferente, per esprimere disprezzo e lontananza. Ma i silenzi peggiori in assoluto, quelli che mi hanno consumato a poco a poco i sentimenti puri e immacolati che avevo, sono stati i silenzi rumorosi. Quelli parlati. Quelli in cui sono stato costretto a riempire i vuoti e le distanze incolmabili tra me e chi mi stava di fronte con parole frugate a caso nel copione della commedia che stavo recitando. Le ho pronunciate contro la mia volontà, Signori Giurati. Mi sono violentato, mi sono sforzato per fingere meglio e dare la falsa impressione di essere presente. E gli altri ci hanno creduto. Uh, sì, eccome se ci hanno creduto. Commentavano. Controbattevano. Si sentivano chiamati in causa. Attori di uno spettacolo in cui pensavano di avere il ruolo del protagonista. Invece, lo spettacolo, per me, era finito già da un pezzo. Ma i presunti protagonisti si ostinavano, rivendicavano il loro ruolo. Pretendevano persino di convincermi che, No, non è così come credi, stai sbagliando. Loro protagonisti, io comparsa. Ruoli invertiti. E io semplicemente non ero là, non stavo parlando. Non avevo mai parlato. Non avevo detto niente. Non avevo più niente da dire. Volevo solo scappare, essere altrove. Non io, il cuore, l’anima. Cancellare tutto. Tornare indietro o andare avanti, non aveva importanza, ma in un posto lontanissimo da quel discorso assurdo che non avrei mai voluto fare. Che tristezza. Che dolore. Che sofferenza. Non sarà mai più come prima. Sarà qualcos’altro. Sarà qualcun altro. Saranno parole diverse e silenzi diversi. Mai più questo silenzio rumoroso. Mai più. Io comparsa di oggi, lei attrice di ieri. Dio, quanto mi sono immedesimato in quella canzone di Lucio Battisti. Che ne hanno mai saputo le persone di me? Di un ragazzino che, sul serio, mica come la finzione della canzone, giocava nel buio, si vergognava, era timido, vedeva i raggi di sole che trafiggevano le inferriate di un buio seminterrato e camminava solo fino alla ferrovia, fino a perdersi nel silenzio di quei prati immensi. Quello sì che era un silenzio vero. Puro. Il silenzio dell’innocenza. Lo stupore di fronte all’immensità dei prati e della solitudine.

Poi tornavo a casa e la realtà si palesava ai miei occhi in tutta la sua brutalità.

– Ndó sei stato fino adesso, brutto fijo de ‘na mignotta? Me farai morì, te pozza scoppià lo core.

Di quanta dolcezza era capace mia madre? Che poi, se vogliamo essere precisi, dare del figlio di mignotta a tuo figlio non è esattamente una mossa azzeccata. È come fare involontariamente coming out. In ogni caso, queste erano le parole accoglienti che mi riservava mia madre quando rientravo. Non capiva il dramma interiore che vivevo, ma non gliene ho mai fatto una colpa. Capisce l’inadeguatezza soltanto chi sa di cosa si parla, probabilmente le persone semplici non provano quel fastidio di sentirsi sempre nel posto sbagliato. O meglio, forse non provano la sensazione di sentirsi sbagliati. Mi sentivo sbagliato rispetto a cosa? Rispetto a tutti gli altri, che sembrano più intelligenti, più belli, più felici, più socievoli, più sicuri. E rispetto a quei dogmi precostituiti che vengono coltivati in quel luogo di perdizione chiamato famiglia. È là che vengono costruiti i pregiudizi, le inibizioni, la paura della diversità, il senso di inferiorità, l’esaltazione della competizione e dell’arrivismo. È la che inizi la tua personale battaglia contro il figlio della portiera, che gioca a calcio e ha un futuro brillante chissà in quale squadra, o con tuo cugino, che è tanto bravo, ha tutti 9 a scuola mentre tu sei una pippa a giocare a pallone, perdipiù hai la media del 2,74 e non fai un cazzo dalla mattina alla sera. Nessuno racconta mai tutta la storia con sincerità, perché probabilmente sono in pochi a conoscerla. Nessuno dice che il figlio della portiera, o il cugino con cui sei stato in competizione e che ti ha rovinato l’esistenza, nella maggior parte dei casi non combina mai niente e diventa un anonimo fattorino insoddisfatto, pagato 2 euro a consegna. Mentre il perdente, il solitario, quello strano, il fallito assicurato che non avrebbe mai combinato niente di buono, riesce se non altro a diventare un uomo. Anche se deve far ricorso a tutta la forza e all’energia che ha in corpo. Capirlo non è facile e nemmeno scontato. Devi arrivare ad avere almeno mezzo secolo sulla groppa, avere la cervicale e, cosa fondamentale, aver sprecato quasi tutte le opportunità che avevi, grazie a una serie infinita di minchiate che hai dovuto commettere per forza, per uscirne vivo. Quando l’hai capito, tendenzialmente è tardi. Almeno per me è stato così. Non ho potuto far altro che rimpiangere tutte le alternative che avevo lasciato andare a seguito di una qualche scelta. Il problema non è la scelta ma sono le alternative che si escludono quando si sceglie. Tu scegli di fare un certo tipo di studi e poi, quando non è più possibile tornare indietro, ti accorgi che c’erano decine di argomenti che ti sarebbero interessati di più. Poi inizi a lavorare, per mettere su casa, per avere dei figli, una famiglia, e ti rendi conto ben presto che hai bruciato tutto il resto. Hai bruciato la possibilità di vivere in altri posti o di avere altre donne, magari migliori, magari peggiori, chissà… Hai bruciato la possibilità di fare altri dieci, cento, mille lavori diversi e di metterti ogni volta alla prova. E devi fare i conti con la persona che non sei diventata. Non sei diventato il musicista che sognavi, o la ballerina, o il pittore. Non sei diventato il vagabondo, il solitario in barca a vela, l’attore o lo speaker radiofonico. E sai perché? Perché hai scelto, e ogni scelta nasconde una qualche prigione da cui diventa difficilissimo uscire. Per uscire dalle prigioni che ciascuno si cuce addosso, e diventare finalmente persone libere, bisogna essere disposti ad affrontare prove dolorosissime che non hanno mai vincitori. Bisogna mettere in discussione tutto, gli affetti, i valori bell’e pronti, le soluzioni a portata di mano, gli amici, la famiglia, e sentirsi dire, Sei cambiato, accettando il colpo serenamente, parando l’accusa con un bel, Ho avuto il coraggio di diventare quello che sono. E come si fa a diventare quel pittore che hai dentro? E io che ne so? Sono l’ultima persona a cui chiedere le ricette di un qualche tipo di ambizione. Io ho fallito, ho mancato il successo. Anzi, il successo ha mancato me. O, meglio, ci siamo schivati. Ci stiamo sul cazzo a vicenda. Lui perché ha come target tutti quelli che nella vita ho sempre evitato, i sicuri, gli ambiziosi, i materialisti, i superuomini che considerano essenziale tutto ciò che io ritengo privo di senso, spreco di tempo: lo status, la ricchezza, il potere, un ruolo di comando. Insomma, il successo ama quelle persone che, viste coi miei occhi, come dire… credono di essere ‘stocazzo e in realtà sono più insignificanti della birra analcolica o della mortadella di soia. Il mio contenzioso col successo è iniziato da quando, a forza di letture, disillusioni e delusioni, ho maturato un briciolo di consapevolezza e ho capito più o meno cosa è importante e cosa non conta niente. È la consapevolezza che mi ha fatto accumulare il tempo per stare con la donna che amo, magari a passeggiare sulla spiaggia, quando tutti si affannano a rincorrere il nulla, in una fredda giornata d’inverno. Dalla consapevolezza al disprezzo delle glorie da stronzi, per parafrasare Guccini, il passo è breve. Ma come, io che non permetto a nessuno di esercitare su di me nessuna forma di potere dovrei ambire a rendere schiavo qualcun altro, per sentirmi importante? Sarebbe come dire “Sono comunista” e poi votare per la Lega. Eppure, non c’è niente di più equo e ben ripartito, tra uomo e donna, di quell’’ingannevole desiderio di esercitare il potere sugli altri, per dimostrazione al mondo, dal vivo, non solo attraverso la tastiera di un computer, le merde che siamo. Una coppia, in fondo, altro non è che un sistema chiuso in cui ci sono un controllore e un controllato, in perenne lotta per trovare e mantenere un qualche tipo di equilibrio. Equilibrio che è sempre talmente instabile da andare in frantumi al primo alito di vento primaverile. Spesso, la parte del controllore è assegnata alla donna, ma sono molto frequenti anche le situazioni opposte. A me è sempre capitata la prima. All’inizio c’era una lei che voleva me. Nel mezzo c’era una lei che non voleva esattamente me, voleva qualcosa che aveva in mente e che aveva proiettato su di me. Praticamente ho sempre vissuto nell’illusione di essere l’uomo giusto quando in realtà ero un punto di vista sbagliato. La cosa grave è che mi sono quasi sempre impegnato a diventare quel punto di vista, cedendo alle estenuanti prove di forza e alle trattative al ribasso. Mi chiedo come mai, dopo i primi tempi, si arrivi sempre alla deriva illusoria del cambiamento. Voglio te, ma tu devi diventare come dico io. Come dire, voglio una Panda, ma pretendo che diventi come una Mercedes. Ma, cazzo, non fai prima a comprarti una Mercedes? No, perché la Mercedes non posso permettermela. Se non puoi permetterti una Mercedes, è inutile che ti ostini a pensare che io abbia i sedili massaggianti in pelle: eppure ho sempre messo le cose in chiaro fin dall’inizio. Ho dei sedili sgangherati, rivestiti con un motivo messicano terribile, che si sconocchiano dopo i primi cinquemila chilometri e fanno un avvallamento al centro che favorisce la comparsa delle emorroidi.  Invece, nonostante la chiarezza, la presa di coscienza non c’è mai. Sì consumano vite intere a cercare di trasformare un finestrino a manovella in un silenziosissimo finestrino elettronico. Che poi, è tutto da dimostrare la supremazia della Mercedes sulla Panda. Consuma di più, costa un sacco in manutenzione, si svaluta tantissimo, si rompe né più né meno come l’altra e alla fine ti porta esattamente negli stessi posti. Senza considerare le prove di resistenza coronarica a cui ti sottopone ogni volta che compare un graffietto sul paraurti. Questione di punti di vista, quindi. La verità è che non sono nato Mercedes, non lo sono diventato, e tutto sommato ne sono anche contento. Ho provato a esserlo, questo è vero, ma il risultato non è stato proprio soddisfacente. Da ogni esperienza ho sempre cercato di uscirne migliore, ma il problema è che sono diventato una Panda, col cofano di una BMW, le portiere di una Mercedes, i sedili di una Palio, il design di una Duna, il motore di una Dacia Sandero e le prestazioni di un Ciao senza variatore. Detto così può sembrare un disastro, in realtà quei pezzi “diversi” donati generosamente dagli altri sono stati i libri che non avevo letto, le canzoni che non avevo ascoltato,  i baci che non avevo dato, i piatti che non avevo mai cucinato, i pomeriggi che non avevo vissuto: un tesoro di esperienze sistemate come meglio potevo e a cui ho cercato di fare spazio. Fatto sta che le estenuanti trattative, le liti, i musi lunghi e le accuse reciproche non hanno mai sortito l’effetto sperato, proprio perché gli spazi occupati influenzano fortemente quelli rimasti liberi o perché, se proprio devo cambiare, cambio come e quando dico io.

In tutto ciò, l’unica certezza che ho maturato è questa: non c’è nulla di più pericoloso dell’ambizione al possesso delle cose o delle persone. Che poi, diciamo la verità, più che il possesso delle cose a me interessa il possesso del tempo per fare delle cose. Magari per diventare quel musicista o quel cuoco che ho dentro e che ha bisogno di tutt’altro, per uscire allo scoperto. Oppure per cazzeggiare in giro, inseguendo la famosa libellula in un prato, possibilmente evitando di entrare a far parte di quel mondo di ciechi che ambiscono a una pensione di invalidità piuttosto che al recupero della vista.

Poiché i metodi tradizionali hanno dimostrato ampie fragilità, nel dubbio, ho deciso di non fare più scelte nette e di puntare a vivere tutte le alternative che una scelta porta con sé. Scelgo le alternative e scarto la scelta. Le scelgo tutte. E non mi sottraggo ai dubbi. Dubito e mi interrogo, quando tutti sono sicuri e vanno avanti come branchi di cefali. Ho imparato a dubitare di tutto e in qualsiasi momento: del mio lavoro, della donna che ho accanto, delle maggioranze, della religione e pure dei crociatini di Padre Manganello. Un giorno, in una delle tante fughe dalla cattiveria che solo chi crede in un qualche dio è capace di esercitare, mi sono chiesto

-Ma veramente voglio far parte di quel gruppo ed essere come loro?

La risposta ovviamente non poteva che essere negativa. Ho avuto un attimo di smarrimento, mi sono sentito perso: era crollata la certezza che mi aveva accompagnato per molto tempo. Si era frantumato l’obiettivo della mia infanzia come un bicchiere infrangibile che, quando si rompe, si rompe in milioni di schegge che vanno a infilarsi ovunque. Ne ho vissute altre, di queste delusioni, ci sono state altre bande, altri leader, altre persone, giovani e anziane, con cui ho desiderato far bella figura, fino ad arrivare a una conclusione: di cosa pensano gli altri sul mio conto non me ne frega più un’emerita cippa.

La domanda che mi pongo, a questo punto, è la seguente: “Come ho fatto a diventare quello che sono diventato, a uscire dal tunnel della solitudine e a vincere tutte le timidezze che avevo, trasformandomi magicamente da orso asociale quale ero a cazzone da villaggio turistico?”. Bella domanda… Spontanea. Mi sono colto impreparato e adesso mi tocca improvvisare una risposta. Direi che nella solitudine ci sguazzavo abbastanza bene. Mi ero dato un insieme di regole che ritenevo utili per sopravvivere alla competizione con gli altri e alle umiliazioni delle sconfitte. Ho capito da subito che non ero portato per le competizioni, infatti quelle che ho imprudentemente intrapreso le ho sempre perse tutte. Ho cominciato da quelle scolastiche e ho finito con quelle sentimentali, per conquistare un cuore conteso. Se penso a quanto ho pianto, mi viene da piangere. Certo, vedere scritto su un foglio 1+, il voto ai temi di italiano, con l’aggiunta della frase  “il + è d’incoraggiamento”, non mi ha aiutato a vincere le insicurezze. Né tantomeno lo ha fatto la maestra di Italiano, quella volta che mi disse “Strano, lei è autorizzato a copiare dai suoi compagni, tanto non è in grado nemmeno di fare quello”. Poi dici che uno dà fuoco alla scuola e diventa bombarolo. Dicevo che mi sono dato delle regole per superare i miei enormi limiti. La regola aurea, che tra l’altro funziona ancora, è semplice: gli altri possono farmi del male solo se sono io a dargli questo potere. E ritorniamo a bomba sui danni che può fare qualsiasi tipo di potere. Perché do importanza a quello che gli altri pensano di me? Che ruolo hanno gli altri nella mia vita? È proprio necessario viaggiare insieme o meglio soli? Se Socrate non avesse tirato fuori quella storia dei tre setacci, probabilmente avrei avuto un futuro da filosofo, invece, tutto quello che sono riuscito a fare è stato difendermi dei carnefici. Che non è poco. Piano piano li ho allontanati tutti. Tutti tranne un. Ricordo quel giorno di tanti anni fa come se fosse adesso. Pioveva, e io, tanto per cambiare, me n’ero andato a passeggiare nei campi. Non so perché, ma la pioggia mi è sempre piaciuta. Camminare sotto la pioggia, lasciarsi accarezzare. Impossibile sporcarsi, sotto la pioggia. Ha un’azione benefica su di me, più di una doccia dopo una corsa. Insomma, ero là che camminavo con la fretta di chi non può perdersi quel tramonto dietro i fili dell’alta tensione, con il sole che sembra trafigga le nuvole. Se mi dice bene, riesco anche a vedere un arcobaleno, pensavo. Mentre fantasticavo, ho sentito un rumore, una specie di lamento. Poiché conoscevo bene i rumori di quel posto, ho escluso da subito che si trattasse di una volpe o di un cane. C’è qualche intruso che viene a rompere i coglioni proprio qua. Forse qualche coppia che si è infrattata, lontana da occhi indiscreti. Gliela faccio passare io, la voglia… di inquinare il mio paradiso. Insomma, come direbbe Alberto Sordi, mi dirigo come un lumacone, zitto zitto, verso il luogo del misfatto e che ti vedo? Un ragazzino sdraiato a terra.Che ci fai qua? Questo è il mio posto!

-Te lo sei comprato? È anche il mio, di posto…

-Te ne devi andare, questo posto è sacro.

-Mi sono slogato una caviglia e non riesco a camminare. Comunque non me ne sarei andato nemmeno se fossi stato bene.

-Vuoi che chieda aiuto a qualcuno?

-No, lasciami in pace. Voglio morire qui. Da solo.

-Ma non dire stronzate.

Me lo sono caricato sulle spalle e l’ho portato fino a casa. Facendo ricorso a tutte le mie forze. Fermandomi ogni dieci metri, con le gambe che mi tremavano per la fatica. E da quel giorno, i due ragazzini che volevano morire hanno iniziato un cammino lungo e faticoso. Insieme. Hanno condiviso la timidezza e l’inadeguatezza alla vita, cercando di proteggersi a vicenda, sostenendosi a turno, mettendosi ogni volta alla prova per superare quei limiti che sembravano insuperabili. Cercando di avvicinarsi a quel mondo sconosciuto che li attraeva e li respingeva con la stessa forza: l’universo femminile. E hanno condiviso anche quel prato immenso, che era abbastanza spazioso per entrambi e aveva avuto il potere di trasformare due solitudini in un’amicizia eterna. Quel ragazzino era Alberto.

L’insostenibile leggerezza dei dati

Posted on 9 Dicembre 202011 Giugno 2021 by admin

Cos’è la realtà? Il dizionario definisce la realtà come la qualità e la condizione di ciò che è reale, che esiste in sé e per sé o effettivamente e concretamente. Questo potrebbe significare che per descrivere interamente e precipuamente un fenomeno sia sufficiente osservarlo e accertarne l’esistenza sulla base della propria esperienza, senza bisogno di mettere in discussione l’interpretazione che ne viene data. Il problema è che, in molti casi, la descrizione della realtà non è reale, è un’opinione, e dipende dall’osservatore, dal suo senso critico e dalla sua capacità di analisi. In questo scenario, ognuno costruisce la propria realtà, facendo ricorso alla consapevolezza e alle conoscenze possedute. A chi verrebbe in mente di sostenere che la matematica è un’opinione? Se scrivessi che, sulla base della mia esperienza, per due punti passano tre rette, diverrei poco credibile e probabilmente molti lettori abbandonerebbero la lettura, reputandomi un incompetente: giustamente, peraltro. La questione è proprio in questi termini: la realtà è qualcosa che esiste o è più semplicemente un punto di vista? La scienza moderna, attraverso la teoria quantistica, prevede che una particella subatomica possa essere descritta attraverso l’insieme degli stati che è in grado di assumere e presume che, in mancanza di un’osservazione diretta, gli stati possano sovrapporsi e verificarsi contemporaneamente. Applicando per assurdo questa teoria al mondo reale, si può azzardare un parallelismo: se un uomo è in grado di correre e dormire, potenzialmente può correre e a dormire contemporaneamente… a meno che un osservatore non “misuri” e registri lo stato in cui si trovi l’uomo in un certo momento. Se questo approccio, valido per la descrizione dei fenomeni subatomici, fosse applicabile alla vita reale, sarebbe necessario mettere in dubbio il concetto di realtà e chiedersi: gli oggetti che conosciamo sono reali o assumono quello stato soltanto nel momento in cui li osserviamo? Il sole, ad esempio, si trova esattamente in un certo punto o è là soltanto quando viene osservato? Rispetto a questa domanda, mi sento di rassicurare i lettori: il cosiddetto “realismo locale”, ovvero il principio di azione e reazione applicato alla realtà quotidiana, è in disaccordo con il teorema di Bell, quindi le ipotesi controintuitive della meccanica quantistica non trovano riscontro nella quotidianità. Come si fa, quindi, a descrivere la realtà che viviamo e a renderne oggettiva la descrizione? Esistono realtà locali che possono essere descritte attraverso leggi rigorose, per esempio la caduta di un grave, e realtà locali più sfumate, la cui descrizione può essere influenzata dal punto di vista e dalle interpretazioni personali.

Teoricamente, il metodo per descrivere un fenomeno è sempre lo stesso: c’è  la previsione teorica e ci sono l’osservazione, la misura, la raccolta dei dati, l’analisi, il confronto e la diffusione dei risultati attraverso i quali confermare o smentire la toeria. I fatti recenti hanno dimostrato che, in mancanza di un metodo e di una teoria scientifica “vera” da confermare (i due punti per i quali passa una e una sola retta), i dati possono prestarsi a ogni tipo di interpretazione. In poche parole, un set di dati, raccolti, analizzati e interpretati in modo scorretto, può permettere a chiunque di sostenere qualsiasi cosa, anche la più bizzarra: esattamente ciò che è accaduto con l’epidemia, un fenomeno tutto sommato storicamente conosciuto, che è stato affrontato con un metodo approssimativo e inefficace. Gli addetti ai lavori, quelli silenziosi che non si fanno intervistare dai media, manifestano continue perplessità rispetto alla leggerezza con cui vengono prodotti, analizzati e diffusi i dati riguardanti il coronavirus. Le mancanze sono tante, troppe. Fin dall’inizio, è mancato un metodo scientifico vero e prorpio attraverso cui affrontare il problema; è mancato, per esempio, un campione statistico affidabile che desse la possibilità di effettuare una rilevazione dei tamponi efficace e funzionale alla descrizione esatta del fenomeno. Da un dato rilevato in modo scorretto non possono derivare analisi corrette, questo è evidente. Statisticamente parlando, non ci sono grosse alternative: per rilevare correttamente i dati, si possono usare due metodologie: la rilevazione campionaria e la rilevazione censuaria. O si scelgono con un certo criterio gli elementi da misurare o si misurano tutti gli elementi esistenti. La rilevazione “casuale”, attualmente, non è contemplata tra le tecniche scientifiche  di raccolta dei dati. Soprassedendo su questa gravissima mancanza, c’è da dire che l’utilizzo dei dati raccolti con la tecnica “casuale”, attraverso l’osservazione disorganizzata, ha prodotto fortunosamente alcuni risultati: sappiamo per esempio che esistono un virus e un fenomeno epidemico il cui andamento è descritto da una certa curva. Sappiamo che il virus è più letale tra i soggetti di una certa fascia di età, in alcuni territori nei quali esiste una precisa distribuzione demografica, e che coesistono una popolazione “probabilmente” fragile e una popolazione “probabilmente” meno fragile. La fragilità, oltre ai fattori anagrafici, spesso è influenzata dalla presenza di una o più patologie pregresse. Queste evidenze, seppur faticosamente, e a colpi di insulti tra gli epidemiologi superstar, sono emerse: finalmente si parla della valutazione del rischio, dell’esposizione (in modo più accurato del tormentone “la mascherina chirugica qualcosa fa”) e della probabilità di sviluppare la malattia covid19. È abbastanza singolare che il concetto di rischio, conosciuto da tempo e applicato in diversi ambiti, dalla radioprotezione alle misure di sicurezza nei cantieri edili, si sia palesato dopo molti mesi in cui è sono state prese misure spesso contraddittorie e socialmente pericolose. Personalmente, ho qualche riserva quando sento i rappresentanti dello Stato incolpare i comportamenti dei cittadini, perché, teoricamente, i cittadini sono lo Stato. In ogni caso, finalmente siamo arrivati a istituire delle regioni “colorate”. Se un lettore attento potrebbe affermare che, con il tempo avuto a disposizione, si sarebbero potuti disegnare dei cluster territoriali più precisi e meno vasti, caratterizzati magari dalle caratteristiche demografiche e sociali degli abitanti e dalla densità abitativa locale, un lettore meno attento (e sui social ce ne sono stati parecchi) potrebbe chiedersi perché si sia utilizzato il colore giallo e non il verde: si tratta forse di un complotto della lobby dei pastelli? No, forse, più semplicemente, come nel caso delle allerte meteo, il colore verde viene associato a situazioni prive di rischio… e attualmente non esistono zone a rischio zero.

Vivere significa rischiare, questo è evidente. Anche le situazioni più rassicuranti, come possono essere le attività condotte tra le mura domestiche, espongono a un rischio più o meno alto.  Le questioni su cui varrebbe la pena soffermarsi a filosofeggiare, magari in un altro articolo, riguardano la percezione degli individui rispetto al rischio e l’abitudine al pericolo, oltre alla sua sottovalutazione o sopravvalutazione. Per esempio, è molto rischioso sottoporsi a cure ospedaliere (circa 50.000 decessi l’anno) o spostarsi con un qualche mezzo di locomozione privato (circa 80.000 decessi l’anno), ma l’abitudine al pericolo rispetto a questi temi e la sua sottovalutazione sono talmente radicati nel tessuto culturale che (quasi) a nessuno verrebbe in mente di avviare una campagna mediatica contro gli spostamenti in motocicletta o di invocare un “lockdown” automobilistico. Poiché il rischio è un concetto generale applicabile a diverse realtà, è possibile ricondurlo facilmente anche ai fenomeni epidemici. E la misura, seppur imprecisa, ha evidenziato un rischio maggiore per alcuni individui più fragili di altri. Da una stima spannometrica, che si può fare velocemente consultando il sito http://dati.istat.it, emerge che la popolazione residente, per la fascia di età che va dai 70 anni in su, è composta da oltre dieci milioni di persone.Circa sette milioni, se si prendono in considerazione gli ultrasettantacinquenni. Sappiamo che un sesto della popolazione è a rischio e sulla base di questa evidenza è necessario utilizzare i dati disponibili, per indicare ai decisori politici cosa si può fare in termini sociali, economici e demografici, cercando possibilmente di disegnare uno scenario futuro sostenibile. Per fare questo, i dati demografici non sono sufficienti: è necessario integrare diverse fonti, perché, come si dice spesso tra gli addetti ai lavori, un dato solo è sempre in cattiva compagnia. I dati, quando vengono associati ad altri tipi di dato, possono assumere significati diversi e fornire chiavi di letture più efficaci. Sapere che gli over 70 sono più di dieci milioni è importante, ma sarebbe interessante rispondere a una serie di domande alle quali, per il momento, non è stata data una risposta chiara. Quanti (o in che percentuali)  vivono in famiglia? Quanti (o in che percentuali)  nelle RSA? Quanti possono usufruire di una rete di protezione familiare? Quanti hanno bisogno di assistenza sociale? In che condizioni di salute si trovano? Quante e quali patologie pregresse hanno? In che condizioni economiche si trovano? Quali sono le città in cui si concentrano? E nei piccoli centri? In quali fasce di età si distribuiscono le diverse patologie? Quali sono i cluster territoriali delle fragilità da proteggere? Questo relativamente all’emergenza, poi ci sono le questioni relative alle ricadute economiche e sociali sulle quali non è stata avviata una riflessione seria e non ci sono, almeno all’apparenza, strategie a medio termine condivise dai mezzi d’informazione. L’unica cosa certa è l’incertezza e, francamente, con le conoscenze moderne, non possiamo permettercelo. Laddove si giochi con la vita e con la sofferenza delle persone, vita e sofferenza che non sono da intendersi soltanto come perdita e dolore per una certa malattia, ma anche in termini di disagio sociale, economico e di relazioni umane profondamente compromesse dai provvedimenti governativi, è quantomeno auspicabile che le decisioni siano prese attraverso una consapevolezza reale della realtà. Laddove i dati e le analisi non vengono condivisi, e la condivisione dei dati è un’altra grande mancanza del sistema contro la quale è in corso una vera e propria mobilitazione da parte dei ricercatori, si diffonde la sensazione che i provvedimenti e le restrizioni siano ingiusti e non vengano dettati dalla ragione ma dall’arbitrarietà discrezionale di chi non sa e, soprattutto, non sa cosa fare. Laddove i provvedimenti discrezionali non vengono supportati dal rigore dei dati, ma dettati da un comitato tecnico composto da personaggi più in cerca di gloria che di verità, possono verificarsi facili strumentalizzazioni da parte delle frange estremiste o, peggio, negazioniste. La leggerezza con cui, in questo momento storico, si parla dei dati è pericolosissima e sta creando un relativismo scientifico imbarazzante, che leggittima qualsiasi interpretazioni della realtà, sminuisce il ruolo della scienza e dà origine a fazioni contrapposte e in continuo conflitto. Lo studio dei dati è una questione seria che richiede preparazione e serietà: non si presta ai punti di vista personali, come può accadere per il fuorigioco di una partita di calcio. Per descrivere la realtà locale di un fenomeno osservabile esistono metodi e strumenti precisi: la sovrapposizione degli stati quantistici è meglio lasciarla alla fisica.

Io lavoro data driven, parola di Galileo Galilei

Posted on 15 Novembre 202011 Giugno 2021 by admin

E pur si muove, non disse Galileo, perché in realtà la frase fu coniata da Giuseppe Baretti, per abiurare la sua stessa abiura. Basterebbe questa contraddizione, per rendersi conto di quanto sia affascinante e controversa la storia di quest’uomo, che ha contribuito in modo determinante alla crescita della conoscenza collettiva. Le intuizioni di Galileo Galilei, le sue idee e il suo coraggio hanno trasformato lo studio della scienza, che per molti secoli è stato una “questione filosofica” e da un certo punto in poi è diventata “moderno”. ll giovane Galileo, benché fosse anarchico e ribelle, ha subito fortemente l’influenza del pensiero di Aristotele e ha mostrato qualche ragionevole dubbio (chi non l’avrebbe avuto?), prima di mettere nero su bianco il suo metodo scientifico e stravolgere completamente e irreversibilmente lo studio dei fenomeni naturali. Lo strumento narrativo scelto da Galileo per raccontare i risultati delle sue ricerche fu il dialogo tra il galileiano Salviati, l’aristotelico Simplicio e il saggio Sagredo. Nella sua opera più celebre, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, è riportata la frase che decreta contemporaneamente la fine dell’approccio filosofico alla scienza e la fine del sistema tolemaico: “La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri,ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica,e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente la parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”. Poiché questa affermazione avrebbe potuto essere fraintesa, il fumantino Galileo scrisse, nella Lettera a Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana, anche le istruzioni per l’uso del metodo. Probabilmente, infervorato dalla grandezza delle conclusioni a cui era giunto, si fece prendere un po’ la mano dall’entusiasmo e, visto che c’era, dichiarò anche guerra alla chiesa. Così, in un colpo solo, uccise contemporaneamente Aristotele e Dio. La frase incriminata è la seguente: “pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante”.

In poche parole, Galileo afferma che per descrivere i fenomeni naturali la fede e la filosofia non servono, bisogna ricorrere alla “sensata esperienza” e alle “necessarie dimostrazioni”, ovvero a quei metodi che nei testi moderni prendono il nome di metodo deduttivo e metodo induttivo. Le conclusioni che si traggono da questo metodo non debbono essere messe in dubbio anche laddove le Scritture affermano il contrario. Il tutto preceduto da una parola che viene ancora usata beffardamente per esporre un’idea senza esporsi alla gogna: pare. Di solito funziona, tranne quei casi in cui c’è di mezzo la Santa Inquisizione…

Perché scomodare addirittura l’anima tormentata di Galileo, che già in vita aveva avuto i suoi tormenti con l’aldiqua, per parlare della logica data driven? Perché, in qualche modo, nella descrizione del cimento (esperimento) in cui vengono sintetizzati i risultati della sensata esperienza riguardante il moto di un corpo lungo un piano inclinato, vengono gettate le basi non solo per interpretare i fenomeni naturali ma per descrivere qualsiasi tipo di fenomeno. In poche parole, l’esperimento galileiano attraverso il quale si dimostra la teoria del piano inclinato passa attraverso 4 fasi: l’osservazione, la rilevazione dei dati per mezzo della  misura, l’analisi e le conclusioni. Praticamente, gli stessi passaggi necessari a un manager per prendere delle decisioni consapevoli. Supponiamo per assurdo, molto per assurdo, che un Galileo dei giorni nostri, un po’ meno arruffone di CarCarlo Pravettoni, sia chiamato a decidere se mantenere aperta la sede di una certa azienda, se erogare un servizio di assistenza informatica h24, o come riallocare il personale rispetto allo smart working, o ancora come ottimizzare gli spazi, valorizzare il personale o definire in modo imparziale eventuali avanzamenti di carriera. Sicuramente, per evidenziare l’importanza dei dati a supporto delle decisioni, Galileo scriverebbe un trattato, sotto forma di dialogo, tra Salviati, il sostenitore del cambiamento, e Simplicio, quello resistente e ancorato alle vecchie dinamiche lavorative.

Salviati: Continuar così è da dementi, lo mondo intorno a noi è cambiato e mi dolgo che tu non ne favelli.

Simplicio: Lo mondo ha sempre funzionato così.

Salviati: Lo germe maligno di Arisotele ti fa proferir bestemmie… la natura “ha sempre funzionato così”, non l’umano e insulso mondo

Simplicio: Io dico che lo sommo manager perderebbe il controllo dei dipendenti, se si attuerebbe lo smart working.

Salviati: Attuasse, Simplicio, attuasse… A parer mio, lo sommo manager ha paura di cambiare perché vuol mantener lo magno potere.

Simplicio: Lo magno potere regola lo mondo.

Salviati: C’è mondo e mondo! Lo mondo sensibile è regolato dallo magno potere della natura. Lo mondo di carta è regolato da quel coglion poter di quei che portan toga. E io ne scrissi, di questi sventurati… Questi dottor non l’han mai intesa bene, Mai son entrati per la buona via, Che gli possa condurre al sommo bene. Perchè , secondo l’opinion mia, A chi vuol una cosa ritrovare, Bisogna adoperar la fantasia, E giocar d’invenzione, e ‘ndovinare;

Simplicio: Dio solo sa quanto lo cambiamento fa paura.

Salviati: L’uomo creò dio a sua immagine, per spiegar quel che intender non sa. Questo par che c’insegni la natura, Che quand’un non può ir per l’ordinario, Va dret’a una strada più sicura. Lo stil dell’invenzione è molto vario, ma per trovar il bene io ho provato che bisogna proceder pel contrario: cerca del male, e l’hai bell’e trovato. Però che ‘l sommo bene e ‘l sommo male s’appaion com’i polli di mercato.

Simplicio: Mi confondi, maestro, col tuo eloquio…

Salviati: Lasciamo stare lo poter togato, io mi rivolgo all’uom più che intendente e con buona veduta d’orizzonte. Perché degli altri dissi apertamente Se tu gli tasti, o son pieni di vento, O di belletti o d’acque profumate,O son fiascacci da pisciarvi drento. Dammi lo dato d’ogni dipendente, affinché io possa con certezza, promuovere o bocciare chiaramente.

Simplicio: Lo dato ce l’abbiamo frammentato, così da favorir la simpatia e spesso seppellire l’intelletto. La colpa non è mia, ma del togato colpevol d’ogni frode e d’ogn’inganno. Si vede chiaro che n’è sol cagione insieme allo maligno sindacato.

Salviati: Mi dici che dovrei avere intorno, al posto di un esercito pensante, masse di invertebrati perdigiorno?

Simplicio: Lo volere dell’uomo è irrazionale.

Salviati: Lo mio volere è la verità e l’uomo preferisce la menzogna.

Un dialogo simile, coi dovuti adeguamenti lessicali, non sarebbe affatto surreale anche perché alcune frasi sono state scritte realmente da Galileo nel Capitolo contro il portar toga, un sonetto lungimirante e futuristico che inizia descrivendo la cecità di colui che cerca il sommo bene laddove non esiste.

Mi fan patir costoro il grande stento,

Che vanno il sommo bene investigando,

E per ancor non v’hanno dato drento.

E mi vo col cervello immaginando,

Che questa cosa solamente avviene

Perchè non è dove lo van cercando

Un manager galileiano che abbia il coraggio di adottare un metodo pseudoscientifico per affrontare l’ingrato compito di prendere le decisioni più adeguate ai problemi, dovrebbe in primo luogo osservare a lungo le dinamiche lavorative, studiare i processi e conoscere a fondo le caratteristiche del personale. Anzi, no, in primis dovrebbe contornarsi di persone fidate e competenti. Dopodiché, a seguito di un’attenta analisi degli obiettivi, strategici e non, potrebbe suddividere l’organizzazione in aree. Senza entrare nel merito delle specificità che ogni realtà aziendale possiede, si possono elencare alcune macro aree comuni più o meno a tutti i settori.

  1. Economica
  2. Logistica
  3. Produttiva
  4. Risorse umane
  5. Informatica

Ciascuna area contiene ovviamente delle specificità, alcune delle quali sono comuni a molte realtà. L’area economica comprende le spese, i bilanci e gli Investimenti, la logistica comprende le sedi, gli spostamenti e il patrimonio, le risorse umane comprendono la gestione delle carriere, la formazione, il benessere lavorativo, le competenze, la pianificazione dei abbisogni professionali e formativi, et cetera, et cetera.

I settori di un’azienda sono connessi strettamente tra loro. Come si fa, per esempio, a decidere se mantenere una sede, se costruirne una nuova o se ottimizzare gli spazi esistenti, ricorrendo a un utilizzo consistente dello smart working? Si fa col metodo galileiano: misurando, raccogliendo i dati, analizzandoli, rappresentandoli attraverso grafici e tabelle, per capire quel è la soluzione migliore e facendo una scelta consapevole, quella che, nella maggior parte dei casi, non deriva dalle sensazioni personali ma dalla razionalità. In ogni organizzazione esiste un patrimonio enorme e inutilizzato di dati e informazioni. Purtroppo, molto spesso c’è da fare una distinzione tra i dati disponibili quelli “potenzialmente” disponibili. Per esempio, sarebbe relativamente semplice adottare delle politiche consapevoli e indipendenti sul personale, se si avesse a disposizione una base dati integrata in cui far confluire tutte le informazioni riguardanti i lavoratori. Tutte le informazioni non significa il nome, il cognome e il numero di matricola, significa integrare all’anagrafica le competenze, gli stili di lavoro, le conoscenze, la formazione, l’eventuale anzianità (tanto cara ai sindacalisti) e la storia lavorativa; significa disporre di una banca dati dei curricula aggiornata e indicizzabile dai moderni sistemi di ricerca; significa, misurare gli obiettivi raggiunti, le capacità e le specificità individuali e disporre di pannelli di sintesi efficaci per capire i processi lavorativi all’interno dei quali è inserita una certa risorsa o avere un sistema di rating per definire autonomamente, senza vincoli e pressioni esterne, eventuali avanzamenti di carriera. Quali sono, dunque, gli ostacoli a una gestione consapevole del lavoro? L’ostacolo maggiore non è di natura pratica ma teorica: i dati non mentono e usarli significa privare i decisori dell’arbitrarietà di una scelta malevola. Le scelte razionali fanno paura perché costringono a prendere atto della realtà, eliminando qualsiasi forma di distorsione e di falsa narrazione. I dati possono far emergere criticità e specificità che vengono ignorate a seguito della scarsa conoscenza, dell’arroganza o, peggio, a favore di decisioni poco trasparenti. I dati dicono la verità laddove potrebbe esserci la necessità di mentire. I dati minacciano fortemente la possibilità di comandare senza possibilità di replica, di scegliere a proprio piacimento e di imporre delle regole assurde dettate dai gusti e dai capricci personali, per questo vengono ignorati all’interno di molte istituzioni pubbliche, laddove l’efficienza non è strettamente connessa alla produzione. Un’organizzazione che ignora i dati ha paura della verità e, per funzionare, ha bisogno di creare una realtà basata sulla menzogna. E chi si muove?, direbbe Galileo, se si trovasse in una situazione simile.

Trasformazione digitale, trasformazione dirigenziale

Posted on 15 Novembre 202011 Giugno 2021 by admin

Il paradosso del gatto di Schrödinger è tra i paradossi moderni più conosciuti. È nato con l’intento di dimostrare l’inapplicabilità della meccanica quantistica al mondo macroscopico, giungendo alla conclusione che, in uno stato di sovrapposizione quantistica, un gatto potrebbe essere contemporaneamente vivo e morto, se collegato a un evento subatomico casuale. Negli anni, il paradosso del gatto di Schrödinger è stato esteso metaforicamente a molte situazioni della vita reale perché la realtà ha ampiamente dimostrato che si possono verificare accadimenti strani almeno quanto il duplice stato quantico del gatto. A questo gioco, non può mancare il paradosso del dirigente di Schrödinger, quello che prende in considerazione uno stato di “distopia quantica sociale” in cui i dirigenti possono essere contemporaneamente troppi e pochi. Sono troppi, è evidente, perché il sistema e la piramide del potere, per funzionare, hanno bisogno di un esercito di manager ammaestrati dalla ginnastica di obbedienza, che a loro volta si circondano di collaboratori consenzienti e privi di senso critico. Si tratta di una nuova forma di schiavitù regolata non dalle frustate ma dalla distribuzione gerarchica di privilegi e di briciole di potere. Basta far parte della cordata giusta, per scalare in fretta la piramide e raggiungere un qualche tipo di successo. I libertari colti potrebbero pensare che si tratti di una gloria effimera sintetizzata efficacemente da Francesco Guccini, nell’Avvelenata, con tre parole efficacissime, ma, come si dice, solo gli ignoranti sono sicuri di quello che dicono e di questo ne sono certo …

Per la scalata, oltre ad agire apertamente o meno in nome di qualcuno più potente, servono anche una buona dose di cinismo e di arroganza, o, meglio, di tracotanza. Le capacità spesso sono un optional, anzi, penalizzano. Invece, un curriculum ricco di obiettivi apparentemente prestigiosi, che spesso sono costruiti ad arte o sono frutto dell’appropriazione indebita del lavoro altrui, si è dimostrato un ottimo strumento per intraprendere la scalata. La conoscenza e la consapevolezza, nelle selezioni, rappresentano un minus, poiché una testa libera, pensante e indipendente infastidisce, intralcia gli obiettivi del sistema e, soprattutto, compromette il buon funzionamento della piramide. Proprio per questo, la pubblica amministrazione in molti casi è arrivata al paradosso di selezionare i manager attraverso procedure superficiali, che, volutamente, non approfondiscono le capacità reali, ma si limitano a chiedere ai candidati un curriculum e una imbarazzante lettera motivazionale. Al contrario, i concorsi rivolti al reclutamento del personale non dirigenziale seguono orientamenti diametralmente opposti: le selezioni degli “inferiori” prevedono spesso prove multiple complesse, titoli a cui attribuire punteggi sulla base di regole fantasiose e improbabili e una serie di misure di sicurezza di ogni tipo per garantire, si fa per dire, una certa trasparenza.

L’ostacolo principale, nell’attuazione della trasformazione digitale, è essenzialmente questo: ogni tipo di cambiamento passa per le scelte di dirigenti e collaboratori che hanno tutto l’interesse a lasciare le cose inalterate o che, gattopardianamente parlando, cambiano tutto affinché non cambi nulla. In tutto ciò, il gatto di Schrödinger è un prezioso alleato perché permette, a chi agisce in malafede, di confondere gli stati quantici e di sostituire il senso del dovere col senso del potere, o la parola dirigere con la parola comandare. Nonostante il CAD preveda un insieme di compiti ben definiti e uno e un solo Responsabile per la Transizione Digitale, a cui è richiesta una precisa visione strategica e a cui è attribuito un ampio potere decisionale, le amministrazioni pubbliche tendono a tralasciare le linee guida, a sminuire la figura del RTD, e a dare libero spazio alle libere interpretazioni. Questo orientamento non sarebbe nemmeno sbagliato, se la libera interpretazione fosse supportata dalla consapevolezza e dalla conoscenza. Ma chi controlla l’operato del RTD e dei comitati di valutazione? Anche in questo caso, esistono delle procedure di valutazione delle prestazioni dirigenziali, che purtroppo sono gestite dalla stessa dirigenza e prevedono una valutazione ridicola degli obiettivi rivolta esclusivamente all’autoattribuzione di un premio in denaro elargito più o meno democraticamente a tutti, meritevoli e non.

Certo, se gli obiettivi fossero qualcosa di diverso rispetto al perseguimento degli  interessi personali e al mantenimento dei privilegi e della posizione di comando, la valutazione avrebbe una valenza diversa e la collettività ne trarrebbe beneficio. E se la valutazione fosse guidata dagli “inferiori”, e non dalla piramide, ne trarrebbero beneficio anche i lavoratori. A supporto di questa struttura sociale distopica, ci sono delle regole assurde e delle dinamiche contorte che proteggono gli interessi delle caste e danneggiano le fasce deboli, regole che solo in un Paese privo di identità e di senso critico possono essere accettate. Prima fra tutte la regola assurda, per alcune aree scritta, per altre sottintesa, che prevede la rotazione degli incarichi della dirigenza. Questo significa che un manager dell’area giuridica è difficilissimo che venga sostituito o demansionato per manifesta incapacità: il massimo della punizione a cui può andare incontro è il passaggio a un altro incarico, magari presso altre amministrazioni, a occuparsi di argomenti di cui non sa nulla, per esempio di trasformazione digitale. Quindi, nella pubblica amministrazione, accade ciò che Jhonatan Franzen ha riassunto magistralmente, nel libro Le correzioni, con queste parole: “i suoi dirigenti erano stati rimpiazzati come le cellule di un organismo vivente, o come le lettere in una partita di Substitution in cui merda diventava merla poi gerla e poi perla”.

Non sempre e non dappertutto è così, per fortuna. Ci sono dirigenti liberi, indipendenti e con la capacità e la propensione al cambiamento, ma purtroppo sono pochi e hanno la vita estremamente difficile. Le loro idee brillanti passano per la valutazione di comitati di valutazione costituiti perlopiù da dinosauri prossimi alla pensione, che lavorano da sempre nello stesso modo e non hanno alcun interesse a cambiare le cose perché l’unico interesse che coltivano è mantenere una posizione di comando. Di conseguenza, il cambiamento digitale auspicato dalla politica è, nella maggior parte dei casi, un percorso a ostacoli estremamente lento, che sfugge completamente a qualsiasi tipo di regola e di controllo . Per accelerare questo processo è necessario trasformare la dirigenza, selezionando manager competenti e capaci.

La parola competenza, come ho avuto modo di specificare in altri articoli, deve essere usata con parsimonia perché, se non viene associata a una definizione precipua, rischia di non avere un vero e proprio significato. L’evidenza dimostra che i migliori manager non sono selezionati esclusivamente sulla base delle “competenze” (reali o presunte) tecniche, ma perlopiù attraverso la verifica di un insieme di caratteristiche, difficilmente individuabili, che approfondiscono gli aspetti culturali e caratteriali dei candidati. Al contrario di quanto si pensi, la capacità di raggiungere degli obiettivi, pur essendo una caratteristica importante, spesso subordinata alle competenze tecniche, non è la caratteristica principale di un dirigente. La caratteristica principale è la capacità di creare le condizioni e la cultura lavorativa per permettere a un gruppo di raggiungere degli obiettivi. Si tratta di una capacità rara da trovare perché comprende un coacervo di caratteristiche personali, che possono essere valorizzate o sminuite dalle dinamiche interne e che potrebbero entrare in conflitto con l’intera organizzazione. Per esempio, è comprovato che la responsabilizzazione del personale e la riduzione del controllo e delle misure oppressive, sul lungo periodo, ripagano molto più di un regime oppressivo e terroristico.

Purtroppo, se l’orientamento aziendale prevede una cultura del lavoro basata sulla paura e sulle punizioni, questo genere di caratteristica potrebbe non emergere facilmente o dimostrarsi addirittura controproducente per quella particolare situazione. Lo stesso discorso vale per quei manager che tendono a favorire il benessere, l’inclusione e la condivisione della conoscenza. In un sistema fortemente competitivo, in cui prevalgono quasi sempre l’egoismo e gli interessi personali ai danni del benessere collettivo, la condivisione è controproducente: non sempre si può vantare un team composto da menti newtoniane che guardano lontano, salendo sulle spalle dei giganti. È evidente che alcune logiche distorte si possono cambiare soltanto con una narrazione diversa del lavoro e attraverso una cultura differente. Se per certi aspetti il benessere collettivo viene considerato un’utopia marxista, i risultati del malessere collettivo, perpetrati dal sistema piramidale, gerarchico e clientelare, sono una distopia reale difficilmente sovvertibile. Il potere decisionale e la visione strategica sono invece fondamentali per il raggiungimento di un obiettivo qualsiasi. Purtroppo, la parola obiettivo è astratta e fumosa almeno quanto la parola competenze: mentre è chiarissimo, per un’azienda privata, quale sia l’obiettivo da raggiungere, ovvero il profitto attraverso la vendita di prodotti o servizi, per le amministrazioni pubbliche gli obiettivi sono spesso pure invenzioni della fantasia senza alcun tipo di valenza o di riscontro pratico. Un obiettivo può essere lo studio dei neutrini attraverso LHC (l’acceleratore di particelle Large Hadron Collider), ma può anche essere la compilazione di un foglio di calcolo o la creazione di documenti inutili: a tutti gli obiettivi, per un’inspiegabile e ottusa logica di uguaglianza del pensiero, che continua a essere perpetrata dal diabolico binomio amministrazioni-sindacati, viene attribuita la stessa importanza ai fini carrieristici e remunerativi.

Questo significa che, mentre la popolazione ha ben chiara la differenza tra i benefici derivanti dalla scoperta di un macchinario per la cura dei tumori e un foglio di calcolo su cui vengono inserite manualmente delle x, per i manager, chiusi tra le mura di una pubblica amministrazione qualsiasi, mancanti di una vera visione strategica, gli obiettivi del personale sono confusi con delle attività assolutamente inutili e routinarie da utilizzare esclusivamente per dimostrare il raggiungimento dei propri obiettivi e accaparrarsi un congruo premio in denaro. E si torna all’inizio dell’articolo e al paradosso degli obiettivi di Schrödinger: un obiettivo, in uno stato quantico dipendente dalla gestione manageriale, può essere contemporaneamente prestigioso o inutile. In questo caso, però, la casualità degli eventi quantistici c’entra ben poco: dipende tutto dalla causalità con cui si scelgono i dirigenti.

Cultura digitale, nuove competenze e vecchie incompetenze

Posted on 15 Novembre 202011 Luglio 2021 by admin

Parafrasando Thomas Edison, si potrebbe dire che i discorsi sulla trasformazione digitale contengono il 99 per cento di fuffa e l’1 per cento di contenutiParafrasando Thomas Edison, si potrebbe dire che i discorsi sulla trasformazione digitale contengono il 99 per cento di fuffa e l’1 per cento di contenuti. La parola fuffa deriva probabilmente dal sostantivo maschile “fuffigno”, usato in Toscana per indicare l’ingarbugliamento dei fili di una matassa. Questa immagine è molto rappresentativa e sintetizza alla perfezione il contenuto di questo articolo, che ha la presunzione di fare chiarezza rispetto al racconto fuffigno della trasformazione digitale. La fuffa digitale comprende una vasta area tematica, che va dall’open data alle logiche top down e bottom up, in cui chiunque può permettersi di dire qualsiasi cosa, senza peraltro essere contraddetto. Per avere un contraddittorio è necessario confrontarsi con qualcuno che conosca a fondo l’argomento e la conoscenza approfondita di certi argomenti richiede, stavolta la citazione di Edison è calzante, il 99 per cento di sudore e l’1 per cento di ispirazione. Purtroppo, chi è impegnato a sudare, a studiare e a cercare l’ispirazione di solito non è un decisore politico, non fa carriera e non fa parte di nessun comitato scientifico. Anzi, molto spesso viene escluso da qualsiasi tavolo di discussione proprio perché, contraddicendo, infastidisce.

D’altronde, la vasta area tematica della fuffa digitale dà l’illusione a inesperti e arrivisti di poter comprendere a fondo un fenomeno molto complesso, leggendo qualche articoletto qua e là. Parlare con stile fuffigno è pratico ed efficace: pratico perché può farlo chiunque, efficace perché permette di ottenere visibilità o progressioni di carriera velocemente e senza troppo impegno. Bastano la cosiddetta infarinatura, una discreta capacità dialettica, un buon palcoscenico e la task force è assicurata. Far parte di una task force sulla trasformazione digitale, ma non solo, è un’esperienza mistica, una prova di pazienza e di bontà infinite, un esercizio di autocontrollo e disciplina continuo, per non manifestare apertamente il dissenso e assecondare gli interlocutori con sorrisi impostati e frasi sibilline. La parola d’ordine delle task force è “riunione”, l’obiettivo è incontrarsi una, dieci, cento, mille volte e parlare, parlare, parlare. Il problema è che ogni riunione sembra la fotocopia dell’altra: dopo dieci minuti, si entra in un loop infernale nel quale si affrontano discussioni senza fine riguardanti concetti astratti, opinioni personali, relativismo cosmico e, a volte, frasi spericolate tipo “se io avrei la possibilità di…”. È in quelle occasioni che gli esperti della fuffa parlano di competenze digitali, di digital divide, di machine learning, di blockchain, di intelligenza artificiale e attuano, a parole, riorganizzazioni, scelte tecnologiche e provvedimenti fantascientifici volti a risolvere qualsiasi situazione, compreso l’annoso problema del polline sulle serrande. Si potrebbe obiettare che la differenza tra idea e azione, tanto cara a Georges Brassens, non si riferisce soltanto alle questioni riguardanti i gorilla, perché un conto è parlare di cucina, un altro conto è stare davanti ai fornelli.

Obiezione accolta. Quindi, più che chiamare in causa la logica bottom up, o top down, che potrei citare in modo capzioso per dare consigli evanescenti su come attuare efficacemente la trasformazione digitale, preferisco evitare figuracce, partire da lontano e affidarmi alla storia e all’infallibile logica contadina. Ricordate gli anni Settanta? Si è trattato di uno dei periodi più densi e complessi della storia contemporanea. In quegli anni, è stato compiuto un salto in avanti impensabile rispetto ai diritti e all’uguaglianza. È stata una vera e propria rivoluzione, scandita non dalla marsigliese ma da storie di locomotive lanciate contro le ingiustizie e indiani metropolitani, i sessantottini, falliti insieme ai loro ideali e a una serie infinita di dèi ai quali non credere, dal dio del capitalismo al dio del consumismo. Gli argomenti di cui si parlava erano quelli: gli ideali, i diritti dei diversi, il rispetto delle minoranze e i valori universali. Se ne parlava ovunque, nella musica, nella letteratura, nei bar, nelle scuole, nelle piazze e addirittura nei telegiornali. L’Italia intera era immersa in una narrazione che influenzava fortemente il pensiero della collettività, specialmente di coloro i quali avevano uno scarso senso critico. C’era la volontà di azzerare le differenze, di lottare insieme e di ristabilire l’uguaglianza, a cominciare da quella tra uomini e donne.

La lotta di classe era il pane quotidiano e il “social divide” non si colmava a parole, ma in piazza, attraverso azioni di ogni tipo, anche violente e discutibili. In poche parole, c’era una coscienza collettiva, che, pur essendo piena di contraddizioni, ha dato l’illusione di poter cambiare l’umanità in qualcosa di più umano. Poi cosa è accaduto? È successo che il pane quotidiano, quegli ideali tanto cari agli scrittori, ai poeti, agli operai e ai diversi, piano piano è stato sostituito da valori spazzatura. Si potrebbe obiettare che anche gli ideali “altissimi” sono stati presi come pretesto per compiere atti feroci di terrorismo. Obiezione accolta. Il problema, però, è che un certo tipo di coscienza comune è stata sostituita da qualcosa di superficiale e inafferrabile, che ha portato le persone ad abituarsi a nutrirsi di false fedi, come se ce ne fossero di vere, fino a convincerle di averne bisogno per sopravvivere. L’indolenza, la pigrizia, quelle briciole di benessere conquistate dai diversi, che per poco tempo si sono sentiti meno diversi, e soprattutto la mancanza di una visione ampia della strada da percorrere hanno fatto il resto: si è smesso di raccontare alla collettività, con quella stessa narrazione, che la società dovesse essere fatta in un certo modo. Così, come spesso accade, il silenzio ha insabbiato gli ideali insieme alla co(no)scienza collettiva, fino al punto da cambiare la prospettiva e la visione del mondo e a considerare la diversità un disvalore, i poveri, e non la povertà, un problema, gli oppressi, non gli oppressori, una minaccia. L’errore fatale è stato essenzialmente uno: la distruzione della cultura.

E la trasformazione digitale cosa c’entra in tutto ciò? C’entra perché la storia si ripete due volte, come sosteneva Karl Marx, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Negli ultimi venti anni siamo o non siamo stati immersi in una rivoluzione socio economica senza precedenti, in molti casi nella veste di spettatori inermi, in cui il filo della narrazione è stato il web insieme all’evoluzione tecnologica? Nei convegni, a cui cerco di partecipare nel modo meno fuffigno possibile, mi trovo spesso a sostenere che il link è stato ed è il protagonista indiscusso di questo cambiamento. Quello che oggi si dà per scontato, e che nella nostra lingua significa collegamento, ha cambiato la società, le relazioni, il modo di fare acquisti e di comunicare, l’informazione, il modo di erogare e di fruire di migliaia di servizi e molti altri aspetti della vita quotidiana che non sto a elencare. Il link è la narrazione in cui siamo immersi. Gli amori sono link, gli amici sono link, i prodotti sono link, le dediche di una canzone d’amore sono link, perfino i sentimenti e gli stati d’animo sono diventati dei link. La tecnologia si è adeguata a questo bisogno di cambiamento e i “colossi del web” ne hanno capito l’importanza, erogando servizi gratuiti in cambio dei dati personali e guidando le popolazioni un po’ come avrebbe fatto il lupo con Cappuccetto rosso.

Non bisogna mai dimenticare che l’interesse delle aziende è il profitto, non il bene della collettività, per cui, più che soffermarsi su questioni filosofiche e valutare se le persone abbiano o meno il senso critico per poter distinguere una notizia falsa da una vera, la trasformazione digitale è stata costruita intorno alla domanda “quanto si guadagna con il clic di un utente su un link?”. Se i pericoli di un cambiamento della società guidato dal profitto e non dalla cultura sono abbastanza evidenti, non è altrettanto evidente il ruolo delle istituzioni in questo processo. E se non è chiaro il ruolo che giocano i soggetti per i quali l’interesse collettivo dovrebbe essere al centro del discorso, la società ha un problema. Come spesso accade, il pubblico è rimasto a guardare, venti anni indietro, travolto da un cambiamento culturale a cui continua a essere impreparato. Così, mentre negli uffici di un qualsiasi ministero della Verità di orwelliana memoria si discute delle competenze digitali, che contemplano l’uso della posta elettronica o di un editor di testo, strumenti che risalgono a trent’anni fa, negli uffici di Google si definiscono le strategie più adeguate per trarre profitto, che in qualche modo verranno imposte alla popolazione. E non c’è via di scampo: la collettività sarà costretta a imparare a usare questo o quel prodotto, per continuare a usufruire di quei servizi di cui non si può più fare a meno. E il campo di applicazione è veramente ampio: si va dall’account Gmail, non obbligatorio ma obbligato, per usare efficacemente i dispositivi Android, al predominio indiscusso di Google Maps, per tracciare un percorso stradale, dalle emoticons per sintetizzare un sentimento durante una conversazione virtuale, ai “mi piace”, e solo quelli, senza i “non mi piace”, per tracciare il profilo delle persone e capirne i gusti, gli interessi e gli orientamenti.

Più che di trasformazione digitale, sarebbe corretto parlare di capitalismo 2.0: l’individuo è rimasto funzionale al consumo, ma sono cambiati gli strumenti. Per questo, per dire “mi piace” e seguire un link, basta toccare lo schermo di un telefono o dire “Ok Google, portami in via”: questa è la trasformazione culturale e tecnologica dell’ultimo ventennio: è cambiato tutto, ma in fondo non è cambiato niente. Di quale trasformazione digitale si parla, invece, all’interno delle amministrazioni pubbliche? Quali sono le competenze digitali che si rincorrono per colmare il digital divide, quel concetto astratto di cui si sente spesso parlare, ma che in pochi hanno capito come misurare? I decisori hanno capito realmente che, ad esempio, l’uso delle emoticon si è diffuso non attraverso delle linee guida, ma grazie a un cambiamento culturale in atto da anni e che due persone, per salutarsi, si scambiano una faccina sorridente che lancia un cuoricino invece di scrivere ciao? Le amministrazioni pubbliche hanno capito che il linguaggio e i tempi per comunicare si sono modificati profondamente, che molte parole sono state sostituite dalle immagini e che molte attività lavorative vengono svolte in maniera totalmente diversa dal passato? Chi dirige il personale, ed è rimasto fermo agli anni ‘50, è consapevole del fatto che le reazioni delle persone sono cambiate rispetto ai mezzi usati per comunicare e che le emozioni e gli stati d’animo sono filtrati da uno schermo, da una chat e sono funzionali a un messaggio preimpostato, “Sta scrivendo”, che in pochi secondi può suscitare rabbia o speranza, prima che il messaggio di sistema scompaia, lasciando il posto al silenzio (perché magari un interlocutore ha deciso di non scrivere nulla e di cancellare ciò che stava digitando)? Se non lo sa, è grave.

Se lo sa e fa finta di niente è gravissimo. Lo scollamento tra la narrazione della realtà inventata negli ambienti pubblici e la realtà “reale” è imbarazzante. Questa divergenza si può spiegare soltanto utilizzando la metafora del giardiniere e del contadino (sempre per adottare una logica facilmente comprensibile). La differenza tra il giardiniere e il contadino è semplice: se al contadino si seccano le piante, il problema è solo suo, se al giardiniere si seccano le piante, il problema è di chi gli ha commissionato il lavoro. Lo stesso ragionamento vale per gli ambiti pubblico e privato: se qualcosa non funziona nel settore privato, il problema è dell’azienda, mentre se non funziona qualcosa nel settore pubblico, il problema è di chi ha dato fiducia agli amministratori e alla dirigenza, cioè della collettività. Spesso, si arriva a paradossi assurdi, che toccano i massimi livelli quando si osservano goffi tentativi di conciliare l’innovazione con la burocrazia e con i processi lavorativi paludosi e inefficienti. E se ne vedono, di cose strane. Per esempio, ci sono dei Dpo, i responsabili per la protezione dei dati, talmente zelanti da adottare politiche interne molto severe sul rilascio dei dati, anche dei più insignificanti, che si trasformano nell’impossibilità di usarli e di diffonderli, e poi cedono i propri dati personali a un’applicazione che promette di prevedere in quale animale si reincarneranno i seguaci della setta dello ioismo.

Ci sono regolamenti interni, degni del miglior Montalbano, che alla firma digitale affiancano la richiesta di una “copia del documento debitamente sottoscritta”, perché il digitale va bene, ma non si sa mai. Poi ci sono i decisori veri, quelli di vecchio stampo, che continuano a mantenere un potere enorme anche in ambiti in cui non hanno nessun tipo di competenza e sostengono con fermezza l’assoluta sicurezza dei documenti stampati e chiusi a chiave al posto degli archivi digitali; come se nei tribunali non si assista frequentemente a sparizioni misteriose di interi faldoni contenenti documenti processuali importantissimi. La mancanza di cultura e il sistema clientelare sono i veri problemi della trasformazione digitale, perché spingono intrinsecamente i decisori verso una cieca resistenza al cambiamento. Resistenza che viene rafforzata spesso dalle persone delle quali si circondano. Si possono scrivere centinaia di linee guida, ma se non viene attuato un vero e proprio cambiamento culturale, il Paese è destinato a restare nel guado per anni. Purtroppo, nonostante le task force e i convegni, le decisioni vengono ancora affidate ai giardinieri digitali, dei dinosauri privi di conoscenze approfondite e prossimi al pensionamento, che costituiscono improbabili comitati di valutazione delle innovazioni col solo obiettivo di mantenere il potere, frenando qualsiasi tipo di cambiamento e favorendo l’affidamento di incarichi clientelari che hanno l’unico pregio di favorire le carriere di chi li riceve.

Si ritorna all’inizio dell’articolo, quindi, e alla fuffa digitale. Sono loro che fanno falsa cultura, parlando di digital divide tra lavoro e lavoratori, senza aver capito realmente se questa distanza esista realmente o sia più una sensazione dovuta alla scarsa conoscenza di come si sia trasformato il lavoro e i suoi contenuti e di come il personale abbia reagito al cambiamento (indotto dall’esterno). Sono sempre loro che investono inutilmente soldi sulla formazione di competenze digitali (quali?), senza aver rilevato quali siano effettivamente le competenze necessarie per lo svolgimento di un certo lavoro. Insomma, come spesso accade, se un generale sceglie dei colonnelli inadeguati, che a loro volta scelgono dei tenenti inadeguati, che a loro volta scelgono dei soldati inadeguati, la disfatta è certa. Un visionario, che aveva immaginato una società arresa e senza speranza, ha scritto che “la guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza”. Arrivati a questo punto, si potrebbe obiettare che anche questo articolo, tutto sommato, contiene fuffa digitale. Obiezione respinta. Questo articolo contiene un po’ di cultura (digitale e non): l’unico strumento a disposizione degli illusi senza potere, che vorrebbero lasciare in eredità alle future generazioni un posto migliore di quello che hanno trovato.

Pausa, caffè e sigaretta!

Posted on 25 Giugno 202026 Giugno 2020 by admin

Cosa c’è di più stressante delle cene con gli amici? Vediamo… Avere un capoufficio che rompe le balle con le scadenze lavorative? Avere un’auto davanti che viaggia a una velocità di 3,2 km/h e frena ogni cinque metri quando vai di corsa e hai i minuti contati? Stare insieme a una donna che mette l’ansia e si lamenta in continuazione per questioni assolutamente irrilevanti? No, a occhio e croce direi che le cene con gli amici non hanno rivali: sono fonti di stress ben superiori a qualsiasi fonte di stress. La verità è che non si tratta di cene, ma di competizioni agonistiche vere e proprie, che quasi sempre sfociano in discussioni interminabili e sfiancanti in cui ognuno cerca di dimostrare di averlo più lungo degli altri. Come se la lunghezza fosse sinonimo di qualità. Un mio collega universitario, un fine intellettuale, che, se non ricordo male proveniva da una nobile famiglia di Mentana, una volta venne provocato da una ragazza sulla questione “lunghezza”, e lui rispose alla provocazione con la schiettezza che lo contraddistingueva: “Non faccio mai a gara a chi ce l’ha più lungo. Il mio è piccolo, ma è un gran lavoratore”. Argomento chiuso. Non è il caso di sottolineare che quell’espressione diventò subito un aforisma ben più prezioso di quelli di Oscar Wilde, e il fatto che io lo citi dopo tanti anni in un contesto totalmente diverso non può che confermare questa tesi. D’altronde, lo stesso poeta, per dare un senso agli scarsi successi negli studi e alla lentezza con cui procedeva la sua carriera universitaria, era solito usare un’altra espressione di dantesca memoria attraverso cui affermava la propria autodeterminazione e diffondeva a tutti gli sfigati del gruppo, me compreso, un messaggio di speranza. No, non è Gli ultimi saranno i primi e nemmeno Ama il prossimo tuo come te stesso, anche perché l’unica cosa che lo avvicinava a Gesù era il modo singolare, e apparentemente diverso, con cui si rivolgeva a dio: uno lo faceva con divino rispetto, l’altro utilizzando aggettivi suini in diverse tonalità, tirando spesso in ballo anche la mamma. Si sa che i fratelli spesso non vanno d’accordo… Insomma, all’ennesima bocciatura, in un clima di tristezza e rassegnazione, dopo averlo rassicurato con quelle frasette del cazzo che si dicono tanto per riempire il nulla col niente, roba tipo “Sarà per la prossima volta” o “Non meritavi la bocciatura”, mentre una truppa in stile codazzo del prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue camminava lentamente per i corridoi deserti della Sapienza, lui si fermava, assumeva un’aria solenne e pronunciava queste parole: “Disse lo sceicco a lu mulo, damme tempo che je sfascio lu culo!”. A volte, usava anche una variante più raffinata, quella che tirava in ballo l’armonia della natura: “Con la calma e la vaselina, l’elefante s’ingroppò la farfallina”. Poi tirava dritto e se ne andava a giocare a biliardo. Lo so, l’immagine è un po’ forte e forse non eravate pronti per un’iniezione di saggezza di questa portata. Se Lenin avesse conosciuto il mio amico Benso, avrebbe certamente sostituito il suo “Pazienza e ironia sono le virtù del rivoluzionario” con un più pratico “Con la calma e la vaselina…”, che poi hanno più o meno lo stesso significato. Che tipo, Benso… la finta solennità con cui sparava le sue minchiate colossali faceva ridere più delle minchiate stesse. Si divertiva a spiazzare la gente, a vedere le reazioni di chi, da una persona apparentemente equilibrata, non si aspetta di ricevere risposte terribilmente schiette e dirette.

– Benso, ti sei un po’ ingrassato, come mai?

Gli chiese una volta Giorgia, ingenuamente, al rientro dalle vacanze.

– Sta’ zitta, nun me dì niente che me sò preso la malattia dell’agnello…

– Oddio, che tipo di malattia è?  È contagiosa?

– Macché contagiosa… però ne soffre metà della popolazione. La malattia dell’agnello è tremenda: fa cresce la panza e accorcia il pisello…

Ecco, Benso, tu sì che sapevi far colpo sulle donne.

Potrei continuare a raccontare questi aneddoti per pagine e pagine, ma temo di compromettere troppo l’immagine da intellettuale sopraffino che mi sono costruito racconto dopo racconto. So che la descrizione della filosofia di Benso ha dato un senso a questa storia e che potremmo anche finirla qua, ma non sarebbe giusto: i lettori debbono soffrire fino alla fine insieme all’autore, altrimenti il patto narrativo perderebbe la sua efficacia. Si potrebbe obiettare, a giusta ragione, che con me il patto narrativo è più simile a un raggiro; un po’ come quei contratti capestro che obbligano all’acquisto di enciclopedie da 500 volumi e prevedono cause, ricorsi e spese legali assurde. Ma io, come direbbero i genovesi, delle obiezioni me ne batto il belino sugli scogli. Comunque, Benso non era solo un cazzaro certificato: con lui si poteva discutere di politica fino a notte fonda e fino al vaffanculo, senza incrinare per niente l’amicizia. Abbiamo passato anni a massacrarci di discussioni, seduti sulla scalinata del CNR, il luogo deputato allo studio pomeridiano. La dinamica delle giornate era molto semplice: seguivamo le lezioni, andavamo a pranzo e verso le 15, dopo interminabili partite a Tetris, ci chiudevamo nei sotterranei della biblioteca a studiare. Alle 15,03 Benso tirava fuori il suo cavallo di battaglia: “‘N ce sto a capì ‘n cazzo, ciò bisogno de ‘na pausa, de ‘n caffè e de ‘na sigaretta: chi m’accompagna?”. Inutile dire che, senza farci pregare troppo, interrompevamo lo studio appena iniziato per dedicarci al bivacco. E chiacchieravamo, chiacchieravamo, chiacchieravamo fino alla pausa successiva: ovvero a distanza di dieci minuti dal rientro. Si parlava di tutto: amore, amicizia, politica, matematica, letteratura, fisica, musica… Ognuno con le sue convinzioni, ognuno coi suoi sogni. Così, di pausa in pausa, di caffè in caffè, di bocciatura in bocciatura, sono passati gli anni migliori delle nostre vite. Mi manca da morire quella spensieratezza e mi mancano gli ideali puri di allora insieme a tutte quelle speranze e a quelle possibilità che avevo a portata di mano e che sono riuscito a mandare magistralmente a puttane. Gli ideali sono il vero motore della vita, quando cedono il passo alla disillusione, restano soltanto delle svogliate  voglie, che (non) servono a riempire i vuoti.  E mi manca anche Benso, le nostre chiacchiere, quel “‘N ce sto a capì ‘n cazzo”, che rimbombava nel silenzio della biblioteca e ogni volta ci faceva scoppiare a ridere. Mi mancano i discorsi sul comunismo e sull’uguaglianza, le liti sulle questioni scientifiche e quella voglia dirompente di amore che avevo a vent’anni. Mi mancano le birre a fiumi bevute insieme all’assistente di laboratorio e le partite a briscola nelle aule vuote. Mi mancano perfino i voti rapinati agli esami impossibili da superare, quelli che, al verdetto sdegnato del professore, “Le do 18, che fa, accetta?”,  contrapponevano un gioioso “Ottimo e abbondante” e dei festeggiamenti interminabili comprensivi della serata trionfale a Tivoli, nella paninoteca “da Pippo”, a sfondarsi di panini imbottiti con tutti gli alimenti disponibili sulla faccia della terra. E mi mancano anche quei 9 anni 7 mesi e 18 giorni che ho impiegato per laurearmi. Il tempo giusto per capire che la laurea non sarebbe servita a un cazzo, ma che nel frattempo avevo costruito l’uomo che sarei stato, e che quel periodo non sarebbe tornato mai più se non sotto forma di ricordo lontano. Benso, lui sì che avrebbe dato le risposte giuste agli pseudoamici attuali, in parte acquisiti e in parte imposti dalle donne che ho avuto vicino. Non so se, alla fine, sia stato meglio perdere le donne o i loro amici. O entrambi. Fatto sta che durante queste cene sono stato spesso tentato di rispondere utilizzando il “Benso linguaggio”, ma non potevo permettermelo allora e men che mai oggi: sono tutti troppo permalosi, troppo borghesi, troppo perbenisti e troppo ottusi per meritarsi la sincerità. Si meritano la maschera di qualcun altro che non sono io, e li accontento volentieri. Tra tutti, è restato soltanto Alberto: con lui posso permettermi di citare Benso con la certezza di essere capito al volo. Anche lui, nonostante fosse il secchione del gruppo, era attratto da quella figura fuori dagli schemi e non riusciva a sottrarsi al richiamo di quel “‘N ce sto a capì ‘n cazzo…”. D’altronde, chi è che, nella storia dell’uomo, ha mai capito veramente qualcosa?

Ma torniamo a noi: parlavamo di cene con gli amici. Io sostengo che sono state inventate per esasperare l’ansia da prestazione: c’è sempre una lei che vorrebbe mostrarsi perfetta come la regina Elisabetta e un lui a cui non frega assolutamente nulla di fare brutte figure perché a quella riunione di squinternati preferirebbe passare la serata a guardare una qualsiasi partita di calcio, fosse anche la finale del girone B del campionato di seconda categoria in Basilicata tra la Proloco Calcio Spinoso e l’Avis Burgentia. A volte, lo squilibrio può essere invertito: l’uomo si fa prendere dall’ansia e la donna se ne sbatte le ovaie… Il concetto comunque è chiaro. L’uomo e la donna sono gli esseri meno indicati ad avere una relazione di coppia, non vanno d’accordo come la Passera scopaiola e l’uccello del paradiso, tanto per restare confinati all’ornitologia. La conseguenza pratica di questo assioma è l’assoluta incapacità di svolgere insieme qualsiasi attività che richieda una divisione dei compiti al 50%. C’è un lasso di tempo, solitamente all’inizio del rapporto, quando il rincoglionimento amoroso prevale sul buon senso, in cui questa suddivisione sembra funzionare. Addirittura può accadere che lui faccia una qualche cazzata e lei, invece di umiliarlo a colpi di insulti, dica dolcemente “Non preoccuparti, amore, ci penso io a sistemare le cose”. Ecco, questa remissività è quanto di più ingannevole ci possa essere: dopo un po’ di tempo le frasi tenere si trasformano in qualcosa di simile a “Faccio io, coglione, tanto tu non capisci un cazzo”. Per carità, anche queste parole non sono male, denotano un sentimento più maturo, solo che io penso di non essere mai preparato alle manifestazioni esagerate di amore. Ho sempre in mente le parole di un  anziano amico, che, dopo aver convissuto con una donna per più di quarant’anni, alla di lei proposta di matrimonio, peraltro dettata da motivi economici, si è sentito in dovere di dire candidamente “Mi sembra un po’ prematuro. Temo di non essere pronto…”

Nella preparazione della cena di solito si possono verificare tre situazioni tipo. La prima è la più semplice: uno dei due si dedica ad attività inutili, tipo togliere il polline dalla tapparella che dà sulla chiostrina, e l’altro si sobbarca tutto l’onere dei preparativi, faticando come una bestia e arrivando all’ora di cena sfinito e impregnato di olio e di puzza di fritto. C’è anche la variante in cui il fancazzista si finga volenteroso e intraprenda un paio di azioni scomposte che hanno come unica conseguenza la creazione di problemi inaspettati. Si può, che so, rovesciare l’olio sul tappeto, intasare lo scarico del lavandino, o eseguire maldestramente un’operazione semplice come può essere girare il ragù e farlo attaccare al fondo della pentola o aggiungere il sale a una pietanza e sputtanare la ricetta. Non nascondiamoci dietro a un dito: di solito il fancazzista in questione è l’uomo, anche se la donna ce la mette tutta per trasformare gesti apparentemente banali in drammi epici che inducono nell’uomo sensi di inferiorità tremendi.

– Amore, potresti aggiungere un po’ di sale all’arrosto?

– Certo tesoro, subito!

– Mi raccomando…

Quando una donna dice “mi raccomando” sottintende l’aggettivo idiota, ma lo omette perché la frase interrotta è più efficace e può lasciare spazio a numerose interpretazioni. Quali? Beh, idiota potrebbe anche essere un complimento, se raffrontato con mentecatto, decerebrato, coglionazzo, si ‘na uallera, minchione e così via. “Mi raccomando” è il tipico avvertimento che si riserva a qualcuno del quale è evidente che non ci fidiamo ma a cui vogliamo dare una possibilità, la penultima. I rapporti di coppia sono pieni di “mi raccomando” mal risposti e di penultime possibilità.  Manca spesso il coraggio dell’ultima possibilità che salverebbe entrambi.

– Mi raccomando cosa? Mi hai preso per un deficiente? Devo aggiungere solo del sale, mica dimostrare il teorema di Fermat!

Uomo, perché esporti così apertamente a una figura di merda certa? Possibile che quella raccomandazione e, soprattutto, quei puntini di sospensione non ti abbiano suggerito di tacere? Pensi davvero di poter aggiungere il sale all’arrosto senza commettere una delle tante cazzate di cui ti sei ampiamente dimostrato capace nel corso degli anni? Provaci e ne riparliamo tra tre righe…

– Si può essere più coglioni di te? Eppure ti avevo detto “Mi raccomando…”. Ti chiedo di aggiungere un po’ di sale e tu che fai? Usi il cucchiaio con cui ho girato il sugo e lo immergi nel barattolo così com’è, senza lavarlo e asciugarlo. Poi, per quale deficienza motoria e cerebrale, invece di avvicinare il barattolo alla pentola, l’hai lasciato nell’angolo più remoto della cucina? Avevi voglia di fare un po’ di sport e percorrere a piedi i due metri che separano i fuochi dalla dispensa? Buona idea!, visto che la bilancia, quando ti avvicini a lei, finge di essere la piastra per lisciare i capelli, pur di non avere nessun tipo di rapporto con te. E fa bene a mimetizzarsi con la piastra, dal momento che i capelli non li hai più da un pezzo… Ma fosse solo quello, accetterei la disgrazia con rassegnazione, invece no, mi è capitato l’uomo menomato, quello col morbo di Parkinson che si manifesta soltanto quando deve compiere azioni ad alto rischio di minchiata. Ti sei reso conto che, durante la tua eccellente prestazione sportiva, almeno la metà del sale l’hai sparsa per terra e l’altra metà l’hai versata a cazzo soltanto su una lato dell’arrosto? Torna di là a fare quello che ti riesce meglio, cioè niente… almeno non fai danni.

Okay, avevo sottovalutato la reazione. le righe sono state più di tre… Capito come funziona? Per qualche granello di sale caduto in terra e una distribuzione disomogenea sull’arrosto, rimediabile con una semplice ravanatina nella pentola, lei si sente in dovere di vomitarti addosso tutte le sue insoddisfazioni e di farti pesare quello che sei diventato anche e soprattutto a causa sua. Perché, diciamoci la verità, hai smesso di fare sport in quanto alla “signora” dava fastidio che avessi del tempo libero da dedicarti. E la pancia? Quella c’è, è fuor dubbio. Per forza, nemmeno la Sora Lella cucinava piatti così pesanti. A pensarci bene, guardandola, non è che lei sia messa meglio: quando l’hai conosciuta somigliava ad Angelina Jolie e adesso sembra Ave Ninchi. Benso, nella sua enorme saggezza, avrebbe risposto all’attacco con un “Vogliamo parlare delle chiappe che hai messo su, o lasciamo parlare le bestemmie delle sedie che le ospitano?”, ma noi, che siamo uomini zerbino, e non ci piacciono le discussioni, ci limitiamo a un laconico e ipocrita “Sì, amore, hai ragione, torno di là”. Inghiottendo, insieme alla saliva, tutta l’insoddisfazione e la frustrazione che ci portiamo dentro. Ci vuole più coraggio a tacere piuttosto che a rispondere, a volte.

Questo scenario potrebbe sembrare pericoloso e assolutamente da evitare, ma soltanto perché non ho ancora illustrato il successivo: quello in cui uno dei due, chissà sulla base di quale immeritata autostima, si autopromuove a direttore dei lavori e inizia a dare indicazioni all’altro, guardandosi bene dal prendere qualsiasi iniziativa che possa esporlo alla fatica o all’errore. Di solito, il ruolo da direttore dei lavori se lo assegna autonomamente l’uomo, che, pur di affermare la propria superiorità in ambiti in cui avrebbe solo da perdere, inizia a criticare a sproposito ogni azione della compagna. Ovviamente, dopo un paio di minuti, il clima si fa incandescente, lei s’incazza come una bestia e lo sbatte fuori di casa con due calci in culo e il divieto assoluto di rientrare prima dell’ora di cena. Lui, dopo che se n’è stato a cazzrullellare in giro, pensa che la furia si sia calmata, invece lei ha impiegato quel tempo per preparargli un’accoglienza al vetriolo.

– Bentornato, stronzo! Dove sei stato di bello? Da quella troia che ti manda i messaggini a tutte le ore?

– Ma no, amore, cosa dici? Ho fatto una passeggiatina per lasciarti in pace…

– Passeggiatina un cazzo! Mi hai preso per una deficiente o per una serva? Io mica sono tua madre, che ti prepara ancora “il frullatino” anche se hai quarant’anni, brutto coglione che non sei altro. In casa serve collaborazione, hai capito? Mi sono stufata di queste cene in cui devo fare tutto io e tu ti atteggi a supervisore del cazzo! Lo fai apposta per farmi imbestialire, ormai l’ho capito. Ma questa è l’ultima volta… dio deve fulminarmi, se ci ricasco di nuovo…

Dio, dove sei? Possibile che quando servi non ci sei mai e ti palesi soltanto quando non dovresti? Questa frase, negli ultimi dieci anni, l’avrà detta non meno di cento volte, ma è sempre stata la penultima, di volta… Perché non l’accontenti? Un fulmine, cosa ti ha chiesto, in fondo? Che vuoi che sia un fulmine? Basta un attimo e zac!… risolveresti due problemi. Che poi, se proprio vogliamo dirla tutta, è sempre lei a organizzare queste cene con gli amici (suoi), tu ne faresti volentieri a meno. In ogni caso, mentre attendi fiducioso il fulmine, provi in qualche modo a recuperare e te ne esci con un pericolosissimo.

– Dai, amore, dimmi quello che devo fare e lo faccio.

Questa frase ha tre possibili conseguenze. La prima è la più soft: ben sapendo che sei un deficiente, lei ti affida dei compiti idioti pur di non vederti stravaccato sul divano a mangiare patatine. Di solito si tratta di azioni semplici e prive di rischi, tipo grattugiare il parmigiano, infilare gli stuzzicadenti nelle olive o ripiegare i tovaglioli. Anche in questo caso, però, il folletto della minchionaggine che è in te può palesarsi sotto forma di grattugiata dell’indice con versamento di sangue a fiumi, nocciolo dell’oliva, mangiata di nascosto, che appare misteriosamente nel contenitore delle olive durante l’aperitivo (eppure eri convinto di averlo gettato nella spazzatura), tovagliolo con cui ti sei superficialmente soffiato il naso, ripiegato inspiegabilmente come tutti gli altri, che si confonde con la massa di tovaglioli e va a finire casualmente proprio nel di lei posto. La seconda opzione testimonia più che altro la resa ed è una dichiarazione di vittoria attraverso l’affermazione dei ruoli e delle competenze: “Ci metto meno tempo a farmele da sola, le cose, piuttosto che spiegarle a un eterocefalo glabro come te”. Diciamo che questa ipotesi è meno soft della precedente, ma è poco dolorosa per entrambi. La terza è terribile, peggio di una tumpuliata sugli zebedei.

– Lascia stare. Non importa.

Così, secco, senza altre aggiunte. In questo caso, hai due alternative. Puoi lasciar stare, far finta che l’affermazione sia vera, che non importi veramente, e tornare a non far nulla, ma commetteresti un errore madornale. Mica penserai che una donna dica “Non importa” rispettando il senso della frase, vero? Solitamente, un mansueto “Non importa” nasconde un più pratico “hai detto una cazzata”, un “ci sei arrivato quando non serve”, e annuncia una prova durissima da superare. Perché è evidente che non importa significa che c’è in ballo qualcosa di importantissimo, impossibile da decifrare, e che le possibilità di indovinare di cosa si tratti siano ridotte al lumicino. Infatti, passi minuti drammatici a cercare di capire quale sia il concetto così importante da non importare e alla fine dai seguito al famoso proverbio siciliano “Cchiù longa è ‘a pinsata cchiù grossa è ‘a minchiata”: ti dedichi a una delle tante attività che reputi di un’utilità pazzesca, tipo tosare il prato o prendere il trapano per mettere dei tasselli che deturpano le pareti, e che a lei fanno saltare definitivamente i nervi. 

C’è da chiedersi quale sia il contorto meccanismo cerebrale che conduce un essere umano a parlare in maniera cifrata quando non se ne sente assolutamente il bisogno. È come se in pizzeria si ordinassero degli arrosticini per chiedere una pizza capricciosa ben cotta, con poco pomodoro, molta mozzarella, senza funghi e con due uova, incazzandosi peraltro col cameriere che, quando si presenta con la pietanza, giusta ma sbagliata, non è stato in grado di capire l’ovvietà. 

– Signora, c’è qualcosa che non va? Gli arrosticini non sono di suo gradimento?

– Non importa…

Non importa? Tu ordini gli arrosticini quando in realtà hai voglia di pizza e se ti porto la pietanza che hai ordinato fai anche l’incazzata? Perché secondo te è ovvio dire arrosticino quando in realtà si intende dire pizza capricciosa, giusto?

Infine, c’è il caso in cui ognuno vuole prevalere sull’altro e innesca una competizione  spietata a colpi di critiche reciproche e vaffanculo lanciati a raffica come gli zoccoli che le mamme di una volta lanciavano ai figli: questa è sicuramente la situazione peggiore, quella che esaspera gli animi e conduce dritti dritti verso l’ictus. Lei fa la besciamella? Lui ha da ridire sulla consistenza e tira in ballo “la ricetta di mamma”, che la fa andare su tutte le furie. Ma come cazzo ti salta in mente di nominare la parola “mamma” durante un conflitto armato? Non sai che compagna e mamma sono come due rette parallele che non debbono mai incontrarsi? Loro sì che sono in competizione perenne. Dovresti saperlo che quando hai chiesto a tua madre un parere sulla tua compagna la risposta è stata “Non sa fare gli struffoli, non li frigge nella sugna” con una mestizia e una rassegnazione da cui avresti dovuto capire tutto. Dovresti saperlo che quando hai chiesto un parere su tua madre alla tua compagna lei ti ha risposto “Quella megera vuole insegnare A ME a fare gli struffoli”. Dovresti saperlo che dentro di te, vigliacco che non sei altro, pensi che “gli struffoli di mamma sono gli struffoli di mamma perché li frigge nella sugna”, ma non hai il coraggio di dirlo alla tu amara metà. Insomma, come al solito, dovresti sapere tutto, ma non sai mai niente. ‘N ce sto a capì ‘n cazzo ti dice qualcosa? Anche perché, se di solito la madre di un uomo viene portata dal bambacione cocco di mamma come l’esempio di donna perfetta e inarrivabile, la madre di una donna, per l’esattezza la suocera, è l’esempio di come non bisogna mai essere. L’insulto peggiore che un uomo possa fare a una donna non è “Sei una mignotta” ma “Sei come tua madre”… che poi comprende anche il primo insulto. Queste coppie non hanno speranza: sono destinate ad amarsi, odiandosi, per sempre. 

A questo punto, supponiamo che in qualche modo sia tutto pronto, che l’umore sia pessimo e che l’arrosto sia salato a metà. Dentro l’uomo risuonano ancora le parole “si ‘na uallera” e dentro la donna “Sei come tua madre, cioè una zoccola”. Insomma, ci sono tutti i presupposti per passare una serata da incubo, fingendo di essere una coppia felice e affiatata. Fortunatamente, le ultime volte mi sono limitato a fare la parte dell’invitato non accompagnato. Ho osservato le miserie altrui tenendo da parte le mie. La cena della scorsa settimana è stata più o meno questa.

Dlin, dlon.

– Chi è?

– Stocazzo!

La nostra parola d’ordine è questa. Sono più di quarant’anni che il signor Stocazzo suona al citofono, puntuale come le cartelle esattoriali. Per fortuna che c’è lui, l’unica ancora di salvezza della serata, l’unico che riesce a dare un senso compiuto alla domanda “Chi è?”. Casa di Alberto è sempre la stessa, l’unica cosa che è cambiata in questi anni è la donna che ci abita: prima era Anna e adesso Tiziana. A conti fatti, lui è stato coerente con la scelta che ha fatto a suo tempo: è rimasto insieme a Tiziana, nonostante le mie previsioni lo avessero dato per spacciato dopo i primi sei mesi. C’è da dire che lei si è impegnata parecchio ed è cambiata talmente tanto, per amore di Alberto, che non la riconosco nemmeno più. Sono una bella coppia e vederli felici mi fa stare bene. Certo, i loro problemi li hanno, ma chi non ne ha? Scommetto che tra le situazioni che ho descritto loro sono nella prima.

In poco tempo si palesano tutti, nessuno escluso. Nel gruppo, formato perlopiù da squinternati, disagiati, ansiosi e depressi, ci sono Sandro, il tuttologo ipocondriaco malato di protagonismo, Teresa, la comare snob e impicciona, Laura, l’ansiosa colta e depressa, Martina, la squilibrata egocentrica malata di sesso, Barbara, la fredda e anaffettiva rompiballe che si accompagna a Fabio, il riccastro ignorantello e viscido. Ultimamente si sono aggiunte anche delle new entry: Federico, un ex carabiniere cinquantenne, espulso dall’arma, che di mestiere fa la guardia giurata, e Ilaria, la sua fidanzatina venticinquenne che invece fa la coatta di professione e aspira a diventare la commessa in un negozio di abbigliamento prestigioso, ma, nell’attesa, lavora all’outlet “Tanta roba”, un negozietto terribile che vende vestiti “quasi firmati”. Il proprietario, conosciuto nell’ambiente per la sua immensa generosità, che manifesta prestando i soldi a strozzo, acquista vagoni di merce contraffatta a cui toglie di proposito le etichette per far credere ai clienti che si tratti di merce che scotta. Alberto li ha ribattezzati subito Dexter e Sugar, i due poliziotti di Aldo, Giovanni e Giacomo. Per i soprannomi bisogna lasciarlo stare…  E devo dire che non sbaglia un colpo, perché Dexter, cioè, Federico, non perde occasione per raccontare storie, nella maggior parte dei casi frutto della sua fantasia, in cui compie azioni eroiche e sgomina da solo bande pericolose di criminali all’insaputa di noi comuni mortali, che dovremmo essergli grati perché mette a repentaglio la sua vita per farci vivere al sicuro. A ogni modo, quando parla di griminalità, con la g, con un tono grave e convinto, non riesco a essere serio. Insieme a Dexter e Sugar c’è anche Viviano, il marito di Laura, l’unica persona degna di rispetto, non fosse altro per il fatto che racchiude in sé due personalità: è silenzioso come il baffone dei Ricchi e Poveri e accondiscendente come il notaio di Indietro tutta. Solo lui può sopportare le fissazioni di Laura, la sfilza di malattie inventate e quella capacità provocatoria che farebbe incazzare anche San Francesco. Viviano ascolta, tace e si limita a dire “confermo”. È una coppia grigia, tenuta insieme dall’abitudine, più che dall’amore. Sono entrambi rassegnati a stare insieme.

– Secondo me non scopano più da almeno dieci anni…

– E su, Martina, possibile che vai sempre a parare là? A me mettono tristezza, altroché…

– Che c’entra… mettono tristezza anche a me, la mia è solo una constatazione.

– Fai constatazioni monotematiche…

– A proposito di tematismi… ma tu? Vuoi farmi credere che sei single?

– Deve esserci per forza qualcuna? Non potrebbe darsi che sto semplicemente benissimo da solo?

– Potrebbe darsi, ma ho come l’impressione che nascondi qualcosa e stai prendendo tutti per il culo. 

– Beh, ti sbagli. In ogni caso, sono affari miei…

– Di che affari parlate? 

– Teresa…

– Non è per impiacciarmi, ma…

– Non è per impiacciarti? Ma se non sai fare altro…

– Come sei permaloso! 

– Comunque, secondo me, Laura un pensierino su di te ce lo fa… anzi, più di un pensierino…

– Ma sei cretina? Piuttosto imbastisco una relazione col giornalaio, guarda. Quella ha un talento naturale per rovinare le vite degli altri. Hai visto come ha ridotto Viviano? Quel poveraccio mica era così. Laura è di un egoismo e di un egocentrismo senza paragoni. Vede fantasmi e complotti ovunque…

– Hai dimenticato l’ipocondria.

– È il classico dito al culo…

No, scusate, io non ce la faccio. Ogni volta si va a finire a parlare di gossip. Possibile che le tresche siano l’argomento dominante di tutte le conversazioni? Mi butto sul buffet e li lascio sfogare…

– Secondo me Luca sta con qualcuna e non vuole dirlo.

– A me non piace per niente! Con quell’aria da falso intellettuale sensibile e da malinconico incompreso mi urta i nervi.

– E di quel suo modo di fare da principino di Primavalle ne vogliamo parlare?

– Sì, Sandro, lo sappiamo che tu non lo sopporti: è evidente da come ti rivolgi a lui, si capisce lontano un miglio…

– Per forza, si atteggia a finto intellettuale e invece non capisce una cippa.

– Beh, no, non sono d’accordo. Luca dà una pista a tutti voi messi assieme… Vorrei aver letto la metà dei suoi libri.

– Ma quali libri? È uno sbruffone e basta. L’anarchico de ‘sta minchia… il pensatore libero che non si confonde con la massa. O la pensi come lui o ti reputa un coglione. Poi ti fa pure le battutine per fare il simpatico: sai dove se la può infilare, la sua ironia?

– Ma infatti! Se provi a dire qualcosa di sensato, il pensiero della gente comune, ti dice subito che sei un fascista e attacca il pippone sui valori universali, sugli ideali e sull’uguaglianza. Si sente superiore a noi. Tutte chiacchiere: cominciasse a ospitare qualche barbone o qualche negro in casa sua, poi vedi come cambia idea.

– È un fascista mascherato da comunista. 

– Sentite, a me non piace parlare alle spalle delle persone…

– No, Martina, a te non piace parlare alle spalle di Luca perché sono anni che gli sbavi dietro e non ti si fila.

– Io? Ma sei scema?

– E dai, lo sanno tutti…

– Ti sei bevuta il cervello? Sandro, le rispondi tu, per favore?

– Io non mi pronuncio. Secondo me quello è pure frocio.

– E basta! Mi fate pena, guarda: siete la meschinità fatta persona.

– Chiudiamo il discorso, che è meglio.

Sì, mi sento fuori posto. Non so se sia io a essere inadeguato a loro o loro a essere inadeguati a me. O entrambi. Quando mi invitano dovrei dire no, ma evidentemente qualche demone si impossessa di me e prende le decisioni al mio posto. 

– Stai sempre attaccato a quel telefono… con chi chatti?

– Con un cliente.

– Di sabato sera? Alle 21,30?

– Sì, Teresa, di sabato sera, alle 21,30: è vietato?

– No, no, ci mancherebbe.

Temo di non riuscire a resistere: prima o poi dovrò ricorrere alla bestia che è in me e a un “mi hai rotto i coglioni” con la voce di Al Bano. C’è un limite a tutto, anche allo sfrugugliamento.

– Alberto, ma cos’ha Luca? È strano…

– Sì, per forza, è Luca Strano, altrimenti sarebbe un’altra persona.

– Dai, non fare lo scemo: fa il solitario, se ne sta in disparte e non partecipa alle discussioni…

– Il dubbio che non sia interessato alle discussioni che fate ti è mai sfiorato?

– Se continua così, va a finire che si autoesclude dal gruppo di amici: uno così porta pure sfiga. Se n’è accorto pure Sandro.

– Non ne avevo dubbi: l’invidia di Sandro nei confronti di Luca è evidente. Non perde occasione per sparlare di lui. Che vuoi farci? Soffre di complessi d’inferiorità, bisogna capirlo.

– Sì, ho anch’io questa impressione: sembra geloso.

– Di cosa non si capisce, dal momento che a Luca non gliene va bene una.

– Ha dei problemi con qualche donna, vé?

– E ti pare che una cosa simile la verrei a dire a te?

– Ho indovinato?

– Sì, hai indovinato: ha dei problemi con una donna.

– Lo sapevo! Caccia fuori il nome.

– La donna con cui ha problemi… sei tu! Continui a impicciarti di cose che non ti riguardano.

– Ti hanno mai detto che sei stronzo come il tuo amico?

– Uh, non sai quante volte… Andiamo a cenare che è meglio…

Vi avverto: sono nella fase “odio tutti”. Capirai, già non li sopporto nei giorni migliori, figuriamoci in quelli peggiori. 

– Tutto ottimo, Tiziana: complimenti!

– Giusto l’arrosto… era leggermente sciapo…

– Veramente la mia fetta era salata!

Che vi avevo detto? Ho indovinato: siamo sicuramente nella situazione 1. Lei ha preparato tutto e lui ha fatto la minchiata… Eppure a vederli sembrano così felici. Mai fermarsi alle apparenze.

– Beh, tutto ottimo tranne il cadavere arrostito: io la carne la toglierei definitivamente dal commercio.

– Uh, non cominciare a fare la solita vegana integralista, Laura!

– Sei un’insensibile, ecco cosa sei. Gli animali hanno un’anima, sono un dono di Dio!

– E le piante no? Anche loro hanno un’anima: non andrebbero uccise.

– Concordo: sono fonte di vita! Ci danno l’ossigeno.

– Scusate, ma prima o poi una melanzana morirebbe lo stesso: tanto vale che muoia fritta e affogata nella parmigiana…

– Un conto è la morte naturale, un altro conto è l’estirpazione: come se a te, di punto in bianco, ti togliessero l’ossigeno e ti lasciassero morire lentamente. Ossigeno che peraltro ti viene donato dalle piante.

– Scusate se mi intrometto…

Minchia, si è svegliato pure Viviano, la faccenda è seria.

– … gli animali no, le piante no, di cosa cazzo dovremmo nutrirci?

Beh, per far sbroccare Viviano ce ne vuole. Complimenti, notaio, osservazione esatta.

– Uova e formaggi.

– Per carità, sei pazzo? E gli allevamenti intensivi? Non dimenticare quelle povere galline ammassate, costrette a covare uova tutto il giorno. Senza contare che ogni uovo  potenzialmente è un…

– Pollo al forno con le patate!

– Idiota, intendevo dire “pulcino”.

– Eh, certo, ma è anche una frittata di cipolle, però…

– Mi state facendo venire la nausea.

– Vado a preparare il caffè, voi intanto spostatevi in salone.

Vi è piaciuto  l’angolo del nutrizionista? Okay, forse non è stato trattato agli altissimi livelli che avrebbe raggiunto Rosanna Lambertucci, ma ci siamo andati vicino. So che preferireste un argomento a piacere, ma purtroppo per voi il copione lo detto io: parliamo di complottismo.

– Per carità: io sono contro i vaccini!

– Certo, Laura, tu sei contro a qualsiasi cosa abbia un fondamento scientifico.

– Per forza! Con la scusa del vaccino, chissà cosa ti iniettano nelle vene. A parte i rischi di autismo e i problemi legati alla salute, c’è chi sostiene addirittura che mettano in circolo dei microchip collegati al 5G.

– E quale sarebbe il motivo?

– Ovvio, per spiarci. 

– Quindi pensi che il mondo sia interessato a sbirciare nella tua insulsa vita e per farlo si spendano soldi ed energie nella ricerca?

Mi piaccio quando antepongo l’aggettivo al nome, rafforzo il concetto come quando uso gli improperi.

– Ti prego, non parlarmi di ricerca. Sostengo da sempre che la scienza è solo un punto di vista. La scienza è relativa…

– Ma che cavolo dici? Secondo te le leggi di Newton sono relative?

– Certamente! Sono solo convenzioni che l’uomo ha adottato per spiegare quello che non riesce a capire.

– Ma di quali convenzioni parli? Hai mai sentito parlare del metodo scientifico?

– Tutte cazzate: la gente continua a morire e ad ammalarsi, nonostante la “tua scienza”.

– Ti pare un ragionamento sensato? La medicina e la matematica sono due scienze completamente differenti…

– Senti, Luca, non fare il sapientone con me perché non attacca! Ho le mie idee e devi rispettarle.

– Io le idee le rispetto sempre. In questo caso, però, non si tratta di idee, ma di opinioni: se io ti dico che questo è un bicchiere, tu non puoi dirmi che è una ruspa. Confondi il diritto a esprimere un’opinione con la presunzione di sparare cazzate, secondo me.

– Ah, perché tu hai solo certezze? Beato te… Tu, per esempio, sei certo che la terra sia tonda? Ci sono fior fior di teorie che lo mettono in dubbio!

– Anima candida di Galileo, rispondi tu per me.

– Galileo? Quello che ha rinnegato le sue idee pur di salvarsi il culo? Lascia stare, Luca, lascia stare…

Sì, lascio stare. Non ce la posso fare. Lascio la parola alla rubrica “Ce l’ho lungo” e mi estraneo dai discorsi.  Faccio la voce esterna. Chi comincerà, stavolta?

– Sto pensando di cambiare la macchina.

Fabio, come sempre… figurati se non esordiva con lo sfoggio di ricchezza non richiesto.

– Ma la tua non è seminuova?

– Sembra seminuova, ma ha già un anno e mezzo…

– Me cojoni! È da buttare, allora….

– Se non la cambio adesso, poi si svaluta troppo.

– E cos’hai intenzione di comprare?

– Qualcosa di sportivo, che abbia un motore con almeno 200 cavalli.. Sono indeciso tra la BMW Coupé e l’Audi 2.0 biturbo.

Son problemi… Io pure sono spesso indeciso sulla scelta del mezzo con cui spostarmi.  Nel mio caso, però il quesito è leggermente diverso: “È meglio la tessera dell’Atac o il monopattino elettrico acquistato a rate approfittando del  bonus statale?”.

Passo notti tormentate e non riesco a prendere una decisione: nessuno può capire Fabio meglio di me.

– Comprare l’auto nuova, di questi tempi, è un azzardo, se non hai il garage…

– Perché è un azzardo?

– Con tutta la delinquenza che c’è in giro… rischi che te la rubano subito.

E ti pareva che Dexter non attaccava coi soliti discorsi sul crimine: l’unico argomento di cui può parlare è quello. Dexter, stai attento ai congiuntivi: questo è un libro di un certo livello.

– Voi non avrete idea di cosa c’è là fuori. È pieno di griminali…

Griminali… E fosse solo quello: ha aggiunto  anche un prezioso “voi non avrete”.

– La griminalità farebbe il suo porco comodo, se non ci fossero noi guardie giurate che rischiano la vita tutti i santi giorni.

– È vero, amò, io ciò ‘na paura quanno vai a lavorà… se io resterei sola… non ce voglio nemmeno penzà?

Se io resterei? 

Se io resterei??? 

Padre Giove, ti prego, intervieni. Trasformala in un capitone, affinché la sua presenza su questa terra abbia un senso, almeno il giorno della vigilia di Natale.  Cosa c’è di peggio di “se io resterei”? Se io andrei? No, Se io andrei una speranza la dà: fa sperare che chi lo pronuncia possa realmente andare lontano laddove nemmeno Claudio Baglioni in Poster auspicherebbe. Andare dove? Fate voi, ragazzi, fate voi. Se io resterei, invece, toglie anche quella speranza: significa che il capitone resta, e discutere con un’anguilla, perdipiù di sesso femminile, non è proprio edificante. Poi dici che uno si sente inadeguato, per forza! Dove minchia li hanno raccattati questi due? La selezione deve essere stata durissima: trovare dei compagni di viaggio di questo “calabro” culturale non è facile. Mi auguro per voi che i griminali e l’uso spericolato dei tempi verbali abbiano provocato uno shock curabile soltanto con le videolezioni notturne dell’università telematica Nettuno. In caso contrario, voi avete un problema, Dexter e Sugar hanno un problema e io ho tre problemi… 

– Se io direi quello che m’è successo ieri non ci credeste.

No, Cristo, no! Se io direi è peggio di Se io resterei. Ma porca di quella troia, vi siete proprio messi in testa di condurmi all’infarto? Avete in mente di trasformare l’Accademia della Crusca in un Burger King e per farlo avete scelto i miei racconti? Posso dire che avrei preferito una fine più gloriosa? Che so, milioni di copie vendute, una serie televisiva su Netflix, interviste di Marzullo… e invece mi tocca lo sputtanamento siderale?

– Dai, racconta, le tue imprese sono sempre così emozionanti… vero, Alberto?

– Uh, come no, ci stiamo cagando sotto dalla paura…

– Visto che me lo chiedete… Insomma… Ieri tre bastardi romeni sono entrati nel supermercato di cui ero di guardia. Non gli ho dato manco il tempo di capire quello che stasse succedendo: due l’ho stesi con una scarica di cazzotti, un’altro è scappato terrorizzato.

Niente da fare: Dexter, si dice “un altro”, senza apostrofo, non un’altro: fai errori di ortografia anche quando parli…

– Se io avrei il potere, farei piazza pulita.

Alé, ci voleva la chiosa colta, stavamo in pena, se ne sentiva la mancanza. Faccio finta di niente, tanto ormai l’integrità linguistica del mio libro è bell’ e andata a puttane.

– Ma sei un eroe!  

– Non fare l’imbecille, Luca! Federico sì che ha coraggio: affrontare da solo bande di criminali… sfido chiunque.

Griminali, prego! Purtroppo, con me questi racconti eroici non attaccano: io, tra le guardie e i griminali, scelgo sempre i secondi. Un ladro ha sempre un buon motivo per rubare e una guardia non ha mai un buon motivo per ammazzare il prossimo. Ma soprattutto Dexter non ha mai un buon motivo per raccontare queste cazzate colossali. Che dovrei fare, adesso? Chi parla di lusso, chi spara teorie pseudoscientifiche, chi parla di piante con l’anima, chi fa azioni eroiche… e io? Devo riscattarmi per forza, non ho alternative. Potrei far ricorso alla storia della fontana luminosa o a quella volta che ho afferrato un fico d’india pieno  di spine al volo, ma non so se farebbe effetto. Ci sono! Racconterò l’impresa eroica più importante e pericolosa della mia vita. Non avrei mai pensato di doverlo fare, ma lo devo a me stesso. Ne va della mia dignità.

– Io. Una volta. Ho. Smontato. Lo sciacquone. Geberit.

Sguardi increduli. Stupore. Tutti mi guardano con sgomento e meraviglia, come Wilma Goich guardava Edoardo Vianello mentre le cantava Tù padre co tù madre più de vent’anni fa sbajareno li calcoli prima de consumà sinnò me pare chiaro non dovevo stà a pensà che ciò ‘na donna a carico che me fa disperà.

– Ci stai prendendo per il culo?

– No, sono serio.

– Non fare il buffone.

– Sfido chiunque, non temo confronti: alzi la mano chi l’ha fatto almeno una volta nella vita.

Immobilità. Silenzi. A questo punto, quella che in un primo momento poteva sembrare, a giusta ragione, una provocazione inizia a innescare la competizione.

– Io ho smontato il pulsante, ma non sono mai andato oltre… troppo complicato.

– Sì, lo so: in molti si bloccano in quel punto.

Rispondo, con l’aria da professionista degli sciacquoni.

– Quel rumore continuo d’acqua mi manda al manicomio: pensa che ogni volta spendo 200 euro di idraulico…

– È il calcare: si forma uno strato di calcare che impedisce al galleggiante di chiudere lo scarico.

Minchia, quanto sono preparato! Altro che l’equazione d’onda di Huygens-Fresnel, la teoria dello sciacquone gocciolante mi dà una soddisfazione che levati…

– Ah, c’è un galleggiante?

– Ma si smonta? Io credevo fosse tutt’uno con la cassetta di scarico.

– Si smonta, ma è un’operazione molto complessa: c’è un gioco di incastri terribil, se sbagli e ti cade qualcosa sul fondo, sei fottuto…

Qua si vede l’eroe, lo sprezzo del pericolo, il coraggio di immolarsi per una giusta causa.

– Ma sì, Luca, io lo faccio quotidianamente.

Figurati se non si palesava l’imperatore della competizione: Sandro, l’ipocondriaco che sa tutto di tutto e, nella sua immensa bontà, lo insegna anche agli altri.

– Ogni giorno? Beh, forse devi sostituire dei pezzi.

– Mi vuoi insegnare come si fa? Ne ho riparate a centinaia, di cassette Geberit. Potrei tenere dei corsi…

E certo, passare da medico internista a sturacessi è un attimo… 

Quanto ci scommettete che riesco a dirottare la conversazione in un fiat e a tornarmene nel mio confortevole oblio dell’essere? 

– No, certo, tra l’altro, ogni volta che devo mettere le mani alla Geberit ho qualche esitazione: sai, la mia tendinite mi dà qualche problema…

– La tua? E la mia? Tu non immagini i miei problemi al tendine della mano destra… altro che i tuoi…

Non avevo dubbi: siamo passati dalla gara sugli sciacquoni a quella sulle malattie. Proprio non ce la fa, Sandro, a perdere una competizione; deve vincere per forza. Quello che non capisce è che a me di competere con lui non me ne frega assolutamente nulla: gli do la vittoria a tavolino.

– No, per favore, non parliamo di malattie: io da ieri ho un dolore inspiegabile al braccio sinistro. Ho subito pensato a un infarto, ma credo sia qualcosa di più serio…

– Più serio di un infarto?

– Sì, qualcosa collegata alle ossa…

Fermi tutti, stanno entrando in loop. Dove sono i tasti Ctrl-Alt-Canc, per riavviare il sistema?

Niente da fare, il sistema “amici” si è impallato: funziona peggio di Windows 95. Ognuno è perso nei propri egoismi, nelle proprie manie, nell’affermazione del proprio ego. C’è un estremo bisogno di sentirsi parte di qualcosa, di imporre le proprie convinzioni, di apparire migliori. Nessuno sente il bisogno di essere quello che è e di sentirsi accettato così, finalmente. Sarebbe tutto più facile, se Teresa dicesse “Non riesco a farmi i cazzi miei” o se Sandro dicesse “Sono invidioso”. Sarebbe più facile scoprire le carte, invece di bluffare continuamente, pensando che gli altri siano talmente deficienti da non accorgersi della finzione. Ci vuole tanto, dico io, a essere, in mezzo agli altri, quello che si è quando si sta da soli? Perché c’è questo bisogno spasmodico di diventare qualcun altro? Forse perché è meglio sembrare sani piuttosto che apparire rotti. E c’è da capirlo: a chi può piacere veramente un uomo in tutte le sue sfumature? Siamo mediocri, fragili e abbiamo paura, questa è la verità. La sofferenza degli altri ci dà un sottile piacere perché rende più sopportabile il dolore che ci portiamo dentro e la felicità altrui ci infastidisce perché ci ricorda quanto siamo infelici. Per fortuna, capita di innamorarsi e in quel caso ci mostriamo come siamo: soffriamo per il dolore altrui e siamo felici per la sua felicità, ma di solito questa condizione, che anestetizza tutto il resto, non dura a lungo. Ci terrorizza l’idea di morire, temiamo la diversità, la solitudine e invidiamo gli altri anche quando non c’è niente da invidiare. Per questo ci interessa tanto sapere quello che succede fuori, piuttosto che indagare su ciò che accade dentro. E cerchiamo rifugio nelle nostre manie e nell’approvazione di chi la pensa come noi. Costruiamo montagne di rapporti superficiali, che danno l’illusione di appartenere a qualcosa, perché scavare a mani nude nelle profondità di un rapporto vero è faticoso e pericoloso e si rischia di toccare vette e abissi con la stessa facilità. E allora cerchiamo di stare in equilibrio in un sistema totalmente squilibrato, costruendo piccole sicurezze a cui aggrapparci. Come in un grande circo in cui c’è il domatore di leoni, il pagliaccio e l’acrobata. Ognuno è libero di guardare gli altri come meglio crede: c’è chi ammira il coraggio del domatore e chi soffre nel vedere il leone in gabbia. C’è chi ride quando vede l’esibizione del pagliaccio e chi non può fare a meno di piangere. E poi c’è l’acrobata, quello che ha la vita appesa a un filo e guarda gli altri al contrario. È lui che ti costringe ad alzare la testa e a guardare in faccia la realtà, quello che ti fa stare col fiato sospeso perché, tra tutti, è il più fragile e precario: basta niente e cade giù.

Uomo avirato mezzo salvato

Posted on 1 Maggio 202029 Maggio 2020 by admin
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Arriva un momento, nella vita, in cui sei costretto a mettere in discussione le scelte che hai fatto, le scelte che non hai fatto e la normalità che hai costruito, a cui sei abituato, e che ti ha anche un po’ rotto le balle. La sveglia, la colazione, i figli da preparare, poi due ore in mezzo al traffico, il petto di pollo triste della mensa aziendale, due chiacchiere forzate coi colleghi, che, se non fosse per l’ufficio, non li frequenteresti nemmeno sotto minaccia di castrazione, lavoro, altre due ore nel traffico, la strada del ritorno, sempre la stessa, il telegiornale, sbarchi, inquinamento, siparietti politici, cena abbondante per compensare il pranzo misero, dolcetto anti depressivo  e tutti a letto. I più fortunati dopo una trombatina serale, spesso noiosa, i più sfigati dopo essersi rincoglioniti davanti alla tv, magari convinti di essere dei grandi intellettuali perché guardano qualche programmino satirico di approfondimento politico.

Se non ci fosse qualcuno più attento degli altri alle relazioni sociali, che ogni tanto mi sbraita inferocito dal finestrino “A fijo de ‘na mignotta, ma ‘ndo cazzo vai?” con la voce ruggente di Adriano Pappalardo, mi sentirei solo, per niente coccolato e sosterrei con fermezza che la vita dell’uomo qualunque non è poi così entusiasmante. Oggi come oggi, l’esistenza è una sorte di attesa perenne nei confronti di qualcosa che, quando arriva, non è mai come uno se l’era immaginata. Si aspettano l’amore, la laurea, il lavoro, il matrimonio, i figli, il successo, la pensione… il tutto intervallato da piccoli o grandi miraggi di qualche tipo di felicità da rincorrere in maniera scomposta. Felicità che è sfuggente come una saponetta nella doccia di un carcere durante la giornata mondiale dell’igiene. Ti chini un attimo per raccoglierla e … zac! Nel frattempo, tra una doccia e l’altra, tra un miraggio e una delusione, si costruiscono una normalità e una monotonia che spesso vanno strette. Arriva un momento in cui non ce la fai più a sostenerle e, per fortuna, a volte arriva anche quell’attimo inaspettato di felicità, che stravolge tutto. Il problema, il vero problema, è che la felicità e la normalità sono come due zie che si stanno cui coglioni a vicenda: alle feste non c’è spazio per entrambe, o si invita una o l’altra. Diciamo che la normalità è la zia monotona, tranquilla e indifferente che sta sempre in mezzo alle palle e non dà mai soddisfazione, mentre la felicità è la zia pazza e scapestrata, quella che si palesa una volta ogni dieci anni, strombazzando su una spider rosa, vestita come Thelma e Louise messe insieme, e ti travolge coi suoi regali strampalati e i suoi complimenti esagerati. Ti fa sentire vivo, in poche parole. Tutti la criticano, ma in fondo vorrebbero essere come lei. Perché ha avuto il coraggio di diventare ciò che è sempre stata, senza scendere a compromessi con nessuno, nemmeno con l’altra zia, che la voleva sistemata con un buon partito. Se ne va all’improvviso, senza avvertire. Te ne accorgi perché hai paura di perderla, come è già accaduto altre volte, e segui ogni suo movimento. Una mattina, nel dormiveglia, senti il rumore di un motore, pensi di sognare, ti svegli all’improvviso, ti affacci alla finestra e vedi un po’ di polvere e una spider rosa che si allontana. Resti immobile, incollato alla finestra, a osservare l’alone del tuo respiro affannato sul vetro. Non riesci nemmeno a piangere, passi direttamente alla rassegnazione e speri che torni il prima possibile. Vabbè, taglia corto e parlaci di quello che t’è successo e come hai perso la felicità, vi starete dicendo. Sbagliato! Vi parlerò di come si perde la normalità, perché a perdere la felicità siete sicuramente bravi quanto me e non avete bisogno di lezioni da nessuno. Tutto è iniziato i primi giorni del mese di marzo, quelli che, nelle canzoni di Battisti, si vestono di nuovi colori. Mi sveglio, apro le finestre, alzo lo sguardo al cielo e penso “Oggi sarà proprio una giornata di merda: fa freddo, piove e resterei volentieri a casa, se non avessi una serie di appuntamenti scanditi come la raffica di una mitraglietta F44. Esco in balcone, guardo la strada che ho di fronte e i bagliori del nuovo giorno che sta nascendo: è da un po’ che non arriva nessuna zia scapestrata. Se non è arrivata, non c’è nemmeno il rischio che parta, penso. Meglio così.

Che anno èèè, che giorno èèè, 

questo è il tempo d vivere con te, 

le mie mani come vedi non tremeno più 

e ho nell’anima, in fondo all’anima 

cieli immensi e immenso amore 

e poi ancora ancora amore amor per te, 

fiumi azzurri e colline e praterie, 

dove corrono dolcissime le mie malinconie,

l’universo trova spazio dentro me… 

ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è…

 

Ta, ta, tatatà, ta, ta, tatàtatta…

Mi ritrovo a cantare con un Kinder Brioss grondante caffelatte stretto tra le mani a mo’ di microfono: quando sono posseduto dal demone della musica posso fare qualsiasi cazzata. Mi ricompongo un minimo e, mentre asciugo il tavolino con tonnellate di carta assorbente, penso che è andata a finire proprio così: nonostante l’età, il coraggio di vivere, quello, ancora non c’è. Sarà che non sono mai riuscito a decidere nulla, tantomeno come vivere. Ho avuto l’illusione di farlo, ma in realtà gli altri avevano già deciso per me, facendomi trovare davanti a una tavola apparecchiata e facendomi pesare la fortuna di avere tutto, senza capire che il problema che mi assillava, e che mi assilla ancora, era proprio quello: avere tutto, avere niente. Mi sono lasciato vivere dalla vita e, soprattutto, ho fatto in modo che le vite e le opinioni degli altri influenzassero enormemente la mia: un errore che non mi perdonerò mai, Prendi esempio dalla zia scapestrata, mi dico, lei sì che ce l’ha fatta. La verità è che sono diventato un pavido borghesuccio conformista, quindi adesso è giusto che mi ritrovi nelle condizioni di chi vorrebbe andare al mare a guardare la libecciata che imperversa sulla costa e invece gli tocca sbattersi in mezzo al traffico. Proprio come quando avrei potuto scegliere di girare il mondo in barca a vela e invece mi sono ritrovato davanti a una scrivania a eseguire ordini dettati perlopiù da grandissime teste di minchia, esattamente come tutti quegli amici che compativo e criticavo ferocemente. Dicono che la rivoluzione si faccia con le idee, e io di idee e di ideali ne ho sempre avuti parecchi. Il problema è che le idee da sole non bastano, serve anche il coraggio. Ormai è andata: il coraggio di vivere si trova a vent’anni, non certo a quaranta suonati. Esco di casa, metto in moto la mia vecchia Panda e, per andare in banca, faccio rotta a nord, come indica il navigatore. Di nautico, nella mia vita, c’è rimasto solo questo: la voce di quella baldracca che, con l’intonazione di una chat erotica, suggerisce “tra cento metri, mantenere il nord, poi spostarsi a nordest”. Dementi che non siete altro! Chi cazzo è in grado di stabilire qual è il nord, in mezzo al traffico? Direte, la banca dista meno di due chilometri da casa tua e usi il navigatore? Per forza, altrimenti come faccio a capire quale strada è meno trafficata e arrivare in un tempo ragionevole, ovvero 45 minuti? 

Ma tutte queste mamme bagasce, con le labbra rifatte e la minigonna inguinale, che accompagnano i figli a scuola col SUV, parcheggiano appositamente a caso per aumentare l’entropia dell’universo e le imprecazioni degli automobilisti? E, soprattutto, è proprio necessario andare in giro con quella specie di carro armato, per fare duecento metri di strada? Ma dimmi tu se mi tocca rimpiangere i tempi in cui i genitori andavano in giro coi pantaloni a zampa d’elefante e accompagnavano gruppi di ragazzini scalpitanti, ammucchiati dentro una FIAT 126, sopravvissuti ai biscotti Montebovi e, da adolescenti, ai viaggi Roma Ostia in due, sul Ciao, senza casco e senza più gli zebedei a causa di quel micro sellino che li anestetizzava per ore e ore. Bei tempi, quando nelle radio suonava l’Avvelenata,  Roma era capoccia se si inseguivano le libellule in un prato in cerca della buona novella. Bah, questa routine non la sopporto proprio più. Mi va stretta. Mi è sempre andata stretta. Sono un moderno uomo d’altri tempi. Metto la freccia per occupare un posto in quarta fila fuori dalla banca e una delle suddette mignotte, a bordo di una specie di Jeep da Hooligan, inizia a suonare come una forsennata e a gridare con la bava alla bocca a mo’ di pitbull aizzato da padrone coglione.

–       Ma li mejio mortacci tua, te levi dar cazzo? Stai a bloccà er traffico”. 

Riconosco una certa gioviale raffinatezza in queste parole affettuose. Degna dell’auto che possiede…

–       Certo, principessa, mi saluti tanto la regina…

–       Ma vaffanculo… coglione!

Che vi dicevo? Ogni tanto ci vogliono delle iniezioni di fiducia. Mica sono insensibile come il tubo di scappamento di un autobus, anch’io ho bisogno di sentimenti puri e parole dolci: ah!,  la nobiltà romana… gente di uno spessore culturale, di una profondità d’animo, che non potete comprendere pienamente se non attraverso queste poche parole, incomprensibili ai più. Cosa avrà voluto dire, la principessa, con quel “vaffanculo… coglione!”? Si è sicuramente lasciata andare a qualche tipo di sofisma socratico, a complesse metafore esistenziali, al dico e non dico, all’antica arte della retorica, al metodo induttivo… vi dico la verità: non so se ho capito bene il messaggio d’amore profondo che ha voluto trasmettermi. Perché è chiaro anche a voi che dietro quelle parole apparentemente superficiali si nasconde un qualche significato recondito da decifrare, che può sfuggire ai meno attenti. Ci penso, ci penso e vi faccio sapere…

In banca mi accoglie uno Strinzetti invecchiato e prossimo alla pensione. Ricordate il dottor Strinzetti? Quello al cui confronto la zeppola di Jovanotti passa inosservata perché se pronuncia la parola sasso lava il pavimento con la saliva? Strinzetti è quel genio della finanza che in tempi passati mi ha fatto perdere cifre consistenti in investimenti azzardati. Stavolta, a differenza della volta precedente, sono stato io a chiedergli un appuntamento per investire i miei risparmi in sicuri titoli di stato tedeschi. La tedeschia, si sa, è uno Stato solido: giusto un evento di proporzioni mondiali, tipo una guerra o una pandemia, potrebbe comprometterne la stabilità economica. Esco dalla banca e mi avvio a fare quello che mi riesce meglio: bestemmiare in mezzo al traffico, mentre rimbalzo da un cliente all’altro. Per fortuna a quest’ora in radio c’è Il ruggito del coniglio a tenermi compagnia. Finito il giro dei clienti, mi toccherà fare un salto in ufficio a risolvere quintali di problemi: ‘gna posso ffà. Sapete cosa faccio? Me ne frego di tutto e di tutti e vado al mare a guardare in diretta la libecciata: l’unico atto rivoluzionario che posso permettermi è questo. Mi rifugio là, in quella grotta a strapiombo sul mare e sto un po’ da solo con me stesso come Ethan, il protagonista del libro L’inverno del nostro scontento, quello che diceva “Non voglio che la fortuna guasti la dolcezza del nostro fallimento”. Ma sì, anche i fallimenti possono avere aspetti positivi. 

Mi fermo a comprare un panino, una birretta, due patatine… e resto solo coi miei pensieri, a contare le onde. A volte vorrei essere come l’acqua e adeguarmi alla vita con la stessa facilità con cui le onde si adeguano a qualsiasi ostacolo incontrino. Invece non è possibile, o meglio, non con quella facilità che vorrei. Appena mi adatto a una situazione, a un rapporto con una donna o a un qualche tipo di lavoro, arriva una libecciata che spazza via tutto e mi costringe a cambiare. Così, di uragano in uragano, cambio forma continuamente e pago un prezzo altissimo. Se riuscissi a superare le delusioni e le difficoltà che incontro con la stessa disinvoltura con cui le onde superano quello scoglio in mezzo al mare, sarei in equilibrio perfetto.  Invece sono come quel peschereccio che tenta di rientrare in porto e prende schiaffi da tutte le parti. Meglio non pensarci. 

Strana bestia, la solitudine: quando c’è vorresti avere compagnia e quando sei in compagnia vorresti stare solo. Sono un’anima in pena, questa è la verità. Sto là e vorrei stare qua, sto qua e vorrei stare là. Qualche ora fa smaniavo per fuggire da tutto e adesso ho voglia di tornare a casa, nella mia casa, al sicuro: mi sento improvvisamente malinconico. 

Mi avvio verso la macchina, riflettendo sull’efficacia con cui il mare manifesta la sua furia e faccio un parallelismo con le mie manifestazioni di disappunto: non c’è dubbio, siamo due professionisti dell’incazzatura. Salgo in macchina e mi accordo che la salsedine ha ricoperto completamente il parabrezza e ho finito l’acqua dei tergicristalli: ho un attimo di esitazione. Vi capita mai di trovarvi in quelle situazione in cui vi chiedete “lo faccio o non lo faccio?” pur conoscendo inconsciamente le conseguenze del “lo faccio”? Non pensateci troppo, la risposta è sì. Aziono il tergicristallo e il parabrezza diventa immediatamente come lo schermo di un televisore senza antenna. Una giaculatoria profana trattenuta è peccato o no? Mezzo o intero? In caso affermativo, confido nell’indulgenza plenaria. Lo sapevo, eh, ma ho voluto sfidare la sorte. Tolgo il cacciavite che incastrato nel finestrino e guido fino alla prima fontanella, con la testa fuori, per far prendere aria ai pensieri. Aira a 3 gradi sotto zero, per l’esattezza. Faccio rifornimento d’acqua e, dopo aver perso mezz’ora abbondante per risistemare il cacciavite e bloccare di nuovo il finestrino, che, non so perché, ogni volta si ostina a ricadere giù in quella fessura che sembra una specie di pozzo senza fondo all’interno del quale non si sa bene cosa ci sia, accendo il  riscaldamento e accendo anche la radio.

… I primi casi di contagio si sono verificati nella provincia di Lodi.

Minchia, ancora il virus cinese?! Sono giorni che ci terrorizzano con questa storia. Eppure quel virologo è stato chiaro: in televisione ha detto “qui da noi non arriverà mai!”. E se lo dice lui, che sta tutti i santi giorni in televisione come Lorella Cuccarini, invece di stare in laboratorio, non si può non credergli. Se le pubblicazioni scientifiche si misurassero in tweet, vincerebbe il Nobel. Razionalità, ci vuole razionalità: anche se dovesse arrivare qua, cosa vuoi che sia un’influenza? Arriva tutti gli anni… Ai giornalisti piace teorizzare complotti e scenari catastrofici per fare audience, è il loro mestiere.

… sono state adottate misure di contenimento.

Ecco, se riuscissero anche a contenere le teste di cazzo che mi inquinano la vita tutti i santi giorni, sarebbe perfetto. Meglio non pensarci, altrimenti vanifico l’effetto rigenerante e consolatorio della mareggiata… Me ne torno a casa col seguente programma: un’oretta di corsa al parco, aperitivo con gli amici, spesa… Anzi, no, gli amici stasera proprio no, altrimenti mi tocca sentire Teresa, che inizia a parlare e sparlare di tutto e di tutti pur di riempire i vuoti della sua vita. Hai visto che ha fatto quello? Hai sentito che ha fatto quell’altra? Si impiccia di tutto l’impicciabile, basta darle il LA. Sembra una delle comari descritte nella canzone Bocca di rosa, quelle che non brillano certo in iniziativa, le contromisure fino a quel punto si limitavano all’invettiva.

 Capirai, a me, che delle vite degli altri non me ne può fregare di meno, mi invita a nozze: invento le storie più fantasiose per il solo gusto di sentirla teorizzare intrighi miseri e senza senso, sulla base di notizie false, che la fanno godere come una pornodiva delle maldicenze. Non c’è niente da fare: a me quelli che hanno la mania di curiosare nelle vite degli altri perché la loro è troppo noiosa stanno garbatamente sui coglioni. E Sandro, il tuttologo? Dio, che palle! Tu prendi un argomento qualsiasi e lui pretende di insegnarti quello che non sa. Qualsiasi confronto è l’occasione per mettersi in mostra e in competizione. È un pressappochista di professione e un ipocondriaco per vocazione: se dici che hai un dolore a un ginocchio, lui ti elenca tutte le malattie da cui crede di essere affetto.. Lo fa con una sicumera da pseudoscienziato che mi urta i nervi. Se a te fa male il ginocchio, a lui fa male di più, se hai un forte mal di testa, non puoi competere con il suo. Ma chi cazzo vuole competere, dico io. Che poi, quando parte per la tangente, gli si accoda subito Laura, la presidentessa del club degli inguaribili ipocondriaci. Da quando la conosco, pensa di essere affetta da qualsiasi patologia esistente, e se non le danno soddisfazione quelle esistenti ne inventa di nuove. Per lei un capillare rotto equivale alla peggiore delle malattie mortali. Inizia a cercare su internet, fa collegamenti talmente fantasiosi che neanche Jim Morrison sotto effetto di Aspirina e Coca Cola sarebbe in grado di fare. Alla fine pronuncia la sua diagnosi nefasta: “Il capillare, collegato alla dermatite seborroica e a quel giorno in cui mi sono grattata il polpaccio sinistro, che si è leggermente arrossato, è il sintomo evidente di un melanoma incurabile allo stadio avanzato, ne sono certa”. A quel punto, entra nel panico, si autoconvince si essere vicina alla morte, fa il testamento, prende appuntamenti con gli specialisti, fa accertamenti di ogni tipo e quando si accorge di non aver nulla passa a un’altra malattia. Ora è alla lettera E, Epidermodisplasia verruciforme: ha una verruca, ma la tesi che possa essersela presa in piscina è troppo semplicistica. È disperata: pensa che il suo corpo si riempirà in poco tempo di verruche e pustole infette. Per lei nutro dei sentimenti di pena e tenerezza. Cos’altro si può provare per una donna che è malata della paura di vivere al punto da non vivere più?

No, no, niente amici, per carità, che se poco poco si aggrega anche Martina con la sua sessomania siamo spacciati: lei gli uomini li misura in centimetri… non so se mi spiego. Soffre di bulimia affettiva con complicanze varie, tra cui il carattere di merda che si ritrova. Non perde occasione per intavolare discussioni sessocentriche in cui ipotizza teorie pseudo freudiane senza senso basate esclusivamente sulla personale visione che ha della vita. Qualsiasi discussione deve fare i conti con la sua chiave di lettura. Ricordo quella volta in cui, per alzare il livello della conversazioni, intavolai una discussione sulla perifrastica passiva. Sapete qual è stato il risultato? Lei capì “plurilesbica ossessiva” e raccontò la storia di una sua amica stalker, convinta di aver capito bene e di essere una grande oratrice. Se non ci fosse stata Laura a ricordarle di essere andata “fuori tema”, sarebbe stata la fine. Ricordo che indirizzò la discussione verso l’aulicità dell’amore omosessuale, la buttò sulla cultura greca, sul tìaso, sulle devote di Afrodite, parlò di Saffo di Lesbo e delle sue poesie, di Anattoria e di quei versi rivoluzionari che le vennero dedicati, Un esercito di cavalieri, dicono alcuni,‎ altri di fanti, altri di navi,‎ sia sulla terra nera la cosa più bella:‎ io dico, ciò che si ama,  ma lei, imperterrita, tirò fuori Youporn e un video di cui parlò con una dovizia di particolari ignota anche al regista. Io  e Laura ci siamo arresi: quando c’è lei bisogna selezionare pochi argomenti, parlare del più e del meno e, possibilmente, evitare l’argomento a piacere. Anche perché, se non la pensi come lei, fa di tutto per farti sentire a disagio e inadeguato: come se lo squinternato fossi tu e non la sua personalità deviata.  Che poi, a conti fatti, è una vittima di sé stessa e si illude che le compagnie superficiali possano colmare i vuoti che si porta dentro. Il contrario di Barbara, quella dura e fredda come gli accumulatori che si mettono in freezer per rinfrescare le pesche e i succhi di frutta. Ha un viso tirato da cui non traspare mai nessuna emozione, sembra una statua di sale. Non l’ho vista piangere nemmeno quando ha perso la madre. Per non parlare di quando si è lasciata col marito, sembrava che il divorzio non la riguardasse, che il marito fosse uno dei tanti estranei di cui parlava con distacco. In compenso, è malata di lusso e fissata con gli acquisiti. Ma non una fissazione normale, una patologia da squilibrati, compulsiva, che denota tutte le mancanze che inconsapevolmente ha. Compra in continuazione qualsiasi cosa si possa acquistare. Ricordo quella volta in cui si presentò a cena con una borsa terribile formata  da due sfere da cui spuntava una peluria inquietante che le faceva somigliare tremendamente agli zebedei di un alano. La mostrava fiera, eh, Una borsa così che l’ho solo io, diceva. E ti credo, chi cazzo avrebbe il coraggio di andare in giro con una cosa simile? Rischi che ti fermi la polizia e ti arresti per oltraggio al pubblico pudore. La suddetta borsa era firmata da Gucci e le era costata quanto un soggiorno di sei anni per quattro persone a Ponzano Romano, spese autostradali incluse. Gliene ho dette talmente tante che non mi ha più rivolto la parola per due mesi, ma almeno non si è più presentata alle cene con quelle palle di pelo disgustosa che hanno fermato la digestione a tutti.

No, no, niente amici, per carità, che poi Fabio, il riccastro ignorantello, scelto da Barbara come rimpiazzo all’ex marito, inizia a parlare di lussi di ogni tipo e a rivangare le vecchie nostalgie. Non capisco come facciano a sopportarsi, lui e Barbara, infatti lui la tradisce con Martina, la sessuofaga, e rimpiange continuamente Paola, la sua ex. Se no ci fosse Alberto, il mio amico storico, sarei contornato da comparse, meteore, persone che stanno là e di tanto in tanto spariscono per poi riapparire. Fabio, secondo me, è una persona da evitare come i virus: i suoi problemi di autostima li scarica sugli altri, nascondendo una  pericolosa aggressività dietro un compassionevole vittimismo. Ed è un coltivatore di rancore come pochi al mondo, un vero professionista in materia: usa qualsiasi cosa tu dica per rivangare fatti accaduti secoli prima e scaricarti addosso le sue frustrazioni. È normale a giorni alterni: se lo becchi nella giornata sì, è giocherellone, generoso e socievole. Nelle giornate no, ti vomita addosso le peggiori cattiverie. Bipolare, ecco la parola giusta: è un rancoroso bipolare. Per forza Paola non vuole più saperne… 

No, no, niente amici, stasera, per carità.

… da questa mattina sono state chiuse tutte le attività non essenziali: la popolazione è obbligata a restare chiusa in casa. Saranno fatti controlli a tappeto… forze dell’ordine… esercito… non è consentito uscire se non per motivi di estrema necessità.È obbligatorio mantenere il distanziamento sociale e tenersi a distanza di un metro dal prossimo.

Un metro? Ah, quindi devo avvicinarmi: io il distanziamento sociale lo tengo per default, almeno 5 metri. Potrei tenere dei corsi universitari di distanziamento sociale. Quando mia nonna consigliava di mantenere il famoso “palmo di distanza”  di sicurezza, io l’ho presa alla lettera e ho arrotondato a cinque metri per essere più sicuro. Il virus sta facendo anche cose buone…

–       Accosti e favorisca i documenti…

Ecco, appena escono fuori le parole “ha fatto cose buon”, si rivela un qualche tipo di minchiata. Figurati se, quando ci sono ordini da eseguire, giusti o sbagliati che siano, non spuntano fuori poliziotti e carabinieri. Per loro tutti gli ordini sono giusti: proprio quello che ci vuole per quelli come me che considerano qualsiasi tipo di ordine sbagliato e non ammettono nessun tipo di ingerenza sulla libertà personale.

–       È da solo?

Ah, non è un poliziotto semplice, ho beccato quello coglione. D’altronde, sarebbe stato sorprendente il contrario: trovare quello intelligente è difficilissimo. Esistono, eh, la leggenda narra che siano fra noi, ma compaiono soltanto quando le scie chimiche, in cielo, disegnano il profilo di un armadillo clamidoforo troncato.

Mi verrebbe da rispondere, No, non vede che accanto a me c’è Belen Rodriguez seminuda che sta facendo una diretta su Instagram?

–       In che senso?

Dico, facendo il vago, guardando in alto e pensando a Verdone…

–       Quanti sensi ha la domanda “È solo”?

–       No, sono accompagnato, ma attualmente la mia donna non è in loco.

Sapevo che prima o poi la frase “non è in loco” che ho letto mille volte nei libri di Camilleri mi sarebbe tornata utile.

–       Mi dia l’autocertificazione.

Risponde il tizio, evidentemente incazzato, con un accento che ricorda Abatantuono quando fa il terroncello. 

–       Quale autocertificazione?

–       Sta scherzando o fa finta di niente?

–       No, sono serio, non capisco…

–       Lei pensa di potersene andare in giro liberamente? A infettare il prossimo, oltretutto? Non sa che da stamattina sono scattate delle misure di contenimento ferree? Dove se ne sta andando?

Calma, Luca, stai calmo. Vuoi prendertela con un coglione simile? Non vedi che ha già le sue disgrazie cerebrali con cui fare i conti? Che gusto ti darebbe prendere a coltellate un melone retato? Non ti sei reso conto che il suo cervello è attaccato al database centralizzato della polizia, quello dei pensieri all’ammasso, e qualsiasi cosa di ragionevole tu dica risponderà con una frase inutile e idiota?

–       Veramente non sto andando, sto tornando. A casa.

–       E dov’è andato?

La tentazione di rispondere “saranno cazzi miei?” è fortissima.

–       A trovare mia nonna.

Senza dire nulla, prende i miei documenti e inizia a smanettare davanti a un pc portatile. Dopo un quarto d’ora ricompare con un sorriso beffardo.

–       Quale delle due nonne, quella morta nel ‘97 o quella morta nel ‘99?

Brutto figlio di puttana: ecco cosa ha fatto davanti al pc, è andato a impicciarsi dei fatti miei come nemmeno Teresa, l’amica comare, si sarebbe permessa.

–       Lei è obbligato a dirmi dov’è andato, perché è uscito e dove si sta dirigendo, ha capito? E senza fare lo spiritoso!

A questo punto, sarà per colpa dell’aria di mare, sarà perché apprezzo la presenza dei poliziotti come si possa apprezzare il lupus eritematoso, sarà perché penso di essere abbastanza intelligente da sapermi governare da solo senza il bisogno dei suggerimenti della regia, sarà perché quando mi impongono con la forza di fare qualcosa il mio posto lo prende lo spirito della contraddizione che ho dentro e faccio esattamente il contrario, sarà perché la saliva va per traverso nei momenti meno opportuni… insomma, ho iniziato a tossire come un forsennato. 

Apriti cielo!

–       Esca dall’auto.

Dice il coglione, la cui incazzatura è arrivata a toccare vette inaspettate e per la quale mi faccio i complimenti.

–       Fagli la multa, a questa testa di cazzo, che già mi ha fatto perdere troppo tempo.

Perdere tempo? Come se nella vita avesse di meglio da fare che andare a rompere i coglioni alla gente. Stammi bene a sentire, specie di Playmobil mascherato, quella testa genitale a cui ti riferisci non sono di certo io. Dovresti fare outing, vedresti che poi ti sentiresti meglio e scopriresti di essere in ottima compagnia. Inutile discutere con le forze dell’ordine, sono come le code mozzate delle lucertole: si muovono senza testa in modo scomposto. Mille euro di multa e passa la paura.

Non faccio in tempo a incazzarmi adeguatamente che squilla il telefono: mi ero quasi dimenticato di averlo.

–       Ce l’ho Luca, ne sono certa!

–       Cosa avresti, Laura, di grazia? E comunque, ciao, eh?

–       Come cosa avrei? Il virus, cosa sennò?

Minchia, sono fottuto!

–       Macché, non cominciare con le tue fissazioni.

–       Fissazioni? Tu le chiami fissazioni? Ti ricordi che venti giorni fa ti ho detto di non provare più gusto nel mangiare i miei piatti preferiti?

–       Sì, hai anche ipotizzato un principio di disgeusia causata da un’infiammazione uterina che hai ricollegato a quella volta in cui hai usato il bagno dell’autogrill. Due anni fa, se non erro…

–       Sbagliavo! È il virus, ne sono certa. Il primo sintomo è la perdita del gusto e dell’olfatto.

–       Beh, l’olfatto non l’hai perso…

–       Stai scherzando? Ma se ti ho parlato mille volte di quel mio disturbo ai turbinati. Pensavo fossero i turbinati… e invece…

–       Ma quel disturbo non risale a un anno fa?

–       Allora non leggi niente, non sei informato! Non sai che il virus è in circolazione da più di un anno? Aiutami, Luca, sono nel panico completo: devo fare a tutti i costi un tampone, prima che sia troppo tardi.

–       Ma no, vedrai che non è niente…

–       Niente? Sei il solito pazzo incosciente. Ci sono già milioni di morti… quelli che dicono i media, poi… saranno almeno il doppio. Io non voglio finire intubata in una terapia intensiva…

–       Sì, ma stai calma, ancora è tutto da verificare.

–       Non sto per niente calma! Tu, piuttosto, sei chiuso in casa, vero?

–       No.

–       Come no? Te ne vai in giro a infettare la gente?

Eccone un’altra…

–       Mi auguro per te che almeno indossi la mascherina e i guanti.

–       No, sono uscito nature.

–       Sei un pazzo incosciente, ecco cosa sei. Vabbè che le mascherine sono andate a ruba, comunque io mi sono premunita: ho visto come si fa a farsele in casa e le ho fatte per tutta la famiglia. Basta prendere un assorbente, immergerlo per cinque minuti nella candeggina e avvolgerlo in due strati di carta forno… poi aggiungi due elastici, et voilà, il gioco è fatto.

–       Minchia!, così non solo muori intossicata e soffocata, ma stermini anche tutta la famiglia.

–       Meglio morire intossicati che a causa di un virus mortale.

No, vi prego, non la reggo. Accetto tutto, ma la morte preventiva per panico causato da ipotesi di virus è troppo anche per me. La rassicuro, o meglio, tento di rassicurarla, ma i tentativi sono vani: è completamente fuori di testa. Mi ha messo l’ansia. Riattacco il telefono e provo a concentrarmi sulla multa, per sostituire un pensiero angosciante con un altro peggiore. Sento anche un leggero mal di gola… sarà sicuramente colpa del freddo che ho preso al mare. O no? Uh, che palle, di nuovo il telefono.

–       Ce l’ho, Luca, ne sono certo!

–       Sandro… 

Mi mancava, stavo quasi in pena.

–       Hai sentito?

–       Sì, ho sentito. Se può tranquillizzarti, anch’io ho un leggero mal di gola, ma non penso di avere nessun virus…

–       Sì, ma il tuo non è come il mio, il mio è più grave.

E ti pareva…

–       Io sento come una specie di ferro incandescente, che mi attraversa la gola quando deglutisco. Non riesco a mangiare e tra i sintomi c’è scritto chiaramente: perdita di appetito.

–       Ma no, ti sarai preso l’influenza. Può capitare…

–       Influenza? Ma sai qual è la differenza tra una semplice influenza e il coronavirus? Ti sei informato? No? Te lo spiego io…

Ecco là, è passato da millantato idraulico a esimio epidemiologo in meno di due giorni: se continua così, tra una settimana opererà a cuore aperto e riformulerà la teoria delle stringhe…

–       Potrebbe non essere come dici tu, magari ci sono altre cause…

–       Non ci possono essere altre cause: è l’RNA capisci? Dipende tutto da come l’RNA interagisce con le cellule…

Capite? Una settimana fa parlava delle tecniche per disincrostare il galleggiante dello sciacquone Geberit e adesso parla di RNA come se fosse un microbiologo. Chiudo la telefonata prima che finisca in rissa. Toh, alla radio passa E tu come stai. Era una vita che non la sentivo, mi riporta ai miei vent’anni e alle serate estive. 

Questa sì che è una canzone da cantare in macchina a gola spiegata.

 

Tu come viiiiiiviiiiiiiiiiiiicometitroooviii

chi viene a preeeendeeeerti

chi ti apre lo spoooorteeeeellooooochiiiiiiiiiseeeegueeeeognituopaaaassssoooooo

 

Non so voi, ma io ho una serie lunghissima di canzoni da macchina, quelle da cantare a perdifiato in estate coi finestrini aperti, per farsi guardare da chiunque si accosti con quello sguardo un po’ schifato e un po’ invidioso. Posso vantare una lista di canzoni che in condizioni normali, e alla presenza di altre persone, non oserei mai intonare nemmeno sotto minaccia di morte: mi farebbero perdere quell’aria da finto intellettuale che ascolta solo musica impegnata. Passare dall’interpretazione sofferente e un po’ snob di Canzone di Notte N.2 alle movenze della brunetta dei Ricchi e Poveri mentre canta Mamma Maria è un lusso che non posso permettermi. Va bene mostrarsi il più possibile per ciò che si è realmente, ma c’è un limite a tutto. Poi, a dire la verità, io ho sempre fatto il tifo per il baffo, mentre il biondo belloccio era insopportabile: la tresca tra lui e la brunetta era evidente. Però, baffo, pure tu, un minimo di spigliatezza in più… eri impacciato come uno scolaretto, mentre facevi finta di suonare a tastiera.

 

Tucooomestainonècambiatonieeentenooo

Il tempooononèèèèmaipassaaaatotradino

 

Dopo aver messo a dura prova le corde vocali, mi accorgo che mi ha telefonato Fabio: chiamata senza risposta. E ti credo, perché dovrei rispondere a un rompiballe simile? C’è un dubbio, però, che si cela sempre in quella “chiamata senza risposta”: e se avesse voluto dirmi qualcosa di importante? Facendo una distribuzione statistica delle cose importanti che avrebbero dovuto dirmi i mittenti delle chiamate non risposte, mi sento di escluderlo: sarebbe la prima volta. Che faccio? Richiamo? Non vorrete mica prendervi la responsabilità di farmi perdere una comunicazione d’importanza vitale, vero?

–       Luca, meno male che mi hai richiamato.

–       Ciao, Fabio, che t’è successo?

–       No, niente d’importante…

Lo sapevo, non avrei dovuto chiamare.

–       Volevo farmi due chiacchiere e ti volevo chiedere se stasera ti andava di fare una corsetta.

–       Che? Ma se l’ultima volta che hai corso mangiavi i tegolini del Mulino Bianco e giocavi coi tappi nel cortile di casa…

–       Ho necessità di correre…

–       Non hai sentito che da stamattina bisogna stare chiusi in casa? Proprio adesso ti è venuta questa necessità?

–       Sì, appunto, ma stasera devo andare da Martina e non so cosa inventarmi con Barbara: le ho detto che mi avevi convinto a correre insieme a te…

–       Ma sei coglione? Non mi presto a queste cose, lo sai! Se vuoi correre, corri da solo… e non accostare il mio nome ai tuoi impicci con Martina. Ma come ti è saltato in mente?

–       Grazie, eh? Fai un favore a un amico, mica a un cane… comunque, non preoccuparti: mi arrangio da solo. A buon rendere!

Lo sapevo che non avrei dovuto richiamare. Sputerà veleno per i prossimi vent’anni… Ma io dico, posso trovarmi coinvolto in queste situazioni?

–       Luca, dimmi la verità: hai un appuntamento con Fabio?

Ci mancava solo la telefonata di Barbara, per chiudere in bellezza. Quel tono da gendarme che ha riesce sempre a mettermi in imbarazzo.

–       S…sì, cioè, avevamo un mezzo appuntamento, ma con questa storia del lockdown è saltato.

–       Appunto, è quello che pensavo anch’io! Sono sicura che si è inventato questa cazzata per andare a trovare la sua amichetta. Chissà quante altre se ne inventerà, in questi giorni, pur di uscire di casa.

–       Ma no, Barbara…

Dove la trova un’altra donna che indossi con disinvoltura la collezione “coglioni d’alano” che sarà sicuramente la protagonista della stagione autunno-inverno? Questo avrei dovuto dire, invece no, mi sono astenuto. La mia posizione non mi consente di fare passi falsi.

–       Tanto lo so, cosa credi? Ma se pensa che stia insieme a lui per amore, si sbaglia di grosso: mi interessano solo i suoi soldi.

Che trio dolce e ingenuo, vero? Il trittico della miseria umana. Ma che problemi ha la gente? Tra tutte le chiamate che ho ricevuto, ce ne fosse stata una equilibrata. Possibile che sia così difficile confrontarsi con qualcuno che abbia una minima idea di cosa sia la razionalità? Secondo me aveva ragione Heidegger quando sosteneva che il pensiero delle persone è limitato dalle parole di cui dispongono. Io aggiungo anche “e dalla frequenza con cui le usano”. Se nel vocabolario di Martina, ci sono le parole sesso, troia, cazzo, trombare, che tipo di pensiero può scaturirne? Puoi parlare di qualcosa che non contempli il suo set mentale di pensieri e parole? Se Laura pensa continuamente a malattie, morte, sofferenza, quali stati d’animo può trasmettere? Certo, detta così sembra un po’ riduttiva: entrambe soffrono come bestie per cose diametralmente opposte, ma il succo del discorso è quello: parlano male e pensano male.

Ho voglia di stare lontano da tutti e da tutto: accendo la radio e spengo il cellulare.

… ci saranno inevitabili ricadute sull’economia e sugli investimenti…

Ma porca di quella troia! In mezzo a questo casino, avevo completamente dimenticato gli investimenti di questa mattina. Me la sono cercata, non avrei dovuto citare Ethan e quel maledetto “Non voglio che la fortuna guasti la dolcezza del nostro fallimento”. Dolcezza una beata minchia, dico io.

Non vedo l’ora di tornare a casa e farmi una doccia. Come al solito, non si trova un parcheggio nemmeno a pagarlo oro, mi tocca parcheggiare a un chilometro da casa.

–       A fijio de ‘na mignotta, ma ‘ndo cazzo vai? Devi restà a casa!

Mi grida dalla finestra un tizio inferocito con la canottiera bianca e con le fattezze di Asterix. Riconosco lo stesso tono dolce e accogliente di questa mattina: non posso fare a meno di rispondere…

–       Ci conosciamo? Ma niente niente è parente di una certa principessa…

–       Ma vattene a casa, coglione!

Sì, sì, è un parente, ne ho la certezza. Hanno  la stessa madre ignota. Ci mancava solo lo sceriffo di quartiere: ora c’è e siamo a posto. Ammetto di aver sbagliato a pensare che avessimo toccato il fondo, questa storia del virus sta cominciando a tirare fuori il peggio del peggio dalle persone. Ma come si permette un coglione obeso in pancera e canotta a dirmi quello che devo fare, dove andare e con chi stare? Sulla base del potere conferito da Non è l’arena di Giletti? Apro la porta, incazzato, e accendo il pc per leggere un po’ di notizie più approfondite:  c’è di peggio. Le persone, non potendo uscire per chissà quanto tempo, si sono date appuntamento per cantare sui balconi e darsi forza a vicenda. In ogni quartiere c’è una playlist. Nel mio sono capitate, nell’ordine, l’Italiano di Toto Cutugno, Tu che ne sai di Gigi d’Alessio e Torna a Surriento di Enrico Caruso. Temo di non riuscire a sopravvivere: preferisco morire di virus, è più dignitoso. Vedete quanto ci vuole poco a stravolgere la normalità, a crearne una nuova e a non capire più cosa sia normale e cosa non lo sia? Quanto sono fragili le sicurezze che ci creiamo ogni giorno, le piccole barricate e le abitudini che ci fanno sentire protetti? Quante e quali miserie siamo costretti a mostrare quando siamo di fronte a una delle tante facce della normalità. Quanta disumanità mostriamo in ogni situazione, per egoismo o per paura? Ci servirà da lezione? Passato il terrore del virus, riusciremo ad accettare la normalità degli altri senza deriderla o colpevolizzarla, barricandoci dietro le piccole e meschine sicurezze, che ci siamo costruiti, convinti che siano migliori delle altre? Riusciremo a non ammalarci di noia e di monotonia, a dare il giusto valore a quello che viviamo giornalmente, senza farci sopraffare dall’insoddisfazione e dall’inquietudine?

 

Tu che ne sai, che sto ancora a pensarti da solo

Tu che ne sai, e se cade una stella dal cielo la dedico a noi

 

La risposta è no, siamo senza speranza e nella merda fino al collo. Non c’è speranza per chi canta dai balconi le canzoni di Gigi d’Alessio, convinto che possano mandar via la paura. Non c’è speranza per chi pensa di sapere tutto solo perché ha letto qualche informazione sul web. Non c’è speranza per chi si arroga il diritto di urlare odio ingiustificato da un balcone, certo di sapere cosa sia giusto e cosa non lo sia. Non c’è speranza per chi usa la scusa dell’epidemia per umiliare qualcun altro con l’arroganza del potere. E, soprattutto, non c’è speranza per quel coglione che investe tutti i suoi risparmi in modo fallimentare poche ore prima che si palesi il fallimento.

Il mercato del lavoro e i big data

Posted on 25 Marzo 202025 Marzo 2020 by admin

Prima di scrivere questo articolo, che sintetizza il lavoro pubblicato sulla piattaforma www.iolavoro.info, mi sono chiesto a lungo se fosse o meno opportuno utilizzare le parole big data, per trattare un fenomeno che, per essere descritto, necessita di una grande quantità di dati. Poiché in questo momento si parla di big data anche quando si tratta di scrivere una lista della spesa un po’ più lunga del solito, ho deciso di fare una captatio benevolentiae, ben sapendo che i big data “veri” sono un’altra cosa rispetto al fenomeno di cui parlerò. La parola grande, o piccolo, e in questo la mia formazione da fisico non aiuta a prendere la questione alla leggera, non ha nessun significato se non viene specificato “rispetto a cosa”. Una formica è piccola rispetto a un elefante, ma è grande rispetto a un virus. Per questo, la notazione scientifica contempla gli ordini di grandezza, che consentono di avere un’idea esatta della “grandezza” fisica in esame. Così, se si parla di un oggetto che ha le dimensioni di 10^-9 metri si può fare un paragone con la grandezza di un atomo, mentre se si trattano distanze dell’ordine di 10¹¹ metri si può immaginare lo spazio che separa la terra dal sole. Per i dati non esiste un vero e proprio ordine di grandezza, che consenta di sapere quando “rientrano nella normalità” e quando sono “big”. In poche parole, non esiste un “rispetto a cosa”, o un riferimento certo e duraturo con cui effettuare dei confronti. Per questo, troppo spesso le parole big data, che hanno sicuramente un certo appeal sulle masse, si usano impropriamente e capziosamente (come nell’articolo che state leggendo). La mia idea è che i dati diventano big quando la loro raccolta e la loro elaborazione richiede risorse molto onerose, rispetto a quelle disponibili in un preciso momento storico, in termini di infrastrutture, strumenti, metodi e capacità di calcolo, per gestirne la quantità e la velocità di aggiornamento. Di conseguenza, le risorse richieste si possono considerare con buona approssimazione dei buoni indicatori di quanto i dati siano big. Negli anni ’80, raccogliere ed elaborare un dataset giornaliero contenente 100.000 record che occupasse uno spazio di 50 Mb era un’attività onerosa e in effetti, per le conoscenze e la tecnologia di quegli anni (i primi hard disk avevano una capienza di 5Mb), la parola big avrebbe potuto avere un senso. In un periodo in cui la quantità di dati è impressionante, penso all’IOT, alla telefonia, alle preferenze degli utenti raccolte dai colossi del web, il mercato del lavoro è interessato da un cambiamento, che, a dire la verità, è iniziato quando sono state introdotte le comunicazioni obbligatorie (CO), ovvero le comunicazioni telematiche attraverso le quali i datori di lavoro (pubblici e privati) segnalano le attivazioni, le cessazioni e le trasformazioni contrattuali al Ministero del Lavoro e alle regioni.

Si tratta di flussi di dati continui e consistenti che vengono raccolti attraverso un’infrastruttura costruita ormai più di dieci anni fa, quando le CO rientravano a pieno titolo tra i big data. Nel frattempo, il mondo si è trasformato: sono nati i servizi in cloud, i social network, Google e Amazon hanno cambiato l’economia e il modo di relazionarsi attraverso l’analisi di quantità di dati talmente consistenti e mutevoli da renderne difficile la quantificazione. Usare i big data per produrre statistiche ufficiali non è semplice: occorrono metodologie robuste, che non contemplino l’approccio classico di conduzione delle indagini (disegno del campione, raccolta dati, strutturazione e analisi dei dati, etc) o di trattazione degli archivi amministrativi. Le istituzioni che si occupano di statistiche ufficiali di solito non forniscono i dati di flusso, ma producono dati strutturati, sicuramente di qualità, che subiscono un processo di analisi e validazione affinché possano diventare “conoscenza”. Lo scotto da pagare per ottenere dati di qualità riguarda essenzialmente i tempi necessari al processo di analisi e diffusione I flussi di dati raccolti devono consolidarsi per diventare uno stock riferito a un arco temporale ben definito, che nella maggior parte dei casi descrive un fenomeno relativo a un arco temporale distante nel tempo. Si tratta di un limite che, oltre a far riflettere su come si sarebbe dovuto evolvere il ruolo delle istituzioni rispetto all’open data e alla fornitura dei dati di flusso, non consente di monitorare l’andamento dei fenomeni in tempo reale. I dati di flusso riguardanti il mercato del lavoro si possono suddividere essenzialmente in tre categorie:

  • Comunicazioni obbligatorie: vengono raccolte dal Ministero del Lavoro, contengono dati personali, che per essere rilasciati dovrebbero essere resi anonimi, e non sono disponibili in formato open né sotto forma di stock né tantomeno sotto forma di flussi.
  • Offerta di lavoro pubblico e privato: è presente sul web, in modalità totalmente destrutturata e localizzata su numerose piattaforme di settore.
  • Curriculum vitae: sono contenuti perlopiù all’interno delle piattaforme che si occupano dell’erogazione di servizi associati al lavoro (incontro domanda offerta)

La disponibilità di queste “nuove” fonti dati è figlia del cambiamento sociale avvenuto negli ultimi anni: il “modo” di cercare lavoro è totalmente cambiato rispetto al passato. Gli annunci si consultano online, i cv si mettono in vetrina sui social network, le aziende affidano la ricerca di lavoratori qualificati ai cacciatori di teste e inseriscono le opportunità lavorative nei siti in cui si tenta di incrociare la domanda e l’offerta. In questo sistema, più o meno chiuso rispetto alle policy di diffusione adottate dalle diverse piattaforme, il linguaggio con cui si parla di professioni è totalmente destrutturato ed è subordinato alle mode e alla creatività delle aziende e dei lavoratori, che spesso inventano nuovi nomi per dare una diversa dignità a professioni che in realtà non hanno nulla di nuovo. Le istituzioni e il mondo della ricerca, invece, utilizzano dei sistemi classificatori attraverso i quali raccolgono i dati, li standardizzano e li analizzano. In Europa, per trattare i dati sulle professioni, esiste la ISCO (International Standard Classification of Occupations), il sistema classificatorio fornito dall,ILO (International Labour Organization), che in Italia prende il nome di CP2011.

Alla CP2011 sono collegate numerose banche dati: le CO, l’indagine sulle professioni basata sul modello ONET, gli infortuni sul lavoro, gli sbocchi occupazionali dei corsi di laurea, l’indagine sulle forze lavoro, le retribuzioni e la riforma dei concorsi pubblici e dei piani di fabbisogno nel pubblico impiego. Per completare il panorama informativo, manca(va)no, oltre alla raccolta dei cv, l’analisi e la strutturazione e la rappresentazione dei dati relativi alle offerte di lavoro. Si tratta di un tassello essenziale, che consente di studiare un aspetto importante del mercato lavoro e di fornire dei cruscotti informativi utili ai cittadini, agli orientatori dei centri per l’impiego e ai decisori politici.

Raccogliere i dati relativi alle vacancies è un’operazione complessa: esistono numerosi motori di ricerca, alcuni con limitazioni riguardo al loro utilizzo, altri con API dedicate, alcuni dedicate alle aziende private, altri ai concorsi pubblici, ciascuno con criteri di ricerca diversi: il pericolo di trovare lo stesso dato replicato su diverse piattaforme è reale e introduce degli errori sistematici che influenzano negativamente le analisi. Inoltre, la strutturazione delle offerte di lavoro contenute in più dizionari eterogenei e diversificati introduce un ulteriore livello di complessità che, per non appesantire questo articolo, rimando a un approfondimento successivo. Basti sapere che per effettuare questa operazione è necessario l’impiego di un algoritmo in grado di individuare, ad esempio, l’offerta di lavoro denominata “SVILUPPATORE JAVA” e associarlo all’Unità Professionale, il massimo livello di dettaglio della CP2011, 3.1.2.1.0 — Tecnici programmatori.

Il sistema di raccolta utilizzato è basato su un crawler complesso, che consente l’interrogazione, la standardizzazione e l’archiviazione dei dati provenienti dalle piattaforme che pubblicano le offerte di lavoro e ne autorizzano l’utilizzo. Un’offerta di lavoro può essere rappresentata (e strutturata) abbastanza efficacemente, prendendo in considerazione il titolo, la descrizione, il luogo, l’azienda richiedente e il link al dettaglio e alla candidatura. Queste informazioni, collegate alla CP 2011, possono essere archiviate e analizzate agevolmente attraverso lo stack Elastic: un insieme di soluzioni basate sull’architettura REST, che consentono di lavorare con flussi di dati consistenti e monitorare il loro andamento componendo delle dashboard ad hoc. A questo punto c’è da chiedersi “Quanto sono big i dati riguardanti le offerte di lavoro?”. La risposta sincera sarebbe “poco”, ma è possibile articolare una risposta meno sincera… che dipende sostanzialmente da due fattori:

  • le risorse a disposizione
  • la frequenza di raccolta

Un crawler ben strutturato, eliminando le duplicazioni, permette di acquisire circa 300.000 record giornalieri: tanti rispetto all’indagine statistica sulle forze lavoro, un’inezia rispetto ai tweet o al catalogo dei prodotti di Amazon. Poiché la frequenza con cui vengono aggiornate le vacancies non è molto elevata, avrebbe senso schedulare la raccolta compatibilmente con le reali necessità di analisi, allo scopo di ottimizzare ulteriormente la quantità di dati e di risorse impiegate. In entrambi i casi, è sufficiente un’architettura che contempli un nodo Elastic attraverso i suoi moduli Logstash, Elasticsearch e Kibana attraverso cui è possibile seguire il flusso logico schematizzato nella figura sottostante.

Tralasciando gli aspetti tecnologici, che meritano sicuramente approfondimenti ulteriori, è utile focalizzare l’attenzione sui risultati che si possono ottenere da un’analisi di questo tipo. In primo luogo, è possibile raggruppare i dati al massimo livello di aggregazione della CP2011 per capire quali sono le professioni più richieste all’interno di un singolo raggruppamento. Le professioni intellettuali e le professioni tecniche, al momento dell’analisi, rappresentano più del 70% dell’offerta.

Scendendo un po’ più nel dettaglio, e facendo un focus sulle professioni intellettuali, si può comprendere meglio la distribuzione degli annunci rispetto alle Unità Professionali contenute nel Grande Gruppo.

La rappresentazione grafica dei dati in un diagramma a torta è molto esplicativa: gli Analisti e progettisti di software, insieme agli amministratori di Sistemi, agli Specialisti nella commercializzazione di beni e servizi e ai Chimici, rappresentano circa il 20% dell’offerta complessiva.

I dati raccolti, disponibili per la consultazione sulla piattaforma http://www.iolavoro.info, permettono inoltre di fornire informazioni precipue e di analizzare nel dettaglio l’andamento in funzione delle Unità Professionali. Prendendo in esame l’Unità Professionale 2.1.1.1.1 — Fisici, si possono osservare diversi aspetti che non emergono dagli studi ufficiali condotti sul mercato del lavoro.In primo luogo, è possibile raggruppare le vacancies, per fornire un elenco completo e un panorama ampio integrato, grazie all’associazione con la CP2011, con le altre informazioni sulle professioni messe a disposizione dalle istituzioni (INAPP, INPS, UNIONCAMERE, MINISTERO DEL LAVORO, MIUR, Istat, Regioni).

Abbinando l’elenco delle offerte di lavoro all’elenco delle aziende e degli enti pubblici che pubblicano gli annunci, si possono comprendere i settori che esprimono un fabbisogno maggiore per una certa figura professionale. Nel caso in esame, l’Istituto di Fisica Nucleare, il Politecnico di Milano e L’Alma Mater Studiorum di Bologna sono gli enti pubblici a cui è associato il maggior numero di vacancies. Tra i soggetti privati, invece, spiccano le multinazionali che si occupano di ricerca e selezione di risorse umane (Ranstad, Orienta e Manpower).

La distribuzione territoriale è un altro indicatore importante per la valutazione dell’incidenza e del fabbisogno di una certa professione rispetto alle attività produttive e alle aziende dislocate sul territorio nazionale. Nel caso in esame, si può osservare una concentrazione elevata nel nord Italia e molto meno marcata al sud.

Tra gli esempi di professioni più rappresentativi c’è il Fisico, seguito dallo Specialista in fisica medica e dal Fisico nucleare. Questa differenziazione è più evidente se si prende in considerazione un’Unità Professionale diversa (es. Analisti e Progettisti di software) alla quale sono associati un maggior numero di voci elementari (analista di procedure, analista di programmi, analista programmatore, analista programmatore edp, bioinformatico, consulente per le applicazioni gestionali, consulente per le applicazioni informatiche industriali, ingegnere del software, progettista di sistemi vocali, sviluppatore software, capo progetto informatico, progettista di software, progettista sistemi multimediali, specialista progettista di prodotti di editoria elettronica).

Un ulteriore strumento di grande rilevanza per numerose valutazioni è fornito dalla rappresentazione dell’andamento temporale. Conoscere il trend delle vacancies è importante per pianificare politiche e azioni mirate sui sistemi di istruzione, formando per tempo delle figure preparate e agendo con un livello di precisione rispetto al territorio molto elevato.

Ci sono numerosi altri aspetti che possono essere scandagliati attraverso la raccolta delle offerte di lavoro. Avendo accesso ai flussi delle CO e ai dati puntuali dell’indagine sulle forze lavoro, per esempio, si può comprendere meglio il rapporto tra l’offerta di lavoro e l’occupazione. Studiando i tempi di vita delle offerte lavorative, strutturate sulla base della CP2011, si può conoscere la velocità con cui una certa figura professionale viene inserita nel mercato del lavoro. Questa e altre questioni saranno illustrate in un paper dettagliato in corso di pubblicazione.

Cervelli in fuga dalla caverna

Posted on 27 Febbraio 202011 Luglio 2021 by admin

L’Italia è una repubblica fondata sul potere delle caste. I cervelli non fuggono dall’Italia, come spesso si sente dire erroneamente, fuggono dagli italiani. Fuggono da una classe dirigente inadeguata, che esercita il potere con arroganza e incompetenza su una sudditanza addormentata. Fuggono dalla mediocrità di un Paese in cui la cultura e la conoscenza sono considerati disvalori e l’approssimazione, l’arrivismo, l’arroganza e le opinioni personali vengono considerati un valore. Se vogliamo trattenerli, e dare una speranza alle generazioni che verranno, c’è poco da fare, bisogna cambiare radicalmente la cultura massonica, clientelare e baronale in cui siamo immersi. Il potere uccide l’iniziativa e la creatività delle menti brillanti. Le spegne. Spegne le idee, l’entusiasmo e la buona volontà. Livella tutto e tutti verso il basso, affinché la mediocrità si vesta di eccellenza. Un lavoratore ha due alternative: adeguarsi o andarsene. Calvino, nel libro Le città invisibili, sosteneva che l’inferno è qualcosa che viviamo ogni giorno stando insieme: possiamo scegliere di farne parte fino al punto di non vederlo più o, scelta ben più difficile, cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Che tradotto in termini lavorativi significa restare o andarsene. Ma come siamo arrivati a questo punto? A dire il vero, l’attuale condizione l’aveva prevista con largo anticipo Platone, descrivendo il mito della caverna. Ricordate la storia dei prigionieri nati incatenati in una caverna e costretti a guardare le ombre della vita vera, che scorre alle loro spalle, proiettata su una parete da un enorme fuoco? La pubblica amministrazione è esattamente così, un posto in cui la percezione distorta della realtà viene rappresentata come l’unica verità possibile. E quali sono le ombre “parlanti” proiettate nella caverna della PA dal fuoco, che in questo caso simboleggia il potere? Sono le carriere dei mediocri costruite ad arte da altri mediocri a colpi di meriti immeritati e titoli inverosimili. Sono i vincoli burocratici di ogni tipo e le regole assurde che penalizzano il merito e favoriscono il demerito. Sono le dinamiche dell’Ufficio favori, quello che esisteva una volta nei ministeri e che è cambiato soltanto nel nome e non nella sostanza. Sono i concorsi truccati da un apparente rigore a cui non crede più nessuno. Sono le guerre tra poveri, che si contendono miserie di ogni tipo. Sono i diritti che vengono proiettati nella caverna sotto forma di privilegi, tra il malcontento e l’invidia di chi non può usufruirne e la malafede di chi ne approfitta. Sono gli interessi personali, che prevalgono sugli interessi collettivi. Sono le decisioni immobili, quelle che farebbero bene alla collettivita e invece restano là, appese, sospese e mai prese perché chi è pagato per decidere, nella pubblica amministrazione, fa tutto tranne prendere decisioni importanti che non abbiano altro obiettivo se non il profitto personale. Sono gli obiettivi miseri ingigantiti come le ombre della caverna e le logiche “make or buy”, che sarebbe meglio chiamare “buy or buy”, perché non serve più studiare un problema e trovare le soluzioni adeguate, se si possono acquistare soluzioni costosissime che fanno “quasi” tutto quello che serve e a volte vengono acquistate preventivamente senza nemmeno avere un problema da risolvere. Sono i giorni persi non per lavorare, ma per creare le condizioni affinché si possa lavorare. Sono i fallimenti di chi resta sempre impunito, perché chi sbaglia, nel pubblico, non paga mai, semmai riceve un premio. Capita, però, che un prigioniero riesca a rompere le catene, esca dalla caverna e si accorga che esiste il sole. Inizialmente resta accecato, ma poi riesce a vedere posti nei quali la cultura è un valore e il merito non è una menzogna rimpallata tra la dirigenza e i sindacalisti. Vede posti in cui le idee, le buone idee, da sole bastano per avere “i mezzi e le chiavi del laboratorio”, senza dover aspettare le concessioni da parte di qualcuno che prima o poi chiederà qualcosa in cambio, fosse anche l’attribuzione indegna di meriti che non gli appartengono. Vede i giganti su cui Newton si è appoggiato per guardare più lontano e il rispetto il pensiero e la condivisione dei benefici. Il cervello fugge perché si rende conto di poter essere libero, libero da un sistema malato e illusorio che prosciuga gli animi e riduce a zero le aspettative. A volte capita anche che il cervello libero torni nella caverna per raccontare cosa c’è fuori e dare la stessa opportunità di libertà agli altri prigionieri, quelli che non hanno catene reali, ma sono schiavi della narrazione distorta frutto di quell’unica realtà che vedono e nella quale credono ciecamente. Le ombre sono l’unica verità che conoscono e rappresentano le vere catene da cui non si può scappare. Uscire dalla caverna e guardare il sole richiede uno sforzo troppo grande per gli occhi abituati al buio. Significa rischiare e affrontare il cambiamento. Significa contaminarsi, accettare le diversità degli altri, esporsi a rischi e delusioni. Si dice che i canarini nati in gabbia non sappiano cosa significhi volare, e per le persone è più o meno così: un cervello nato in gabbia non sa cosa significhi pensare. Restare nella caverna significa rinunciare al pensiero e alla ragione: alcuni (per fortuna) non resistono. E sono tanti i cervelli che non ce l’hanno fatta a resistere e hanno lasciato la caverna: più di 800.000 in dieci anni, secondo l’Istat. Ognuno porta via qualcosa, poco importa se sia un brevetto rivoluzionario o la ricetta della pizza napoletana: ogni italiano emigrato è una piccola parte del Paese persa per sempre. È una sconfitta che non può essere giustificata in nessun modo, se non attraverso l’amara consolazione che quel pezzo “buono” d’Italia non viene perso, ma contamina altre culture e in qualche modo rende giustizia ai volenterosi che restano: agli eroi malpagati che fanno turni massacranti nelle corsie degli ospedali, agli idealisti ostinati che passano la vita nei laboratori, ai rassegnati nei corridoi dei ministeri e agli ingenui che pensano di cambiare le cose, illudendosi di far volare i canarini nati in gabbia.

Lo Smart Working e il mito della Fata Morgana

Posted on 11 Febbraio 202011 Luglio 2021 by admin

Avete presente il mito della Fata Morgana, quello da cui prende nome il fenomeno fisico visibile da Reggio Calabria? Si tratta di una specie di miraggio, che ingrandisce Messina e la proietta talmente vicina alla Calabria da illudere i calabresi di poterla toccare, allungando una mano. Si chiama “effetto Fata Morgana” perché la leggenda vuole che la sorellastra di re Artù, Morgana, arrivata insieme a lui in Sicilia su una barca che aveva il simbolo celtico della triscele, andò a vivere in un castello sott’acqua al centro dello stretto di Messina per proteggere il fratello rimasto sull’isola. In un leggendario mese d’agosto, un re barbaro arrivò a Reggio per conquistare la Sicilia. Morgana, per proteggere il fratello, fece apparire la Sicilia talmente vicina alla Calabria che il re si illuse di poterla raggiungere a nuoto. Mentre nuotava, però, l’incantesimo si interruppe e il re barbaro morì affogato. 

Vi starete chiedendo se avete sbagliato articolo, perché vi parli di miti e leggende e cosa c’entri lo smart working con la Fata Morgana. Mi verrebbe da rispondere che la triscele è sì un simbolo celtico, ma è anche il simbolo della Regione Siciliana, probabilmente ha origini orientali e rappresenta il moto del sole rotante attraverso un essere con tre gambe che si inseguono, ma effettivamente porterei i lettori fuori tema. Il paragone, comunque, è quanto mai pertinente: la Fata Morgana è la protettrice del sistema melmoso che governa la pubblica amministrazione. Per vedere l’effetto Fata Morgana, non c’è bisogno di un particolare indice di rifrazione della luce del sole nei diversi strati d’aria, come nel caso del fenomeno fisico, basta pronunciare la parola smart working e miracolosamente appare il miraggio di una società moderna, che rispetta il lavoro e i lavoratori, che risparmia le risorse, che non inquina, che restituisce agli individui la cosa più preziosa che un essere umano possa avere, il tempo, e che restituisce anche il piacere di lavorare con gli altri e di incontrarsi quando serve, evitando di convivere come polli in piccole stanze e sedi sempre più costose e inutili. È grazie alla Fata Morgana se il miraggio appare, sparisce e i lavoratori affogano illusi e disillusi. Ma chi è la Fata Morgana, nella Pubblica Amministrazione? La Fata Morgana è una commistione tra dirigenza e sindacati, tra spartizione dei poteri e conservazione dei privilegi, tra finte prove di forza e meschine dimostrazioni di debolezza, è una palude melmosa fatta di burocrazia, di accordi siglati sottobanco, di riunioni massoniche, di graduatorie poco trasparenti e di regole impopolari che creano disuguaglianze, malcontenti e mettono i lavoratori l’uno contro l’altro. La Fata Morgana è la menzogna che illude i lavoratori, li demotiva, li svuota da ogni entusiasmo, li fa scappare all’estero, li porta a odiare il lavoro, i colleghi, le dinamiche lavorative e causa ansia, depressione e sfiducia. La Fata Morgana è una narrazione del lavoro che confonde i diritti con i privilegi, il potere con il dovere, che divide i lavoratori e crea obiettivi miserabili, premi ridicoli e guerre tra poveri disastrose. La Fata Morgana riesce a tirare fuori il peggio dai lavoratori, li abitua al brutto affinché la promessa di qualcosa non dico di bello ma di meno brutto venga vista come un traguardo. La Fata Morgana è il sistema di un Paese vecchio e stanco in cui la Pubblica Amministrazione resta sempre 20 anni indietro perché è vittima di sé stessa. La Fata Morgana non muore mai, perché è un personaggio reale che nasce dal mito e continuerà a illudere coi suoi miraggi i cittadini e i lavoratori onesti, continuerà a spegnere gli entusiasmi e a far fuggire i propri figli in Paesi in cui i miraggi non esistono. Chiarito questo aspetto, cerchiamo di capire come si possa far fallire qualcosa che comincia con la parola “smart”. Eppure, l’auto che porta quel nome, a parte gli improperi di chi è convinto di trovare un parcheggio libero e invece si accorge che è occupato da una Smart, ha avuto un ottimo successo… 

Qualsiasi iniziativa, anche la migliore, può diventare un fallimento, se viene raccontata nel modo sbagliato. E per raccontare qualcosa nel modo sbagliato, basta cambiare il significato alle parole, mascherarle, stravolgerle. Con lo smart working lo stravolgimento delle parole è stato abbastanza semplice da attuare: in Italia, soprattutto nella  pubblica amministrazione, è stato tradotto in “lavoro agile”, col benestare nientepopodimeno che dell’Accademia della Crusca. Però, il significato di smart non è esattamente agile e l’uso di questa parola è stata un’inconsapevole captatio malevolentiae perché da subito ha fatto sì che la sua accezione fosse associata quasi unicamente al concetto di conciliazione vita e lavoro, ideato negli Stati Uniti negli anni ‘70 e arrivato in Italia con 40 anni di ritardo. E passare dalla conciliazione vita e lavoro all’assistenza e ai casi umani, nella pubblica amministrazione, ci vuole veramente poco. Di conseguenza, la parola smart working (di cui fa parte anche il telelavoro, con buona pace di chi sostiene il contrario) ha permesso di creare uno strumento assistenziale che solleva le amministrazioni dall’obbligo sociale e morale di usare altri strumenti per assistere il personale con situazioni di disagio.

Purtroppo per noi, la parola agile lascia fuori altri aspetti legati allo smart working, altrettanto importanti, che rappresentano il vero cambio culturale in cui si trova immersa la società : i modelli comunicativi smart,  le dinamiche e i processi smart dell’Industria 4.0, il lavoro smart attraverso il cloud, le piattaforme virtuali e i sistemi interconnessi. Se il problema fosse solo la traduzione letteraria, non ci sarebbe bisogno di sottolinearlo, ma lasciare fuori gli aspetti centrali della trasformazione digitale non è solo una questione di traduzione, è una questione di fallimento. Di solito, le ragioni che conducono verso un fallimento sono sempre molteplici, ma hanno una madre comune: l’ignoranza. Nel caso specifico, ci sono anche ragioni minori; l’esercizio del potere, il bisogno di controllo, l’incapacità di pianificare e lavorare per obiettivi, la prerogativa di creare disuguaglianza, la burocrazia, la paura e altre virtù che la Fata Morgana non disdegna. Il problema è che l’ignoranza della Fata Morgana non riguarda soltanto il lavoro agile perché se non riesce ad attuare lo smart working, significa che non riesce a pianificare le attività, non riesce ad analizzare i costi e a ottimizzare le spese, non riesce a lavorare a far lavorare per obiettivi, non riesce a gestire i processi lavorativi e non ha idea di cosa sia il benessere organizzativo. In rete si può leggere un working paper molto interessante (Il lavoro agile tra legge e contrattazione collettiva: la tortuosa vita italiana verso la modernizzazione del diritto del lavoro, Tiraboschi, in WP CSDLE “Massimo D’Antona 335/2017), che fornisce un quadro chiaro della situazione italiana; quella che per i non addetti ai lavori è solo una sensazione, per gli esperti di diritto del lavoro è una certezza confermata dai fatti: gli ostacoli all’applicazione dello smart working non sono contenuti nella normativa, ma nella testa di chi dovrebbe attuarla. Se da una parte, la normativa c’è e lascia ampia libertà, dall’altra, la Fata Morgana, che non ha dimestichezza con la libertà, è resistente ad attuarla e ha bisogno delle imposizioni. Non dimentichiamo che l’Italia è quel Paese in cui, per obbligare i motociclisti a salvarsi la vita, è stato necessario fare una legge che imponesse l’obbligo di indossare il casco. La Fata Morgana non altererebbe mai gli equilibri melmosi di convenienze e connivenze, quando lo fa è perché c’è una rivoluzione in corso o un’imposizione dall’alto. Quando arriva l’imposizione da un provvedimento governativo o da un dirigente illuminato, la Fata Morgana agisce come è abituata a fare: in modo scomposto, cercando di tamponare l’emergenza. Il primo passo riguarda la costruzione del miraggio, il bando. E il lavoratore lo vede quel miraggio, ci crede. Dà fiducia alla Fata Morgana.  Vede la possibilità di crescere i figli serenamente senza correre di qua e di là, ma anche di non restare imbottigliato ore nel traffico. Vede la possibilità di lavorare dalle 21 alle 2 di notte perché col silenzio si concentra meglio. Vede la possibilità di vendere l’auto, perché una in famiglia è più che sufficiente, e di lasciar perdere colf e baby sitter, scoprendo che lo stipendio può bastare anche senza fare gli straordinari. Vede la possibilità di consumare meno risorse, per lasciarne un po’ anche agli altri, e di mangiare qualcosa di più sano dei pasti della mensa aziendale. Di solito, però, questo miraggio inizia a dissolversi quando al bando viene associato un regolamento più o meno fantasioso. I regolamenti, si sa, sono fatti apposta per creare disuguaglianze e malcontenti. Dai regolamenti di telelavoro/smart working, e negli anni ne ho visti tanti, si percepisce subito il disegno della Fata Morgana: il lavoro agile deve sembrare un privilegio che il datore di lavoro “concede” al lavoratore. E in questo caso le parole “privilegio” e “concessione” sono fondamentali. La Fata Morgana è contemporaneamente buona e cattiva perché concede qualcosa riservata a pochi figli prediletti. E come si fa a individuare i figli prediletti? Con una gara a cui si può partecipare elencando una serie di disgrazie che vengono chiamate requisiti. E la Fata Morgana non si vergogna a proclamare vincitori persone che, per un motivo o per un altro, il premio della disgrazia non avrebbero mai voluto vincerlo. Per fortuna, non sempre i vincitori hanno problemi reali. Poiché si tratta di una gara, esistono anche partecipanti sleali che producono false disgrazie, ingannano la Fata Morgana, e vincono non il lavoro agile, ma un consistente numero di giorni di ferie di cui nessuno chiederà mai conto. Perché la nostra dea, diciamo la verità, crea le condizioni per indurre i partecipanti a comportarsi meschinamente e a ingannarla.

Il miraggio scompare quasi del tutto quando una qualche commissione è chiamata a fare delle valutazioni oggettive per assegnare i premi. Se fosse un esperimento fisico, si potrebbe ricorrere alla teoria di propagazione degli errori, per dare dei risultati attendibili, ma nella pubblica amministrazione non serve né il rigore scientifico né tantomeno la trasparenza: le commissioni sono lo strumento con cui si somministrano ai lavoratori le ingiustizie mascherate da verità. È normale, secondo voi, che, per ottenere il lavoro agile, un lavoratore debba arrivare a chiedersi quanti punti vale essere in terapia oncologica? Perché la Fata Morgana ci tiene tanto a umiliare coloro i quali la tengono in vita? Questo sarebbe l’approccio “smart” al lavoro?

Sembra impossibile che la Fata Morgana non si chieda, quale sia il costo di un lavoratore in ufficio e di un lavoratore “smart”, che non si chieda se sia il caso di cominciare a controllare  i risultati e non gli obiettivi, che non si chieda quanto sia ingiusto creare inutili competizioni e disuguaglianze, che non si chieda quanto sia inutile misurare il tempo e non i risultati. Se si ponesse queste domande, però, sarebbe un altro mito, e la Fata Morgana è nata per far apparire i miraggi e farli scomparire.

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